Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
 
http://www.malcolmx.it/riforme/indexint.htm


il manifesto - 28/02/2000

Nel piatto del No

Un'occasione da non perdere

Dino Greco

La Suprema Corte ha infine tolto di mezzo una parte invero consistente dei referendum proposti dai radicali. Ora i radicali - e i loro potenti sponsor - strillano come galline spennate. Si lamentano anche i nostrani seguaci di Haider, resi orfani del loro referendum xenofobo contro l'immigrazione. Colpita d'incontro, scalpita anche Confindustria, che si vede sfilare dal mazzo la deregolamentazione integrale del mercato del lavoro perseguita attraverso l'eliminazione di ogni e qualsiasi vincolo ai contratti a termine, al lavoro a domicilio, a quello a tempo parziale, al collocamento privato. E si capisce la delusione. La maggior organizzazione degli imprenditori aveva accarezzato la speranza di cogliere un'opportunità ghiotta: quella di chiudere in un colpo solo la partita delle flessibilità, risparmiandosi il continuo, ma lento e defatigante lavoro di erosione delle conquiste dei lavoratori che si dispiega di contratto in contratto, di deroga in deroga alle norme di legge esistenti. Il sogno proibito di poter da subito gestire la forza lavoro come un grande superamento delle braccia amministrato da caporali si è infranto.

 Il cocktail confezionato dai radicali era un concentrato reazionario di potenza devastante. Perché distruggeva ogni istituto ed ogni strumento di protezione e di tutela delle persone che vivono del loro lavoro.

 A tutto ciò che nell'ordinamento del nostro paese ha una connotazione sociale e solidaristica si opponeva il mercato delle prestazioni, dove tutto si paga, dove ognuno è solo e dove la povertà o la ristrettezza di risorse personali diventa un incubo e una sciagura senza ritorno.

 A ben guardare, persino l'intenzione di revocare il diritto dei lavoratori di finanziare - attraverso una delega che autorizzi la trattenuta sindacale - l'organizzazione da essi liberamente scelta rivela l'istinto liberticida, comune a tutte le forze reazionarie che prima o poi sono rapite dalla tentazione di liquidare anche i diritti sindacali.

 Se non altro - e, beninteso, parlando per paradossi - questa vicenda ha il merito di rendere chiaro ed evidente come dietro la bardatura libertaria della proposta radicale non vi sia null'altro chela rivendicazione del diritto al sopruso dei più forti sui più deboli, l'intenzione di dare forza di legge alla prepotenza.

 E tuttavia, non è poco ciò che è rimasto nel piatto di questo organico tentativo di demolire l'impianto sociale della Costituzione.

 Anzi, a ben guardare, è rimasta la madre di tutte le questioni e cioè il diritto di licenziare un lavoratore o una lavoratrice senza dover incorrere nella sanzione della reintegra nel posto di lavoro qualora il giudice si pronunci per l'assenza della "giusta causa".
Come è noto, i radicali hanno reagito con sdegno a questa che hanno definito una volgare falsificazione della realtà, giacché rimarrebbe inalterato il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel suo posto di lavoro nel caso di licenziamento discriminatorio, cioè intimato per ragioni legate alle convinzioni politiche, al credo religioso, al genere. Quel che i radicali sottacciono - o forse non sanno davvero (vivendo essi mille anni luce distanti dai problemi del lavoro) - è che nessun padrone, neppure il più stupido, ha mai licenziato un proprio dipendente con queste motivazioni e che, in giudizio, l'onere della prova del comportamento discriminatorio è a carico del lavoratore.

 Ciò che in realtà si vuole è un vero e proprio tonfo nel passato, un ritorno al licenziamento arbitrario, tutt'al più mitigato da una mancia risarcitoria che non potrebbe in alcun modo ripagare il lavoratore della vulnerazione patrimoniale e morale subita.

 Ognuno sa che i padroni hanno in definitiva chiesto da sempre una cosa ed una soltanto: la "libertà" di assumere e la "libertà" di licenziare, essendo chiaro che da questo imponente potere ricattatorio poi deriverà tutto il resto.

