Nei lontani anni settanta i radicali si caratterizzarono, nel panorama
politico italiano, come un movimento in difesa dei diritti civili. Divorzio,
aborto, liberalizzazione delle droghe, furono i temi delle loro più
importanti battaglie, condotte le prime due con la mobilitazione a sostegno
del "no" contro altrettante proposte di referendum abrogativo. Oggi quello
stesso movimento ha letteralmente capovolto i suoi antichi obiettivi: non
la difesa, ma la soppressione dei diritti fondamentali, per di più
dei soggetti più deboli. Ben dieci dei venti referendum radicali
chiedono infatti la cancellazione delle garanzie più elementari
dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali: l'abrogazione del diritto,
previsto dall'art.18 dello statuto dei lavoratori, alla reintegrazione
nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa; l'eliminazione
di tutti i limiti e le garanzie imposte ai contratti di lavoro a tempo
determinato, a tempo parziale e a domicilio; la sopressione di ogni regolamentazione
e controllo sul collocamento al lavoro in favore della libera mediazione
privata, secondo il modello dell'antico caporalato. E, ancora: la vanificazione
dei diritti alla salute e alla previdenza tramite la soppressione, in favore
del sistema assicurativo privato, dell'operatività ex lege così
del servizio sanitario nazionale come dell'assicurazione Inail contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali; l'abolizione delle pensioni
di anzianità; il divieto di trattenuta sulla busta paga dei contributi
degli iscritti ai loro sindacati; la soppressione infine del finanziamento
pubblico agli istituti di patronato sindacale, eredi delle vecchie società
di mutuo soccorso e finalizzati alla difesa gratuita dei diritti di chi
non può permettersi costosi avvocati e commercialisti.
E' precisamente questa libertà selvaggia l'esito perseguito, nei rapporti di lavoro e nelle relazioni sociali, da questi incredibili referendum: l'abbattimento dell'intero edificio del diritto del lavoro e di buona parte dell'odierno stato sociale. Uno dei cardini di questo edificio è infatti la garanzia del posto di lavoro contro l'arbitrio padronale: contro i licenziamenti illegittimi perché senza giusta causa; contro il potere del datore di lavoro di stabilire durata, forme e contenuti del rapporto di lavoro; contro, in una parola, il trattamento dei lavoratori come cose anziché come persone.
Si tratta di una garanzia che è pregiudiziale a quella di tutti gli altri diritti. Giacché è evidente che nessun diritto - l'orario di lavoro, il riposo settimanale, le ferie, il pagamento degli straordinari, la stessa misura della retribuzione - è seriamente esigibile di fronte alla minaccia, sempre incombente, del licenziamento arbitrario o del non rinnovo del contratto a tempo determinato. Certo, il referendum sull'art.18 dello Statuto dei lavoratori non chiede l'abolizione del divieto di licenziamento senza giusta causa. Esso ne sopprime tuttavia la principale garanzia, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, lasciando sopravvivere solo la sanzione del risarcimento del danno, quantificato per di più, in contrasto con il principio di uguaglianza, non già secondo il criterio generalmente applicato del danno effettivamente prodotto (la perdita del salario fino al momento di una nuova assunzione), ma nella misura irrisoria della retribuzione da un minimo di due mesi e mezzo a un massimo di sei mesi di mensilità. Il risultato non è la semplice libertà di licenziamento, che già esiste ed è ampiamente praticata, ma la libertà del licenziamento illegittimo. E' pensabile che un lavoratore ingiustamente licenziato intenti una causa per ottenere qualche misera mensilità di retribuzione, affrontando i rischi e le spese di un processo e non potendo neppure beneficiare, ove fosse approvato un altro dei referendum proposti, dei servizi offerti dai patronati sindacali?
Del resto il risultato di una totale precarizzazione del posto di lavoro viene di fatto perseguito, ancor più direttamente, dal secondo referendum in materia di lavoro, quello volto a introdurre la possibilità illimitata per il datore di lavoro di apporre un termine ai contratti di lavoro. L'istituto del contratto di lavoro a termine, previsto oggi come eccezionale in presenza di particolarissime condizioni, risulterebbe così generalizzabile. E' chiaro che tutti i contratti di lavoro finirebbero per essere a termine; anche perché il quesito referendario si è preso cura di chiedere l'abrogazione perfino dell'art.5 della legge del '62, secondo cui al lavoratore a tempo determinato spettano, "in proporzione al periodo lavorativo prestato", le ferie, la tredicesima mensilità, l'indennità di fine rapporto e "ogni altro trattamento" previsto per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La conseguenza sarebbe che il datore di lavoro, avendo la facoltà di non rinnovare il contratto alla scadenza, non dovrebbe neppure sottoporsi al fastidio di giustificare il licenziamento.
