Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
 
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il manifesto - 14/01/2000

Galapagos
 

Un guanto per la clava

La tattica di Fossa sui referendum "sociali"

"Uno strumento rozzo", è stata la definizione che ieri Fossa ha dato dei referendum. Anche la prima arma utilizzata dagli uomini, la clava, era uno strumento rozzo. Efficace, però, per spaccare la testa agli avversari. A meno che il "nemico" volontariamente non si sottomettesse. Anche la Confindustria ha brandito minacciosamente uno strumento "rozzo" ma, parola di Fossa, è pronta a dialogare con il governo e i sindacati se questi accetteranno lo smantellamento dei diritti del lavoro che i referendum sociali vogliono abolire.

 Solo tattica "volgare" quella della Confindustria? Non credo. In Via dell'Astronomia giocano una carta che mai in passato era stata tentata: l'intervento diretto in politica per imporre una opzione reaganiana al mondo del lavoro. Per imporla ai sindacati e al governo, da chiunque presieduto, anche se la preferenza rimane il centro sinistra. Il Polo, infatti, non appare in grado di garantire politicamente nulla e allora per la Confindustria meglio seguire la teoria di Agnelli secondo la quale la politica più di destra la realizzano più facilmente i governi di sinistra.

 Il tutto, naturalmente, anche a costo di una "rottura" traumatica. In Fiat ne sembrano convinti. Non a caso, nell'editoriale di ieri del giornale di famiglia, La Stampa (titolato: "E' finito il tempo del dialogo") si sostiene che "se la politica è confronto e anche scontro, allora la politica nasce adesso, con la conseguenza, tuttavia, che sarà più netto e brutale il confine tra 'vincenti' e 'perdenti' tracciato dalle prossime scelte pubbliche poco concertative e molto conflittuali". Insomma, la Confindustria va allo scontro duro, mettendo i piedi nella politica. Per gli industriali una novità quasi assoluta. Fino alla fine degli anni '50 la divisione dei compiti tra politica e economia fu netta: la Confindustria delegava la gestione politica alla Dc e la Dc (con i suoi miseri alleati) affidava la gestione economica alla Confindustria che tollerava anche la presenza invadente, ma estremamente utile, delle partecipazioni statali. Un piccolo strappo ci fu ai tempi della nazionalizzazione dell'energia elettrica: per cercare di vincere la battaglia (non condivisa da tutti gli industriali) fu generosamente foraggiato il Pli di Malagodi (un gigante, rispetto ai liberali/liberisti attuali). Poi di nuovo la palude democristiana nella quale si infognò anche il giovane Umberto Agnelli senza molti imitatori.

 La Confindustria, insomma, è sempre stata a favore dei governi. Magari con mugugni e lamenti, ma sempre fedele e disinteressata alla politica. Perfino nell'85 (Craxi presidente del consiglio) quando scese in campo il Pci, dopo l'accordo di San Valentino dell'84 che si fece promotore del referendum per far recuperare ai lavoratori i punti di scala mobile scippati. La giunta della Confindustria quella volta non fece pubblici pronunciamenti. Forse era convinta di perdere, sottovalutando l'appoggio che Cisl, Uil e parte della Cgil davano a Craxi. Non a caso, a urne ancora aperte, Lucchini, allora presidente della Confindustria, annunciò che la sua organizzazione dava la disdetta dall'accordo sulla scala mobile. Dopo la vittoria gli industriali ci ripensarono, ma la strada era aperta.

 Tanto aperta che nel '92 e poi nel '93 la scala mobile fu definitivamente sepolta e la concertazione diventò il verbo. Logico: con regime di cambi fissi era necessario tenere bloccati i salari per consentire all'inflazione di operare una decisa redistribuzione dei redditi a favore dei profitti. D'altra parte, in quegli anni la Confindustria non poteva pretendere più di tanto: il cuore dell'imprenditoria era finito nella rete di "mani pulite". E questo spiega, forse, anche il mancato appoggio (che ci fu, ma piuttosto sotterraneo) a Berlusconi e al suo sgangherato governo che, primo, inaugurò l'era dei transfughi, per cercare di presentare qualche nome decente tra i suoi improvvisati ministri. Forse la Confindustria era consapevole che non era Berlusconi il cavallo vincente. Tanto convinta che anche l'appoggio alla riforma delle pensioni che il cavaliere voleva imporre, non fu sostenuta con forza, anche se era proprio quello che gli industriali avrebbero voluto.

 D'altra parte, dopo la grande svalutazione del '92, occasioni d'oro non mancavano, anche se più che la produzione era la finanza a affascinare i grandi capitani d'industria. Ma di soldi ne hanno fatti tanti: secondo le stime più recenti, negli anni '90 la quota di reddito finito al lavoro dipendente è scesa di 9 punti e la fetta di torta di Pil finita agli industriali si è ingigantita. E poi, c'era anche da portare a casa le privatizzazioni, spartirsi le banche e le imprese che lo stato dismetteva spesso a quattro lire: Comit, Credit, Mediobanca, Ina e via dicendo. Un banchetto al quale il pubblico dei comuni risparmiatori non fu ammesso.

 Ma i soldi non sono tutto. Ora parte l'ultimo attacco: non ai salari, ma al controllo della forza lavoro per affermare i principi della flessibilità e della mobilità, per ristabilire le distanze tra padrone e dipendente. L'esordio fu con le improbibili minacce di trasferire all'estero, dove il costo del lavoro è più basso e lo sfruttamento più alto, le produzioni. In realtà i soldi che andavano all'estero erano banali investimenti finanziari, come ci ha spigato il governatore della Banca d'Italia. Quanto poi alle imprese estere che non investono più in Italia, tutto (o quasi) quello che c'era di appetibile è già inghiottito da anni. E quando si cercò di dare un futuro statunitense all'Alfa Romeo, la famiglia e Romiti fecero quadrato a dimostrazione che la concorrenza invocata per i servizi pubblici, non va bene alle imprese private.

 Oggi qualcuno scopre i guasti della globalizzazione (vedi Goodyear) ma nessuno si accorse in anni recenti che anche la Zanussi era coinvolta in una corsa contro la morte: nessuno protestò perché a salvarsi (ma con molte perdite) furono i lavoratori di Pordenone. Però ora, in nome della globalizzazione, la Confindustria pretende lo smantellamento dei diritti dei lavoratori. E lo fa cercando di inchiodare soprattutto il governo D'Alema. Perché ha identificato in quel governo il punto debole, da aggredire, cercando di porsi a capo di una eterogenea coalizione nella quale, vedrete, si imbarcherà prestissimo anche Berlusconi, sollecitato ieri dal quotidiano della moglie - il Foglio - a schierarsi apertamente anche a favore dell'uninominale pura. Prendere o lasciare, dicono Fossa e i suoi al presidente del consiglio.

 E per farlo, certi di un ulteriore cedimento di D'Alema non hanno esitato a forzare la mano con i sindacati. Anche se non mancano i timori di una rottura della politica della concertazione che rischia in poche settimane di far esplodere la pace sociale e la tregua salariale, in una fase di ripresa economica. Siamo alla svolta. Come ai tempi del referendum sul divorzio la divisione è netta. Cambia solo l'avversario. Allora era una banda becero-clericale, oggi sono i padroni del vapore in cerca della riconquista definitiva del loro potere.



 
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