Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
 
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il manifesto 02-08-2001
 
La carica di Fini su Genova
Il senato vota la fiducia a Scajola. Per il governo parla il leader di An, che attacca e minaccia i parlamentari vicini al Gsf
 
Andrea Colombo
 
Il ministro Scajola incassa la fiducia del senato, che ha respinto la mozione di sfiducia contro di lui con 180 no, 106 sì e un astenuto. L'opposizione, dopo aver inutilmente insistito al senato per una commissione d'inchiesta parlamentare deve accontantarsi della "indagine conoscitiva" affidata a un comitato paritetico composto da 36 parlamentari facenti parte delle commissioni Affari costituzionali di entrambe le camere. La commissione terminerà i suoi lavori il 20 settembre. Le conclusioni saranno rese note entro le due settimane seguenti.
Tutto come previsto. Tutto tranne l'offensiva di Gianfranco Fini. A sorpresa, è stato il vice-presidente del consiglio e non Silvio Berlusconi a prendere la parola a nome del governo per chiedere all'aula di respingere la sfiducia. Il capo di An ha approfittato dei 20 minuti a sua disposizione per lanciare oscure minacce e soprattutto per chiarire che, nelle intenzioni della maggioranza, l'indagine dovrà sì inchiodare qualcuno, non però le forze dell'ordine e i responsabili dei pestaggi, ma il Genoa Social Forum e i parlamentari vicini al movimento no-global.
"Dio non voglia - si è scatenato Fini nel passaggio chiave del suo discorso - che dalle indagini e dalle commissioni non emerga che le responsabilità di collusione, di protezione e di copertura non sono soltanto di gruppi extraparlamentari, ma anche di qualche collega che siede sui banchi del parlamento repubblicano". Poco prima, il vice-premier si era scagliato contro il Gsf: "Fare luce significa anche chiarire in cosa consista la rete logistica, di protezione, di collusione e di complicità di cui godono all'interno del movimento e all'interno di certe frange dell'ultrasinistra i cosiddetti black bloc o gli eversori che hanno saccheggiato Genova". Inutilmente, il capogruppo diessino Angius ha chiesto a Fini di fare i nomi e di chiarire le sue allusioni. Ma negli ambienti nazional-alleati si parla, impossibile dire con quanta fondatezza, di intercettazioni telefoniche.
Ma questi sono quasi particolari. Il discorso dell'"uomo forte" del governo resta comunque chiarissimo. A Genova le cose sono andate per il meglio. Chi ha parlato di sparizioni o torture, solo perché "uno o due o dieci arrestati tra i tanti" hanno denunciato maltrattamenti, "ha offeso il decoro internazionale dell'Italia". Gli scontri con la polizia non sono stati ingaggiati solo da alcune centinaia di delinquenti: "C'era all'interno della massa dei manifestanti il brodo di coltura dell'eversione". Quanto ai fatti di sabato 21 luglio, le cariche indiscriminate, l'irruzione alla Diaz, le torture a Bolzaneto, Fini gli ha dedicato sì e no 40 secondi, e solo per attribuire la responsabilità dei fattacci a quanti, dopo l'uccisione di Carlo Giuliani, avevano "messo le forze dell'ordine sul banco degli imputati chiamandoli 'assassini'".
