Quel pasticciaccio della par condicio
«Par condicio» vuol dire che in qualsiasi gioco o contesa
i contendenti devono essere in pari condizioni. Se no quel gioco non può
essere giocato, visto che è già vinto o perduto in partenza.
Un duello non può essere tra chi ha pistola e chi spada; una corsa
non
può essere tra un appiedato e un motorizzato; e in una partita
a scacchi un giocatore non può avere due regine. Invece nella
politica italiana esiste un protagonista che gioca con due regine.
Il problema delle pari condizioni viene spesso confinato agli spot.
Ma a torto. Il problema si pone in tre contesti. Il primo è sì
quello
degli spot televisivi; ma il secondo è il contesto del conflitto
di interessi; e il terzo investe il problema dell'incompatibilità.
Sembrano
discorsi diversi; e difatti lo sono. Ma si rifanno a un comune filo
conduttore: al problema posto da un ingiusto vantaggio, da una
concorrenza sleale, e quindi di una disparità che viola le regole
del gioco democratico.
Comincio dagli spot. Non perché questo sia il problema più
importante, ma perché è già in accesa discussione
al Senato. La
controversia sugli spot è ingigantita da una confusione tra
pubblicità (in inglese, e più chiaramente detto, commercial)
e
propaganda politica. Ora - sia chiaro - nessuno si sogna di vietare
la propaganda politica. Il divieto di spot vieta solo i commercials.
E siccome questo divieto esiste in toto non solo in Spagna ma anche
in Inghilterra, Germania e altri Paesi europei di indubbia fede
democratica, è davvero difficile sostenere che il circoscritto
divieto proposto dal governo D'Alema sia «liberticida». Aggiungi
che
in Italia il divieto di spot ha questa ragion d'essere in più:
che a Berlusconi la sua pubblicità politica su Mediaset viene pressoché
gratis, mentre gli altri partiti la debbono pagare a lui. Questa è
una disparità di condizioni che non esiste al mondo, che nessuna
democrazia può accettare, e che non sarebbe in alcun modo rimediata
dal consentire spot gratuiti a tutti - Forza Italia inclusa - sulla
televisione pubblica.
Al che Berlusconi ribatte che lui viene svantaggiato dalla televisione
di Stato e che quindi lui si limita, con le sue reti, a riequilibrare
la partita. Sì e no. Anche se le misure citate da Berlusconi
(i minuti di presenza in televisione) sono irrilevanti e non provano nulla,
è indubbiamente vero che la televisione di Stato dà più
tempo e spazio al governo che all'opposizione. Ma così avviene
«naturalmente» ovunque. Un po' perché la Tv pubblica
è costitutivamente tenuta a dare «visibilità istituzionale»
(che è cosa diversa
dal propagandare) a quel che avviene nelle istituzioni. E in parte
perché quel che un governo in carica fa è oggettivamente
più
importante di quel che l'opposizione ne dice. Il problema italiano
non è questo. Il problema è che se Berlusconi andasse al
potere
lui «occuperebbe» la Rai (come ha già fatto nel
'94, e, beninteso fanno anche gli altri) senza per questo perdere Mediaset.
E in tal
caso lui controllerebbe il cento per cento. O no?
Passo al conflitto di interessi. La fattispecie è contemplata
nel nostro Codice civile (articolo 2373) nel quale si prevede che
l'amministratore di una società si deve astenere dal voto quando
è in gioco un suo interesse personale. Il principio è dunque
che un
interessato, una parte in causa, non deve avere il potere di favorire
se stesso. Trasferito nell'ambito pubblico il conflitto di interesse
si traduce nel reato di «interesse privato in atti di ufficio»:
l'avvalersi di una carica pubblica per favorire un interesse proprio.
E non c'è dubbio al mondo che Berlusconi si trovi in flagrante
conflitto di interessi, vuoi che sia capo del governo oppure leader
dell'opposizione. Perché il Cavaliere si avvale del possesso
di un impero di strumenti di comunicazione di massa per conquistare il
potere politico, e poi usa il potere politico per rafforzare il suo
potere economico.
Il conflitto d i interessi è così patente che nemmeno
Berlusconi lo nega, tantovero che viene da lui - quando era capo del governo
-
la proposta di sanarlo con il cosiddetto blind trust: il conferimento
«cieco» del suo patrimonio a una amministrazione fiduciaria.
Ma
Berlusconi accetta il blind trust perché sa che questo ritrovato
è efficace per un patrimonio finanziario, ma per niente «cieco»
e
quindi del tutto inefficace per un patrimonio industriale come il suo.
Il Cavaliere vedrà sempre benissimo, anche se nessuno gli
mostra carte, qual è l'interesse di Mediaset.
Che fare? Il disegno di legge sul blind trust è stato lungamente
insabbiato dalla stupidità di una sinistra che ha creduto di avere
in
mano uno strumento di ricatto del quale Berlusconi giustamente ride
(in effetti a lui il blind trust fa da comodo alibi). E ora
stupidamente sta per arrivare, dopo essere stato stupidamente approvato
all'unanimità (!) dalla Camera nell'aprile 1998, all'esame
del Senato. Se verrà definitivamente approvato non servirà
a nulla, sarà una ennesima beffa del bravissimo Cavaliere. E quindi
temo che a questo punto il problema della «par condicio»
possa essere affrontato soltanto in termini di incompatibilità,
e quindi di
ineleggibilità (proposta Passigli del '94, riproposta nel '96,
e ora in coda al Senato).
Sia chiaro: il conflitto di interessi non comporta di per sé
incompatibilità. Se la comporta è solo perché altre
soluzioni non
funzionano. Deve anche essere chiaro che l'incompatibilità è
un principio generale del diritto a sé stante. Per esempio, chi
fa il
giudice non può contestualmente fare l'avvocato dell'imputato
sottoposto a giudizio. Le due cose sono incompatibili, si escludono
per definizione. E nell'esempio dato il conflitto di interessi non
c'entra.
Sull'incompatibilità è naturale che Berlusconi si infuri:
è l'unico principio che veramente lo mette in difficoltà.
Ma il Cavaliere
sbaglia quando dichiara che quel principio è ad personam, fatto
su misura per lui. In verità la ineleggibilità parlamentare
per motivi
di incompatibilità esiste nel nostro ordinamento da più
di quaranta anni.
In particolare l'articolo 10 del Dpr 30 marzo 1957 n. 361 stabilisce
la ineleggibilità di chi gode di concessioni statali. Nessuno ne
gode più di Berlusconi; ma resta che nel 1957 Berlusconi non
esisteva, e quindi che quella «persecuzione» non è stata
inventata
per lui. Peraltro il Cavaliere ha davvero ragione di protestare alla
luce del fatto che quella legge è sempre restata disattesa, e cioè
aggirata da una interpretazione capziosamente legalistica della giunta
delle elezioni della Camera, che la fa valere soltanto nei
confronti del titolare legale di una concessione e non del vero proprietario.
Sono più di quaranta anni, dunque, che il nostro Parlamento viola
spudoratamente e vergognosamente il principio della
incompatibilità. Se vorrà perseverare nel violarlo, allora
il pasticciaccio della «par condicio» resterà insoluto
e diventerà sempre più
insolubile.
L'alternativa è di argomentare che tardi è sempre meglio
che mai. Nel primo caso avremo una democrazia sempre più malata
impiombata da una concorrenza sempre più distorta. Nel secondo
caso chi crede nella democrazia competitiva può ricominciare a
sperare.