Riforme Istituzionali
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Corriere della Sera - 24/01/2000

di Angelo Panebianco
 

La Consulta e i suoi confini
Referendum, il ruolo dei giudici costituzionali

E' attesa a giorni la sentenza della Corte costituzionale sull'ammissibilità dei referendum. Ancora una volta, un appuntamento referendario promette di esercitare una grande influenza, non sappiamo se per il bene o per il male, sul futuro dell'Italia. E ancora una volta, se tutti i referendum più caldi supereranno il vaglio della Corte, le alleanze fra i partiti, ma anche i rapporti fra certe forze sociali e certi partiti, rischieranno di uscire ridisegnati, se non sconvolti, dalla competizione referendaria.

Così è per il caso del referendum per l'abolizione della quota proporzionale. Quel referendum può innescare una doppia deflagrazione: dentro l'alleanza di centro-sinistra e dentro quella di centro- destra. Dal momento che nell'una e nell'altra sono crescenti le tensioni fra fautori del maggioritario e fautori del proporzionale. Così è, ancora, per i referendum radicali sul lavoro, dal momento che essi mettono in discussione uno dei pochi poteri usciti indenni, se non addirittura politicamente rafforzati, dalla fine della Prima Repubblica: il potere sindacale. A seconda di chi prevarrà nei referendum sul lavoro prenderà una strada, oppure la strada opposta, l'evoluzione, economico-sociale, ma anche politica, del Paese. Né possono essere sottovalutati i possibili effetti politici delle alleanze trasversali che sicuramente si formeranno su altri referendum potenzialmente caldissimi, da quelli sulla giustizia a quello (leghista) sull'immigrazione.

In un Paese che fa fatica a liberarsi dalle mentalità ideologiche non mancherà certamente chi tenterà, usando categorie al tempo stesso familiari e usuratissime, di leggere il prossimo scontro sui referendum in termini di conflitto fra «destra» e «sinistra». Ma questo tentativo fallirà. Sarà lo stesso trasversalismo delle alleanze che si realizzeranno sui diversi referendum a renderlo vano.

Le poste in gioco sono altissime. E' pertanto comprensibile che la Corte costituzionale subisca, dall'esterno, forti pressioni. Benissimo ha fatto il presidente della Corte, Giuliano Vassalli, a ricordare che la Corte non è un organo politico e che è sbagliato considerarla tale. Prendiamo il caso delle (del tutto improprie) pressioni esercitate sul governo, e giustamente bloccate da D'Alema, perché esso prendesse formalmente posizione davanti alla Corte contro certi referendum, in particolare quelli sul lavoro. Tali pressioni nascevano da una visione inaccettabile, distorta, del ruolo della Corte. La Corte infatti non deve stabilire se un referendum proposto è buono o cattivo per il Paese. Deve solo accertare che i referendum proposti non incappino nei divieti stabiliti dall'articolo 75 della Costituzione. Articolo che, come è noto, nel suo secondo comma, vieta il referendum abrogativo in materia di leggi tributarie e di bilancio, di amnistia, di indulto, e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Ciò che le forze politiche che hanno cercato, e tuttora cercano, di tirare la giacca della Corte da una parte o dall'altra fingono di non sapere è che la Corte è tenuta, alla luce della nostra Carta costituzionale, a dichiarare ammissibile qualunque referendum, riguardante qualunque materia, con la sola eccezione di quelle summenzionate.

E' stato dunque molto opportuno il richiamo di Vassalli. Tuttavia, il presidente della Corte sa bene che, in passato, la Consulta, con le sue sentenze, ha spesso scelto di attribuirsi un ruolo di discrezionalità (politica) che non le competeva. Se si guarda alla, ormai quantitativamente ragguardevole, giurisprudenza costituzionale in materia di referendum, è facile vedere come quella discrezionalità (tante volte denunciata dai radicali in occasione di precedenti sentenze) si sia manifestata. Nel corso del tempo, utilizzando le più diverse motivazioni, e spesso contraddicendosi tra una sentenza e l'altra, la Corte ha in passato scelto di ampliare al massimo il proprio margine di discrezionalità in materia. Ben al di là di quanto consentito dall'articolo 75.

Questo è accaduto soprattutto perché la Corte ha risentito, in anni passati, dell'atteggiamento di ostilità all'uso dei referendum abrogativi tradizionalmente proprio dell'establishment politico italiano. Influenzata da quell'atteggiamento la Corte costituzionale, nel corso del tempo, ha ampliato la propria discrezionalità, con il fine specifico di ridurre le occasioni possibili di ricorso al referendum.

Chi è causa del suo mal pianga se stesso, si potrebbe dire. La ragione principale per cui dalla Corte alcuni si attendono oggi una sentenza politica (che dichiari inammissibili i referendum più sgraditi a questo o a quello) consiste nel fatto che in passato la Corte non ha avuto sufficiente rispetto per se stessa: si è fatta talvolta impropriamente trascinare nell'arena politica, ha politicizzato le proprie sentenze, le ha condite di troppi calcoli di opportunità politica.

E' peraltro questo un vecchio male italiano. E' tipico di una democrazia malferma che i cosiddetti «poteri neutrali», quei poteri che dovrebbero mantenersi esterni e estranei al gioco politico contingente, si politicizzino periodicamente, diventino essi stessi «parti» politiche. E' accaduto a più riprese con la politicizzazione di settori della magistratura ordinaria. E' accaduto, in passato, prima di Ciampi, con la presidenza della Repubblica. E' accaduto - eccome se è accaduto - con tante sentenze passate della Corte costituzionale. Ma, per fortuna, non è mai troppo tardi per decidere di ridurre la forbice fra come si predica e come si razzola.
 



 
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