Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
 
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La Stampa - 08/01/2000

di Massimo Luciani

Neutralità impossibile

Allora è deciso: il Governo non interverrà in nessuno dei giudizi di ammissibilità dei referendum, sui quali tra poco si pronuncerà la Corte Costituzionale. Il presidente del Consiglio ha dichiarato che questa scelta è «frutto di una sintesi unitaria», e ha fatto capire che si deve imputare alla volontà di non «esercitare alcuna pressione» e di mantenere una «posizione di garanzia». La motivazione della scelta lascia a dir poco perplessi, in particolare per quanto riguarda i cosiddetti referendum sociali. La cosa strana, infatti, è che il governo non ha per nulla deciso di disinteressarsi di quei referendum, ma ha assunto una posizione contraria, il che priva di valore le argomentazioni invocate. Prendiamo l’esigenza di non esercitare pressione. A parte il fatto che il governo dovrebbe dare per scontato che, pressioni o non pressioni, la Corte deciderebbe comunque secondo coscienza, è evidente che non basta l’assenza davanti al giudice costituzionale per dire di essere rimasti alla finestra se poi si prende una posizione politica non neutrale. Quanto all’idea che il governo assuma una posizione di garanzia, poi, si tratta di un assunto piuttosto bizzarro, perché chi deve garantire, qui, è solo la Corte Costituzionale, mentre il governo, fino a prova contraria, dovrebbe svolgere la sua funzione (tutt’altro che garantista...) di indirizzo politico. L’ipotesi della garanzia, poi, si liquefà immediatamente, nel momento stesso in cui il governo (giustamente, stavolta) decide di fare il proprio mestiere (e cioè di compiere scelte politiche). In realtà, se il governo fosse davvero e chiaramente contro i referendum sociali, l’intervento nel giudizio di ammissibilità sarebbe semplicemente una logica conseguenza tecnica di questa opzione politica, che non aggiungerebbe e non toglierebbe nulla alla scelta già compiuta. Per giunta, basta avere un minimo di conoscenza del controllo di ammissibilità sui referendum, per sapere che il contraddittorio favorisce la completezza del giudizio e che addirittura si risolve in un vantaggio per gli stessi promotori, che proprio grazie ad un avversario possono conoscere le obiezioni alle loro richieste e controbattere colpo su colpo, senza essere costretti a ipotizzare le critiche più varie, per poi contestarle. Se alla scelta politica non ha fatto seguito la logica conseguenza giuridica, allora, lo si deve a qualcosa di ben diverso. Le possibilità sono sostanzialmente tre (e non è detto che una sola sia quella giusta). La prima, è che il governo sia diviso, e che il compromesso un po’ sbilenco che è venuto fuori sia solo il frutto di questa divisione. La seconda è che sia accaduto oggi quel che era già accaduto in alcune precedenti occasioni, quando il governo, nell’incertezza sull’esito del voto, ha preferito non impegnare la propria responsabilità politica. La terza è che l’abbassamento del livello di opposizione ai referendum sociali sia imputabile alla volontà di lanciare un ponte verso i loro promotori, che del resto toccano corde liberiste al cui suono vi è, nel governo, chi non resta insensibile. Con le elezioni regionali alle porte; nella realtà di una maggioranza fluida e instabile; con l’esigenza di contare sul maggior numero di appigli per arrivare indenni alla fine della legislatura, quest’ultima possibile motivazione del curioso atteggiamento governativo non va trascurata.



 
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