 Le "bufale" sulle virtù liberatrici della flessibilità, la promessa truffaldina che le aziende - una volta affrancate dallo statuto dei lavoratori - assumeranno e cresceranno, l'ignobile messaggio inviato ai precari, secondo cui da un indebolimento delle tutele per gli assunti a tempo indeterminato potrebbero derivare benefici ed opportunità per se stessi, appartengono al corredo propagandistico di tutte le campagne contro i diritti dei lavoratori. Ma sono anche espressione di una malintesa idea di modernità, quella secondo la quale la competizione si fa non con, ma a spese del lavoro.

 Qui c'è un punto su cui merita riflettere. L'adesione entusiastica che, senza defezioni, Confindustria ha riservato ai referendum tradisce un atteggiamento che, con linguaggio gramsciano, potremmo definire "sovversivismo delle classi dominanti". Questo non soltanto perché è qui venuto in chiaro un attacco alla Costituzione repubblicana, ma perché è l'intero sistema di relazioni industriali codificato nei contratti nazionali di lavoro e negli accordi interconfederali ad essere revocato e messo in mora.

 Dunque, Confindustria rivela che il padronato italiano, la sua leadership, considera le conquiste sociali e civili degli anni '70 non già come un elemento evolutivo permanente nel quale inscrivere le relazioni industriali, bensì come una parentesi da chiudersi non appena le circostanze lo consentano.

 Confindustria pensa cioè che occorra passare ad una fase di movimento, di conquista, giacché i tempi, la cultura egemone e, al dunque, i rapporti di forza, possono consentirlo. Ma cosa autorizza tanta tracotante protervia?

 Io credo, essenzialmente, il fatto che oggi l'impresa è il solo potere autocentrato: il suo bene - nell'unica, straripante ideologia che ha oggi diritto di cittadinanza - coincide con il bene di tutti. E' la versione più grezza del liberismo, che ha contagiato parte consistente della sinistra al governo. Non a caso, su di essa contano le forze che intendono manomettere lo statuto dei lavoratori, o con la mannaia del voto referendario, oppure attraverso un atto del parlamento.E' data un'occasione: quella di suscitare un grande dibattito nazionale sulla difesa di un fondamentale diritto dei lavoratori e, ad un tempo, sui tratti della civiltà, sulla natura della società da costruire per il futuro. E' data l'opportunità di discutere con un'ampiezza senza precedenti di come la precarizzazione del lavoro abbia non soltanto reso fragile e incerta la vita di tante persone, ma abbia danneggiato la società italiana nel suo insieme, incrinando i legami di solidarietà e corrompendo le coscienze degli individui.

 Lo dovremo certamente fare attraverso la costituzione dei comitati per il "no", estesi ai movimenti, al variopinto mondo delle associazioni, a personalità del mondo della cultura e a tutti quanti intendono spendere - anche negli ambiti più circoscritti -la propria riconoscibilità, il proprio prestigio. E dovremo ingaggiarci in una campagna di informazione che - come nei tempi migliori - dovrà saper arrivare in ogni luogo di lavoro, in ogni comune, in ogni quartiere. Questa volta non ce la caveremo a buon mercato. Non saranno sufficienti furbizie tattiche e, soprattutto, non pagherebbe la campagna astensionistica. Questa volta non si può pensare di vincere sommando all'estensionismo strutturale, a-specifico, quello da rigetto referendario e, infine, quello consapevole e politicamente indotto.

 Questa volta non funzionerà così. Si può esser certi che ben oltre il 50% degli aventi diritto al voto si recherà ai seggi. E' in campo Confindustria e lo sono, come è giusto, anche le organizzazioni sindacali. L'attenzione, come la posta in gioco, è elevatissima in tutti i soggetti sociali e politici. E i lavoratori - che già hanno incrociato le braccia nei giorni scorsi in non poche fabbriche - sanno perfettamente di cosa si parla.

 Non si può pensare di argomentare ai lavoratori che è in gioco la loro libertà e poi chiamare all'astensione.

 Questa battaglia, come tutte le grandi battaglie di civiltà, si vince o si perde sul campo. Se il fronte del no si divide fra chi vota e chi diserta intenzionalmente le urne, perderemo. Ma c'è dell'altro: la campagna dev'essere vinta, non soltanto "non persa" grazie all'artifizio di un'improbabile astensione di massa.

 Perché occorre definitivamente ostruire, con una sanzione popolare, la strada che porta, anche per vie oblique, ad una progressiva spoliazione dei diritti del lavoro.

 Un punto fermo, dal quale cominciare a risalire.



 
Indice "Rassegna Stampa"