La rivendicazione di Gianfranco Fini è andata persino oltre quella, già piuttosto inaudita, del ministro Scajola nella sua relazione a Montecitorio. Non potrebbe essere più chiara la volontà di rovesciare la realtà dei fatti, facendo dell'indagine conoscitiva un processo contro gli organizzatori delle manifestazioni e contro i parlamentari vicini al movimento. Del resto, l'indagine parte già viziata dal voto precedentemente espresso a favore di Scajola. Un'ipoteca che difficilmente potrà essere ribaltata da una commissione composta a maggioranza dal centrodestra.
I leader dell'Ulivo hanno tuttavia salutato l'indagine come una vittoria netta. "Un risultato positivo: la avevamo chiesta sin dall'inizio", commenta Rutelli. "Il fatto saliente della giornata - rincara Fassino - è la costituzione sia alla camera che al senato della commissione d'indagine, che finalmente ci consentirà una conoscenza più precisa e più esatta di quello che è accaduto a Genova. E' un successo della battaglia dell'opposizione".
Massimo D'Alema, dopo i durissimi attacchi sferrati contro Fini e An, è prudentemente ottimista sull'esito dell'indagine: "Molto dipenderà da quanto le aree democratiche all'interno delle forze di polizia, e credetemi ce ne sono, si faranno sentire. Il tentativo della destra di rovesciare i termini dell'indagine non ha molte possibilità di riuscire, non con sei inchieste aperte dalla magistratura e con il rapporto dei superispettori del Viminale". D'Alema che ha ceduto il suo posto nella commissione d'indagine a Luciano Violante si difende anche dall'accusa di aver puntato l'indice solo su Alleanza nazionale, assolvendo così implicitamente i vertici delle forze del'ordine: "I capi delle forze di polizia sono quanto di meglio le forze dell'ordine possano esprimere quanto a democraticità. Se si pensa che questi vertici siano fascisti, quelli che prenderebbero il loro posto verrebbero tacciati di nazismo. Ma vi rendete conto che nelle centrali di comando c'erano quattro deputati di An? E cosa ci stavano a fare? La maggioranza è finita in una tenaglia, e noi oggi dobbiamo stringere soprattutto su An".
In realtà, il tentativo di assolvere i vertici della polizia da ogni responsabilità per i fatti di Genova spiega molte delle goffagini e delle ambiguità diessine di questi giorni. Inclusa quella clamorosa rissa tra il gruppo al senato, che insisteva per l'inchiesta, e quello alla camera pronto ad accontentarsi della assai più superficiale indagine. Ma è fuori di dubbio che il partito di Fini abbia approfittato degli incidenti di Genova per ridisegnare a proprio favore la geografia politica del centrodestra. Prendendo nelle sue mani la gestione della situazione a Genova, Fini si è imposto come il vero uomo forte della maggioranza. E non è certo un caso che ieri sia toccato a lui, e non al premier che gli era seduto al fianco, il dubbio onore di proclamare a nome di tutto il governo che l'ordine regna a Genova.
 


