Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
 
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il manifesto - 01/03/2000

REFERENDUM SUI LICENZIAMENTI

Sono in gioco libertà civili e politiche, principi costituzionali

Il Comitato per il No apre la campagna. 300 parlamentari contro i quesiti "sociali"

di Carla Casalini

Il referendum sull'art.18 "non consiste nella possibilità di licenziare, ma in quella di assumere". Così, di nuovo ieri, Emma Bonino è tornata su uno dei leit motiv dei radicali, bugie al vento - ma da quanto tempo le parole non stanno più in rapporto con le cose, nelle battaglie mediatiche delle diverse compagini politiche? - e però l'intento è detto chiaramente: "un mercato del lavoro flessibile non è un lusso ma una necessità per milioni di piccole aziende che devono nascere, competere e crescere...". Dunque, il filo tirato con il referendum per liberalizzare i licenziamenti illegittimi ha un senso profondo che va oltre qualunque situazione specifica di rapporto di lavoro, avendole tutte come bersaglio.

 E' proprio sull'"alta valenza simbolica" dello scontro sul referendum che vuole abrogare l'art.18 dello Statuto dei lavoratori, lo ha sottolineato Giorgio Ghezzi, che si sono concentrati gli interventi dei giuristi - da Pier Giovanni Alleva a Ugo Rescigno, Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Marco Pivetti, Giuseppe Bronzini - nella giornata d'apertura della campagna referendaria del Comitato nazionale per il No ai licenziamenti coordinato da Sergio Garavini. Il quale ha annunciato che oggi circa 300 parlamentari di maggioranza e opposizione diranno un pubblico No "ai referendum antisociali".

 La valenza simbolica, politica, di questa battaglia referendaria è resa spessa dall'esservi implicato direttamente un principio di libertà: libertà personale di parola, di opinione, di associazione, di indipendenza di giudizio dentro un luogo di lavoro. E insieme dall'essere l'art.18 - ossia l'obbligo del reintegro al lavoro di chi è stato licenziato arbitrariamente, senza giustificato motivo - il pilastro tolto il quale tutti gli altri diritti, dalla sicurezza e incolumità sul lavoro, alla cura della salute, alle stesse discriminazioni politiche, di sesso, di razza, cadono. Su questo si è insistito ieri, alla sala del Cenacolo (per esempio Ferrajoli, Pivetta), e sul continuum tra questo attacco e quello alle condizioni di lavoratrici e lavoratori precari, "atipici".

 La conferma più chiara è venuta ieri dal sottosegretario alle finanze D'Amico (di Rinnovamento italiano), che ha invitato le "componenti più liberaldemocratiche della maggioranza" a farsi "sentire": a sostegno del referendum sui licenziamenti, e insieme contro "l'accrescimento dei vincoli ai lavori atipici", ossia contro la legge Smuraglia che per essi prevede una griglia di garanzie e diritti primari.

 Se sono in gioco libertà civili e politiche, allora è chiaro che anche l'Anpi è della partita - è intervenuto Piero Boni, a lungo dirigente della Cgil, in rappresentanza dell'Associazione partigiani. E il potere deterrente dell'art.18 rispetto ai licenziamenti arbitrari, attiene squisitamente alla "libertà della persona", alla sua "dignità", che è anche concetto, principio costituzionale posto come limite ad ogni libertà d'impresa - hanno insistito più interventi. Infatti qui si tratta di licenziamenti illegittimi "individuali" - e basti pensare che si considerano già "collettivi" anche solo 4 licenziamenti in 120 giorni per rendersi conto del potere di ritorsione che peserebbe addosso a chi osasse rivendicare alcunché nel tempo e nel luogo del lavoro.

 Se di questa portata è la posta in gioco - e a chiarirla per i confusi ci ha pensato la Confindustria con la sua adesione immmediata ai referendum - serve una "battaglia non solo difensiva", è stato anche detto, e dunque un No preciso con il voto, per poter riaprire il fronte della riappropriazione di diritti per l'intero mondo di donne e uomini in qualsivoglia forma di lavoro. Ma questa battaglia deve essere perciò anche "capillare", per i rischi che ci sono, e che nessuno si è nascosto. I referendum radicali non sono un fulmine a ciel sereno, hanno alle spalle una lunga preparazione, un battage pubblicitario per incidere sul senso comune, con le alate parole liberiste quali "flessibilità" del lavoro per il "bene" dell'impresa, divenuto sinonimo di bene comune, cui "da sinistra" spesso non si è posto ostacolo culturale, né politico. E' stato ricordato un discorso di D'Alema a una platea di industriali un anno fa, nel quale il presidente del consiglio fece sua la pretesa che sia "la disciplina dei licenziamenti a limitare le imprese italiane rispetto a quelle europee" - i dati smentiscono ma, per l'appunto, in politica le parole possono ormai sgravarsi delle cose.

 Tutti, ieri, si sono pronunciati unanimemente - e con dovizia anche di supporti tecnico-giuridici - anche contro le "iniziative legislative" che fioriscono l'una dopo l'altra per tentare di "evitare" il referendum assumendone la richiesta di abolire l'obbligo del reintegro in caso di licenziamento individuale arbitrario. Per primo ne ha parlato Pier Giovanni Alleva, dando la palma di proposta peggiore a quella del diessino Franco Debenedetti. E in particolare si è dimostrato come, con l'abrogazione dell'art.18 non resta in piedi nessuna difesa neppure contro il licenziamento "discriminatorio": per esso, infatti, l'onere della prova è tutto e solo a carico del lavoratore.



 
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