di Stefano Rodotà
Si è aperta lunedì una pagina nuova della costruzione
europea, che già fa discutere, impone scelte politiche, sollecita
l'opinione pubblica e la cultura. Il progetto della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea è ormai realtà. Esce dalla "Convenzione",
lo speciale organo creato per la sua redazione, ed approda alla riunione
dei capi di Stato e di Governo, che la esamineranno a Biarritz il 13 ottobre.
Come giudicare la Carta? Anzitutto sfuggendo all'estremismo, e dunque
senza enfasi e senza pregiudizi. Chi ha partecipato alla Convenzione, e
quindi conosce le molte trappole di cui è stato disseminato il suo
lavoro, è inevitabilmente portato a misurarne significato e portata
avendo davanti agli occhi tutti i conservatorismi - politici, culturali,
nazionali - che hanno cercato di impedire che si arrivasse alla stesura
di una Carta. Questo è sicuramente un criterio assai soggettivo.
Ma, quando si valuta un documento così ambizioso, non si può
trascurare il contesto in cui è nato.
Il luogo e i tempi, allora. La stesura della Carta era stata affidata
ad un organismo assolutamente inedito, dove per la prima volta si trovavano
a lavorare insieme i rappresentati della Commissione di Bruxelles, del
Parlamento europeo, di Parlamenti nazionali e dei governi. È stata
così individuata una nuova dimensione istituzionale, nella quale
scompariva la distanza tra le diverse realtà dell'Europa, obbligate
ad un confronto continuo e ravvicinato, dove le miopie di molti governi
dovevano immediatamente fare i conti con la diversa sensibilità
di chi, per convinzione personale o ruolo (i parlamentari europei), è
ormai convinto delle angustie d' ogni nazionalismo.
È stata, questa, una regressione rispetto alla diversa via di
una assemblea costituente europea che, con ben altra evidenza davanti ai
popoli, avrebbe potuto scrivere un testo tanto ambizioso? In astratto,
sì. In concreto, la via costituente avrebbe significato accantonare
per un tempo imprevedibile il disegno di cominciare a far entrare nella
costruzione europea la dimensione dei diritti. Questo, invece, oggi è
uno dei passaggi necessari per cominciare a liberare l'Europa dalle molte
servitù che ne rallentano o impediscono la crescita come entità
politica, come luogo di riconoscimento comune. E la Convenzione ha dato
una significativa prova di efficienza: in un tempo in cui le riforme istituzionali,
nazionali ed europee, hanno tempi infiniti, e spesso finiscono nel nulla,
la Convenzione ha concluso i suoi lavori in soli dieci mesi. Si è
così sperimentato un metodo di lavoro che molti suggeriscono di
tener presente per la futura revisione dei trattati, per la definitiva
messa a punto di una Costituzione europea.
In quale spazio si è mossa la Convezione? Le era stato dato
un mandato assai restrittivo, che escludeva la possibilità di innovazioni
e per quanto riguardava i diritti sociali ed economici, limitava addirittura
la possibilità di ricorrere alle indicazioni già contenute
in altri documenti europei. Molte delle critiche che potrebbero essere
rivolte alla Convenzione, quindi, dovrebbero avere come bersaglio chi diede
quel mandato, il Consiglio europeo, timoroso d'una vera innovazione istituzionale.
Ma quei limiti sono stati spesso forzati. Nella Carta compaiono i più
importanti tra i cosiddetti nuovi diritti, quelli riguardanti la bioetica,
le tecnologie dell'informazione, l'ambiente. Si cerca di disegnare un orizzonte
più largo, che include la responsabilità dell'Unione europea
verso altri paesi e verso le generazioni future. Naturalmente, questo non
autorizza toni trionfalistici. È indubbio, però, che siamo
di fronte ad una scelta per molti versi controcorrente. In un momento in
cui risuonano sempre forti le parole d'ordine del liberismo, in cui si
coltiva l'insofferenza per ogni regola, la Carta indica un diverso orizzonte.
