Riforme Istituzionali
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La Repubblica 25-05-2001
 
Ribaltone alla corte di Bush
 
Va in minoranza al Senato
 
Vittorio Zucconi
 
WASHINGTON - Quattro mesi appena dopo la sterzata a destra di George Bush, la mano di un singolo, oscuro senatore riporta la barra dell'America politica dove l'avevano messa gli elettori in novembre quando divisero esattamente il loro voto tra i partiti: al centro. La leggenda del "vento della destra", che pure le elezioni del 2000 non avevano affatto alzato, è già finita e la rotta radicalmente conservatrice in materia di tasse, ambiente, scuola, energia, società, rapporti internazionali e assistenza pubblica che il Presidente aveva tentato di imprimere è costata al suo partito la maggioranza al Senato, il massimo organo di legislazione e di controllo americano.

E' come se Bush avesse perduto ieri, a scoppio ritardato, un pezzo di quella elezione che aveva strappato in novembre e aveva sbagliato a leggere come qualcosa che non era mai stata, un mandato di restaurazione ideologica.
È stato uno yankee, un nordista del Vermont, a rimettere in sesto la barca sbandata dal "texano" sudista che si è dovuto subito difendere, dicendo che «l'America della strada è con me, non con il senatore». Un senatore della destra moderata del Nord, un repubblicano "turbato" dall'estremismo del presidente texano, è passato all'opposizione e ha trasformato con un solo passo la maggioranza in minoranza nel Senato. Ora, tutta la formidabile macchina legislativa della camera alta, la presidenza dei lavori, l'agenda delle proposte di legge, il controllo delle onnipotenti commissioni, il consenso e la scelta dei giudici, ministri, ambasciatori passa sotto il controllo dell'opposizione democratica. E quell'arte del compromesso centrista che Bush aveva sempre predicato in campagna e dimenticato nella sua marcia forzata e suicida a destra, diviene da oggi l'imperativo della sua presidenza.
Quando, ieri mattina nel suo Stato del Vermont, il senatore repubblicano James Jeffords ha annunciato ai suoi elettori che avrebbe fatto il "salto della quaglia" e sarebbe divenuto un "Indipendente" affiliato al gruppo dei Democratici, l'assoluto equilibrio di volo del Senato prodotto dalle elezioni a causa dell'arretramento dei repubblicani - 50 senatori Repubblicani, 50 Democratici, voto di spareggio assegnato al vicepresidente Cheney - s'è ovviamente spezzato. La maggioranza dei seggi è passata all'opposizione, che ha ora 51 senatori contro i 49 repubblicani e se queste cifre non consegnano un mandato "di sinistra" al partito di Ted Kennedy e di Hillary Clinton e Tom Daschle, esse sono abbastanza per ribaltare tutta la dinamica procedurale e quindi politica del Senato.
Presidenti repubblicani di commissione già insediati dovranno questa mattina lasciare il loro ufficio a un collega del partito opposto. Centinaia d'assistenti, consiglieri, segretari, stagisti assunti in massa quattro mesi or sono per fare corte attorno alla maggioranza, torneranno a casa, rimpiazzati dai cortigiani dei nuovi padroni che si ridividono le spoglie, come se fosse avvenuta una nuova elezione. E, soprattutto, le proposte di legge, di incarichi, di nomine, di trattati avanzate da Bush che ora stavano in cima alla pila di carte da sbrigare, finiscono nel fondo, rimpiazzate da proposte, incarichi, nomine preferiti dall'opposizione. Nulla cambia, formalmente, ma il potere procedurale di un presidente di commissione è, nel Senato americano, assoluto. Nomine e leggi sgradite possono restare a marcire per mesi e mesi, fino alla decomposizione, sulle loro scrivanie.
Ma se questo è l'effetto meccanico del tradimento, è il significato politico del suo tradimento quello sta risuonando in America e che naturalmente avrà i suoi riverberi sul mondo. Il 66enne senatore Jeffords non è un ideologo. La sua è una vicenda politica grigia, educata e pallida, come lo stato yankee del Vermont, che egli rappresenta nel nome di un moderatismo illuminato che fa eleggere presidenti democratici ma riequilibra quel voto spesso con senatori nominalmente di destra, ma politicamente moderati. Questa è la terra incubatrice dei Puritani, di un'America bianca e per bene, che ha sempre rifiutato la pena di morte, che crede nella difesa dell'ambiente coniugato con l'individualismo di chi "lavora duro", che diffida della scuole confessionali e degli imbonitori, preferendo l'arte difficile dell'understatement, delle cose dette a bassa voce e fatte. E manda, unica negli Usa, anche un deputato socialista alla Camera.
L'esatto opposto di quel che Bush ha fatto finora dalla Casa Bianca. Basta ascoltare le parole addolorate del transfuga per capirlo. «Non potevo più accettare una politica fiscale che regala immensi sconti a chi ha già molto e toglie a chi non ha». «Non riuscivo a capire perché il Presidente volesse destinare tanti fondi pubblici a scuole private, lasciando che l'educazione pubblica andasse alla deriva. Se le scuole pubbliche vanno in malora che facciamo, buttiamo fuori milioni di studenti?». «Mi sentivo profondamente a disagio davanti all'unilateralismo di una Presidenza che aveva promesso d'esser bipartigiana ma di fatto decideva tutto da sola e poi cercava d'imporre al Congresso le sue scelte».
Scontando pure tutte le ragioni personali, l'ebbrezza del politicante oscuro che per un giorno prova il brivido della storia, le parole e il gesto di questo senatore dicono chiaramente che in questi primi 120 giorni Bush ha perduto la maggioranza in Senato (ne conserva una piccolissima, di 6 seggi, alla Camera) per avere commesso due enormi errori, uno tattico e uno strategico. Tatticamente, ha dimenticato di corteggiare o di spaventare personaggi come questo Jeffords, di solito marginali ma che le circostanze aveva reso essenziali. «Si governa facendo favori o facendo paura» insegnava Lyndon Johnson, e George Bush non ha fatto né paura né favori.
Ma l'errore più grave è stato strategico. È stato credere che l'inesistenza di un vero mandato elettorale, la mancanza d'una maggioranza popolare dietro la "vittoria accidentale" uscita per mandato della Corte Suprema dalle urne introvabili della Florida, fosse un segnale di via libera per lanciare iniziative sull'energia, il fisco, l'ambiente, la scuola, la politica estera che creassero attorno a Bush quel consenso a posteriori che a priori l'elettorato non gli aveva concesso.
Naturalmente, George Bush non sarà il primo presidente a dover volare senza un'ala. Dal ‘68 ad oggi solo Carter e Clinton, nel ‘93'94, ebbero Camera e Senato allineati e non furono tempo felici per l'America. Tutti gli altri dovettero misurare la propria presidenza contro una maggioranza ostile e temperare le proprie smanie ideologiche contro il Parlamento che non può sfiduciare un Presidente ma può paralizzarlo. Per fare passare leggi e iniziative e nomine, Bush dovrà dunque fare appello direttamente alla nazione, convincerla e poi moderare le sue smanie radicali di destra per mantenere il resto del suo volo su quella rotta che l'elettorato aveva chiaramente indicato e che lui aveva tradito. Chi, dall'estero, puntava su un appoggio o un'asse politica con la destra radicale americana per giustificare rivoluzioni e restaurazioni in casa propria, guardi all'umile e ignoto senatore yankee del Vermont e non ai proclami ideologici del Sudista texano. Vedrà che il timone dell'America è stabile dove è ormai da anni, saldo al centro.



 
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