Un'analoga generalizzazione subirebbero d'altro canto i contratti
di lavoro a tempo parziale, oggi limitati a pochi tipi di lavoro e per
percentuali massime di lavoratori rispetto al numero dei dipendenti, e
quelli di lavoro a domicilio, attualmente vietati alle imprese che abbiano
smantellato in tutto o in parte l'organizzazione del lavoro subordinato
o effettuato licenziamenti per crisi aziendale. Insomma, tutto il lavoro
nero risulterebbe legalizzato, e dell'intero diritto del lavoro non rimarrebbe
più nulla. Se poi ai referendum sul lavoro si aggiungono quelli
contro i diritti alla salute e alla previdenza, si capisce come l'obiettivo
dell'intera iniziativa referendaria sia l'azzeramento di un secolo di lotte
e di conquiste civili e la regressione all'anarco-capitalismo ottocentesco.
Non sono questi tuttavia, anche se macroscopici e ciascuno da solo sufficiente, i principali motivi di inammissibilità di questi referendum. Questi referendum sono illegittimi per il motivo ben più sostanziale e di fondo del loro carattere eversivo dell'intero disegno della nostra costituzione. Essi stravolgono l'identità stessa della nostra Repubblica quale risulta dai suoi tre primi "principi fondamentali", i quali sono sottratti perfino alla possibilità di revisione con legge costituzionale: l'art.1, che definisce "l'Italia una Repubblica democratica fondata sul lavoro"; l'art.2, secondo cui "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo" e "richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"; l'art.3 sul principio di uguaglianza, dato che i diritti fondamentali da essi travolti sono logicamente, in quanto universali, alla base dell'uguaglianza giuridica, che è per l'appunto un'uguaglianza en droits. E contraddicono, sotto più profili, una lunga serie di altri principi costituzionali. Sicché sono costituzionalmente illegittimi, giacché il referendum ha valore di legge ordinaria, e non può quindi derogare alla costituzione né tanto meno stravolgerne i principi o sovvertire il complessivo assetto costituzionale.
In particolare, i referendum sul lavoro, primi tra tutti quelli
sui licenziamenti e sui contratti a termine, violano tutti i principi costituzionali
in materia di lavoro: l'art.4, che stabilisce il "diritto al lavoro" e
sul quale la Corte costituzionale ha fondato la restrizione dell'autonomia
privata proprio in tema di licenziamenti ingiustificati (C.Cost. 16.3.1976,
n.47) e di collocamento al lavoro per il tramite della mediazione privata
(C.Cost. 28.11.1986, n.248); l'art.35, secondo cui "la Repubblica tutela
il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni"; l'art. 36, che infine
stabilisce una lunga serie di diritti - all'equa retribuzione, a una durata
massima della giornata lavorativa, al riposo settimanale e alle ferie retribuite
- che, oltre ad essere espressamente soppressi per i contratti a tempo
determinato, sarebbero comunque tutti compromessi, come si è detto,
dal ricatto permanente della perdita del posto di lavoro.
Si rivela qui la concezione illiberale della democrazia che sta alle spalle di questi referendum sedicenti "liberali": illiberale nei contenuti, dato che il loro obiettivo è una limitazione dei diritti individuali in favore di un potere legibus solutus dei poteri privati; illiberale nel metodo, dato che il potere di limitare tali diritti viene conferito, per via referendaria, al potere politico, a sua volta legibus solutus, della maggioranza. Risulta così contraddetto alla radice - da queste due forme convergenti di assolutismo, l'assolutismo della maggioranza e l'assolutismo del mercato - l'intero paradigma liberal-democratico dello stato di diritto, che vuol dire soggezione alla legge di qualunque potere a garanzia dei diritti di tutti e sistema di limiti e controlli idonei a impedire il formarsi di poteri assoluti e illimitati, sia pubblici che privati.
O forse tutto questo non c'entra. Forse dietro questi referendum c'è solo incultura e irresponsabilità: l'irresponsabilità di chi gioca demagogicamente con il diritto e con i diritti (degli altri), senza capire assolutamente nulla dei principi di civiltà giuridica sui quali si basa quel fragile edificio, costruito a prezzo di lotte secolari, che è la democrazia costituzionale.