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Corriere della Sera - 07/11/2000
 
Il presidente Usa: come si fa e quanto conta

LA GRANDE SCELTA IN TRE DOMANDE

   Giovanni Sartori
   Sapremo domani chi sarà il nuovo presidente della superpotenza del nostro tempo. Io non mi spericolo mai in previsioni sul giorno dopo: aspetto tranquillamente un giorno. In attesa, vediamo 1) come funziona il processo di selezione di un presidente americano, 2) quale sia l’effettiva «potenza», l’effettivo potere, del cosiddetto uomo più potente del mondo, 3) che differenza fa che il vincitore sia Bush jr. oppure Gore. Come si sa, il presidente Usa emerge da un complesso ed estenuante seguito di elezioni primarie. Chi le vince, le primarie? Intanto, chi ha la forza fisica di un toro. Per quanto bravo, un «fragilino» non ce la può fare: invece di finire alla Casa Bianca finisce molto prima in ospedale. E poi, secondo, vincono i soldi, vince chi ha più soldi. Si calcola che l’insieme di queste elezioni sia costato circa un miliardo di dollari. Sarà che io sono all’antica, ma a me la cifra sembra non solo enorme ma anche abnorme. Perché sono ormai i soldi che costruiscono i candidati. Ne pagano i discorsi (scritti per loro dai ghost writers , da estensori occulti), ne pagano i sondaggi che li pilotano, ne pagano gli spot pubblicitari. Tutto diventa fasullo.

Sia chiaro: esistono procedimenti di scelta peggiori delle primarie. Ma è altrettanto chiaro che le primarie non favoriscono i migliori. Stavolta il candidato di spicco era (a detta dell’ Economist ) John McCain; ed è lestamente restato a terra. Gli americani si terranno le loro primarie; ma non mi sentirei di raccomandarle in giro. In termini di costi-benefici sono un disastro.
Secondo: quanto «può» un presidente americano? Il suo è davvero un potere forte? Sì e no. Se la sua è una «maggioranza indivisa», e cioè se lo stesso partito vince la presidenza e il controllo del Congresso, allora il presidente è forte, relativamente forte. Se invece si dà una situazione di maggioranza divisa (presidenza democratica e maggioranza repubblicana, o viceversa), allora abbiamo un divided government , un governo diviso, e per esso un presidente relativamente debole. Si deve sempre dire «relativamente», perché nel Congresso americano la disciplina di partito è rilassata. Pertanto il Congresso non obbedisce al «suo» presidente più di tanto, ma nemmeno lo impiomba, nel caso di governo diviso, più di tanto.
Allora il nuovo presidente sarà forte o debole? Anche questo è un interrogativo apertissimo. Oggi non viene soltanto eletto un presidente, ma anche tutta la Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Finora la maggioranza del Congresso è stata repubblicana. Ma di poco: 54 seggi su 100 al Senato, e 13 seggi in più (su un totale di 435) alla Camera. Come nulla le maggioranze si potrebbero invertire. È quindi possibile che Bush si trovi contro un Congresso democratico, oppure che vinca un Gore che resta in minoranza. In questa elezione è davvero tutto incerto. Non soltanto chi sarà il nuovo presidente, ma anche se risulterà forte o no.
Intendiamoci: anche un presidente senza maggioranza tanto debole non è mai. Dispone pur sempre di un potere di veto, e assegna motu proprio circa 3 mila posti. Aggiungi che un presidente debole sul fronte interno resta pur sempre cruciale nelle decisioni di politica estera che ricadono sul capo del resto del mondo.
Terzo: che differenza fa, o farà, se il presidente sarà Bush oppure Gore? Ai circa cento milioni di americani che probabilmente non andranno a votare la differenza evidentemente sfugge. Ma c’è. E l’Europa e il resto del mondo hanno ragione di temere l’inesperienza e anche la ciucaggine di Bush nei problemi di politica internazionale. È vero che nemmeno Clinton, in esordio, ne sapeva molto. Ma è stato un quick learner , svelto a imparare. Se vincerà Bush, lo sarà anche lui? In un’elezione piena d’incognite questa è la più grave. E sarà sciolta chissà quando. Non certo domani.



 
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