Riforme Istituzionali
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L'Espresso - 29/04/1999
 
IL J'ACCUSE DI GIOVANNI SARTORI
Che fortuna, abbiamo perso
Bisognava scegliere fra tre mali: la legge che c'era, quella che sarebbe uscita dalla vittoria del Sì o quella proposta da Amato. Una peggio dell'altra, dice il politologo. E adesso...

a cura di Antonio Padellaro
 
Nota del curatore di Riforme Istituzionali. 
In considerazione del fatto che verremo chiamati a votare anche per il quesito elettorale già non approvato lo scorso anno, si è ritenuto utile riproporre alcuni articoli e interviste. 
Si comincia con il Prof. Sartori che, certamente, tra gli studiosi è quello che approfondisce più seriamente, sulla base dei risultati concreti e non sulle ipotesi indimostrate, le problematiche legate ai sistemi elettorali. Anche lui, però, alla fine cerca di far quadrare il cerchio secondo quelle che sono le sue preferenze politiche, nel senso di congegnare un sistema istituzionale attraverso il quale escludere la parte scomoda della questione: il conflitto sociale.
 
Il professor Giovanni Sartori, che era per il SÌ, sostiene adesso che nel referendum del 18 aprile, in fondo, ha vinto il male minore. L'illustre politologo della Columbia University È dunque un pentito? No, semplicemente resta convinto che in Italia le cosiddette grandi riforme, e perfino una decente riforma elettorale, rientrino nel novero delle cose impossibili. Così come ha spiegato all'"Espresso".
 

Una parola è d'obbligo sull'incredibile spettacolo televisivo di domenica sera: leader di partito che discutevano di una vittoria del Sì inesistente, sulla base di un sondaggio inattendibile.

«Per fortuna, essendo a New York, il grottesco televisivo me lo sono risparmiato. La televisione crea l'ansia del minuto prima, di sapere prima quel che ancora non si sa. Ma anche se non l'ho visto, non dubito che lo spettacolo di domenica notte rifletta alla perfezione un'Italia dilettantesca popolata da arruffoni che si affidano allo stellone. Che ormai è travolto dal Niño».

Lo sconfitto Comitato del Sì. Troppo composito, secondo alcuni. E al suo interno, secondo altri, troppi disegni personalistici e conti da regolare. È così?

« La compagnia del Sì era di certo variopinta. Così come lo era la compagnia del No. Qualsiasi alternativa secca tra Sì e No impone, come si dice in inglese, "strange bedfellows", strani compagni di letto. Anche le motivazioni credo che fossero variopinte. D'accordo, tra i nostri galletti di proscenio i conti da regolare sono molti e anche sanguinosi. Ma i vari Mario Segni, Romano Prodi, Antonio Di Pietro, Gianfranco Fini perseguono anche le proprie ambizioni e la propria maggior gloria. E il loro amore per il bipolarismo è soprattutto un amore astratto».

Nel senso di amore poco sincero?

«No, io chiedo: un amore per quale bipolarismo? Riempiendosi la bocca di bipolarismo i suddetti certificano la loro correttezza politica. Ma finché i suddetti non spiegheranno come sanno e vogliono arrivare a un bipolarismo che funzioni, fino a quel momento anche loro sono da assegnare all'Italia approssimativa della televisione di domenica scorsa».

Fronte del No. Umberto Bossi, Fausto Bertinotti, Armando Cossutta, Franco Marini, i Verdi hanno davvero salvato la pelle?

«L'hanno salvata solo nel senso che hanno evitato eventuali rischi futuri. Non ho mai capito quanto il loro starnazzo anti-referendario fosse genuino, fosse in buona fede. Erano davvero spaventati, o facevano finta? Se erano davvero spaventati, soffro per loro e tengo a rassicurarli. Si calmino, il maggioritario a un turno non li avrebbe distrutti. Purtroppo, dico io. Ma ben per me, dovrebbero dire loro».

Ma a questo punto, meglio un sistema maggioritario uninominale per garantire la governabilità. O un sistema proporzionale che fomenta la partitocrazia, ma assicura diritto di rappresentanza alle minoranze?