Abbiamo mille volte lamentato che l'Europa fosse solo quella degli
Stati e dei mercati: oggi comincia a profilarsi un'Europa dei cittadini
e dei diritti. Siamo spaventati dalle teorizzazioni dell'egoismo, dalla
rottura d' ogni legame sociale: nella Carta ricompare una parola aborrita,
"solidarietà", e la dignità diventa il filo conduttore per
la costruzione della personalità, per il riconoscimento della forza
delle relazioni personali e sociali. Abbiamo letto troppe teorizzazioni
che negavano ai diritti economici e sociali proprio la natura di diritti,
ne facevano una categoria separata: nell'architettura della Carta vengono
abbandonate le vecchie distinzioni, i diritti si presentano come indivisibili,
partecipano tutti della stessa natura.
Se si perde di vista questo orizzonte, si rischia di non cogliere un'occasione
importante per una rinnovata riflessione culturale e per una adeguata azione
politica ed istituzionale. Non stiamo vivendo un'alta congiuntura europea,
che ci autorizzerebbe ad essere esigenti, a chiedere molto. Attraversiamo
una fase di difficoltà grandi, nella quale dovrebbero essere valorizzati
tutti gli elementi che ci allontanano da un'idea d'Europa non solo contraddittoria
con le speranze di molti, ma ormai inadeguata, come dimostra l'esperienza
della Banca europea priva di un adeguato retroterra politico. La logica
della costruzione europea, peraltro, è da tempo quella dei piccoli
passi. E questo della Carta non mi sembra così piccolo. E, soprattutto,
va nella direzione giusta.
Consapevoli di tutto questo, possiamo cogliere i limiti della Carta
senza perdere di vista il cammino lungo il quale si colloca. Il giudizio
d'insieme deve tener conto di diverse debolezze tecniche del testo, d'una
lingua che non suscita entusiasmi, e delle lacune, visto che, ad esempio,
non compare un esplicito riconoscimento dei diritti di ciascuno all'autodeterminazione,
come momento essenziale dello sviluppo della personalità, o del
diritto alla libertà delle scelte sessuali e procreative. Inoltre,
mentre il principio di dignità risulta rafforzato grazie al riconoscimento
della sua inviolabilità, il principio di eguaglianza è formulato
in modo insoddisfacente, se si guarda alla ben maggiore ricchezza dell'art.
3 della nostra Costituzione (di cui proprio il confronto con alcuni articoli
della Carta dovrebbe indurre a riscoprire forza e modernità, dopo
gli scriteriati insulti degli ultimi quindici anni).
Il quadro dei diritti economici e sociali presenta luci ed ombre. Ma
nessuno dovrebbe trascurare l'importanza del riconoscimento come diritti
fondamentali (cosa mai finora avvenuta) del diritto dei lavoratori di essere
informati e consultati, di non essere licenziati senza un giusto motivo,
che sono oggi i diritti sottoposti alle critiche più radicali. Inoltre,
la Carta contiene una clausola che già rende possibile un rafforzamento
delle garanzie previste.
Rimane aperto il problema del valore della Carta, testo giuridicamente
vincolante o solenne dichiarazione politica. Ma, se pure fosse scartata
la prima soluzione, ovviamente quella più desiderabile, si avrebbe
in ogni caso un significativo mutamento della dimensione istituzionale
dell'Unione europea. Saremmo comunque di fronte ad un testo che afferma
un nucleo di valori comuni, impegnativi per vecchi e nuovi membri dell'Unione.
A quel testo potranno già variamente riferirsi i diversi organismi
dell' Unione (Corte di Giustizia compresa). E la Carta dei diritti fondamentali
diverrebbe un elemento essenziale, ineludibile, nel processo di revisione
dei trattati, primo e fondamentale nucleo d'una futura costituzione europea.
La Carta non è la vittoria di chi avrebbe voluto che altre fossero
le parole di questa che si presenta come la prima dichiarazione dei diritti
del nuovo millennio. Ma certo è una sconfitta dell'Europa mediocre,
che altrimenti di nuovo rischia d'essere prigioniera dei suoi demoni.