«Nell'ambito dei sistemi maggioritari, il solo che nel caos italiano può rimediare, e cioè assicurare governabilità, è un maggioritario a doppio turno aperto (cioè non limitato a un ballottaggio tra i primi due). Vedi caso - ridi pagliaccio - questo è il solo sistema che il ventaglio delle proposte di Giuliano Amato non propone. E mentre il pagliaccio ride, l'alternativa ai fini della governabilità può soltanto essere un sistema proporzionale ad hoc, e cioè congegnato a questo fine».

Quale sistema?

«Non il tanto decantato sistema tedesco (che viene detto misto, ingannevole, visto che in esito è perfettamente proporzionale), ma anche il sistema spagnolo (fondato su piccoli collegi di 5-6 eleggibili). O altrimenti un proporzionalismo che non è controllato soltanto da una soglia di ammissione del 5 per cento, ma che prevede in più premi di maggioranza di varia possibile natura».

E le forze minori?

«In principio, basta che la minoranza protetta sia una sola, come nei sistemi bipartitici. E il punto è perché mai le minoranze protette devono essere una diecina, o comunque tutte quelle che vengono in mente al fertile italico ingegno. A forza di agitarsi sui diritti di minoranza stiamo dimenticando che la democrazia si fonda su un diritto di maggioranza che è poi il diritto di chi è in maggioranza di governare senza essere paralizzato da minoranze di veto. Al qual proposito stupisce che il progetto Amato includa un "diritto di tribuna" che non ha nessuna cittadinanza (come Amato, da bravissimo costituzionalista, sa benissimo) nella teoria dei sistemi elettorali. Il cosiddetto diritto di tribuna inventato da Bertinotti e Cossutta quando erano uniti è soltanto la libertà di espressione che Stalin impediva e che invece a loro viene illimitatamente consentita. Punto e finito qui. Altrimenti mi si dovrebbe spiegare perché a noi occorrano diritti di rappresentanza che non esistono, e non sono contemplati, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, in Germania, in nessuna democrazia modello».

Il fronte del No coincide in larga parte con il fronte anti-Nato. È soltanto un caso?

«Sì, credo che sia una coincidenza. Il fronte del No è il fronte, concretissimo, di chi si sente minacciato da una riforma elettorale che non gli conviene. Il fronte anti-Nato è invece un fronte ideologico di catto-pacifisti, terzo-mondisti e anti-Usa. Un intruglio tutto diverso».

Ancora una parola sullo strumento referendario: siamo al de profundis?

«Sì, credo e anche spero che sia un de profundis sull'abuso di questo strumento. Che va bene quando usato con parsimonia e con discernimento, ma non quando è utilizzato a valanga (alla Pannella) e senza discernimento. I referendum vanno bene per problemi che sono sentiti e capiti da tutti (vedi quello del 1974 sul divorzio). Ma non vanno bene per questioni tecniche che il grosso pubblico non può capire e che di fatto non capisce. Insomma, le riforme costituzionali per referendum non si possono e non si debbono fare».

La nostra democrazia può davvero morire di astensionismo? O è il solo modo per dire basta alle elezioni a ripetizione?

«L'astensionismo è una patologia democratica quando è prodotto da disinteresse, da apatia politica. Ma può anche essere espressione di protesta e di punizione. E nell'esito del 18 aprile i due motivi si sono sommati. Anche se è vero che il voto scende in gran parte delle democrazie, nel caso del referendum dell'altro giorno il quorum è stato mancato anche perché il votante è stanco di votare. E quindi anche perché è cretino produrre elezioni a ripetizione e referendum a raffica. Il bello è, poi, che i nostri riformatori puntano su assetti costituzionali nei quali ogni incaglio rinvia a nuove elezioni. Cade il primo ministro? Elezione. Cambia alleanza di governo? Elezione. Viene meno una maggioranza? Elezione. Insomma, elezioni a valanga. I nostri riformisti esibiscono livelli terrorizzanti di primitivismo democratico».

È vero che, fallito il referendum, se si votasse oggi il centro-destra avrebbe partita vinta, visto che il centro-sinistra non potrà inglobare i voti di Rifondazione con cui, ormai, la rottura è completa?

«Ma lei crede davvero che Massimo D'Alema, o Walter Veltroni, o chi per loro, non cercheranno di recuperare, al momento del nuovo voto, anche i voti di Rifondazione? Io no. Perché finché avremo sistemi elettorali uninominali a un turno (o assimilabili) avremo sistemi nei quali in ogni collegio il primo arrivato prende tutto e il secondo arrivato perde tutto. Il che comporta che avremo sempre elezioni la cui priorità è di vincere in ogni collegio, invece di elezioni che servono a creare maggioranze di governo. E dunque elezioni che intruppano cani e porci che poi andranno a ostacolare il governare. Possibile che non lo si capisca?».

Ma allora, cosa sarebbe meglio fare? Tenersi il Mattarellum? Riaprire la giostra delle riforme istituzionali? O che altro?

«Secondo me, a volte non fare è meglio, molto meglio, di mal fare, di fare male. Per esempio, il referendum del 18 aprile ha finito per prospettare una scelta tra tre mali: Primo: tenersi l'infame Mattarellum. Secondo: passare a uno meno infame (in linea di principio), ma altrettanto nefasto (in pratica) maggioritario a un turno. Terzo: passare alla legge di attuazione proposta da Amato, che è forse l'opzione più orrenda di tutte. Certo, dal referendum poteva anche uscire un buon esito: un sistema maggioritario a due turni aperto ai primi quattro arrivati del primo turno, e quindi senza coalizioni precostituite di partenza. Ma questo buon esito risultava, il 18 mattina, il meno probabile di tutti. Amato non lo proponeva; e Segni, Silvio Berlusconi, Fini, e da ultimo persino Di Pietro (vergognosamente rinnegando se stesso) dichiaravano di puntare sul referendum fotocopia».

Il rimedio, insomma, sarebbe stato peggiore del male?

«Beh, a questo punto io per primo non avrei più saputo come votare. È vero che il referendum non era tanto e soltanto importante di per sé, ma anche come spinta alle riforme in generale. Sì. Ma constatavo che questa spinta era andata oltre il segno e che era diventata farneticante, o quantomeno senza alcun nesso, proprio nessuno, con il quesito referendario».

Secondo quelli del Sì, l'esito positivo del referendum avrebbe condizionato anche la prossima elezione al Quirinale. Ma adesso?

«Perché mai dalla vittoria del Sì doveva, o dovrebbe, risultare un capo dello Stato diverso da quello che sarà? E perché mai dal voto referendario dovrebbe uscire un capo dello Stato a elezione popolare? Io ho sempre proposto un sistema semi-presidenziale alla francese nel quale il presidente è di elezione diretta. Ma mi sfugge lo stesso perché questa formula sia collegata al voto referendario. Così come mi sfugge come mai la vittoria referendaria del Sì avrebbe dovuto comportare una riforma federalista».

E quindi?

«E quindi, al cospetto di questi voli nell'arbitrio, comincio a pensare che la vittoria dell'astensione sia stata un male minore. Certo, non aiuterà la riattivazione delle riforme istituzionali. Ma blocca le pericolose frenesie riformiste del buon Segni; bravo, perbene, ma ormai troppo invasato. Il suo libro dei sogni è anche, in gran parte, un libro di sogni mal sognati».

Se la realtà politica di oggi è il cumulo di macerie che lei descrive, ogni speranza di riforma è dunque perduta?

«L'esperienza della Bicamerale ci ha dato l'ultima conferma, temo, del fatto che siamo incapaci di grandi riforme. Incapaci non solo per difetto di responsabile volontà politica, ma anche per difetto di lungimirante comprendonio. Dal che ricavo che dobbiamo anche imparare dalle sconfitte (visto che anche io ero, in partenza, pro referendum). Perché la sconfitta del 18 aprile sanziona il fatto che siamo solo in grado di fare le piccole riforme sulle quali quasi tutti convergono da gran tempo. Facciamo quelle».

Ma così facendo, il suo amico Amato non rischia di restare inoperoso?

«Per non frustrare l'amico Amato propongo a D'Alema di affidargli un dicastero degno della statura dell'uomo, e certo più importante del Ministero delle buone riforme impossibili».



 
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