 
La Repubblica 03-08-2001
 
G8, Scajola punisce la polizia
Rimossi Andreassi, La Barbera e il questore di Genova
scontro sul g8
 
Liana Milella
 
ROMA - Per le violenze e i pestaggi della polizia a Genova il ministro dell'Interno Claudio Scajola fa cadere le prime tre teste. Sono quelle del vicecapo vicario Ansoino Andreassi, commissario in Liguria per il G8; di Arnaldo La Barbera, responsabile della polizia antiterrorismo; del questore Francesco Colucci. La motivazione è semplice e la fornisce lo stesso Viminale quando, alle 21 e 3 minuti, le agenzie annunciano, a sorpresa, la durissima decisione: «Il ministro ha studiato con grande attenzione i rapporti dei superispettori Micalizio, Montanaro e Cernetig chiesti dopo i gravi fatti accaduti. Quelle relazioni mettono in evidenza, in modo chiaro, come siano stati commessi degli errori dalla "catena di comando". Di conseguenza, i vertici di quella catena sono stati destinati ad altri incarichi».
È una decisione molto pesante quella di Scajola e che coglie del tutto impreparato il vertice della polizia, ignaro, fino a mezz'ora prima della nota ufficiale, di che cosa stesse progettando il titolare politico del Viminale. Che invece, prima di convocare nella sua stanza, subito dopo il consiglio dei ministri, Andreassi e La Barbera, aveva già comunicato i suoi passi al capo dello Stato. E che una simile rimozione fosse nell'aria si poteva cogliere nelle parole pronunciate da Silvio Berlusconi verso le 16, dopo la riunione dei forzisti al Senato: «Se dalle relazioni degli ispettori emergeranno responsabilità di singoli, saranno presi provvedimenti».
Dai massimi dirigenti della polizia invece, già da 48 ore, continuavano ad arrivare segnali differenti: il consiglio stesso dato al ministro era quello di pazientare in attesa dell'indagine parlamentare e dell'inchiesta giudiziaria. Prima di quelle conclusioni, la prima prevista il 20 settembre, la seconda ben più lontana, sarebbe stato difficile decidere in quale modo e in che misura distribuire le colpe e fissare quindi le corrette sanzioni. Un discorso tecnico che, evidentemente, non teneva conto delle esigenze politiche e di immagine di Scajola, il quale, ancora ieri mattina, ha aperto la sua giornata dovendo fare i conti con una rassegna stampa in cui molti giornali stranieri lo accusavano di coprire una polizia violenta. Non solo: il ministro è rimasto colpito dalle dichiarazioni del capo del reparto mobile Canterini («Poteva De Gennaro non sapere nulla del blitz alla scuola?») e del questore Colucci («A decidere, quella sera, c'era anche Andreassi»). Parole che fornivano il quadro di una polizia dilaniata da faide e ormai incontrollabile e per giunta pronta a trovare come avvocato difensore addirittura il sottosegretario Taormina noto "nemico" di De Gennaro. Per non parlare dei sindacati in battaglia temendo che a pagare potessero essere solo i livelli più bassi.
La linea del ministro è stata tutt'altra rispetto alle prudenze della polizia e ispirata soprattutto a un principio, quello di "cominciare dall'alto". Dice il ministro: «Andreassi e La Barbera, da bravi servitori dello Stato, hanno condiviso la necessità che in questo momento gli alti ruoli che ricoprono dovessero essere lasciati per consentire alla magistratura di svolgere al meglio il suo compito» ha detto Scajola dopo una decisione che, com'è ben evidente all'interno dell'apparato, non è affatto indolore. Andreassi e La Barbera sono due "uomini" del capo della polizia Gianni De Gennaro. L'attuale vicario è stato suo vice alla Criminalpol, poi nominato all'antiterrorismo, quindi divenuto suo numero due il 18 gennaio di quest'anno quando La Barbera, da questore di Roma, ne ha preso il posto suscitando un certo stupore tra i poliziotti. Perché, da esperto di indagini sulla mafia, passava a dirigere un settore delicato pur non avendo un'esperienza specifica. Andreassi e La Barbera si sono ritrovati a Genova ed entrambi, per l'ispettore Micalizio nel caso della Diaz, e per Cernetig per la gestione complessiva dell'ordine pubblico, hanno avuto «gravi responsabilità». Il caso più grave è quello del blitz: Andreassi era presente quando fu decisa l'irruzione, La Barbera era addirittura sul posto con il casco in testa.
Che ci fossero divergenze di opinioni tra Scajola e De Gennaro si era capito dalla settimana scorsa. Il primo sintomo è stata la smentita che il capo della polizia ha dovuto fare su una sua intervista precisando che «il ministro non era al corrente della perquisizione alla Diaz». Poi sono arrivati i rapporti dei superispettori, quasi minimizzati dai vertici del Dipartimento, ma tenuti in grande considerazione da Scajola. Il ministro e De Gennaro si sono incontrati per molte ore tra martedì e l'altro ieri, quando il ministro, non ancora soddisfatto, ha chiesto altri approfondimenti. A quel punto è cominciata l'attesa: da una parte la polizia, irritata per l'indagine parlamentare, ma convinta che nulla sarebbe accaduto soprattutto ai vertici, dall'altra un silenziosissimo Scajola. Di mezzo, il consiglio dei ministri di ieri in cui è parso che si dovesse discutere la questione. Invece Scajola ha preso da solo la prima decisione importante del suo dicastero: la «destinazione ad altro incarico» di due degli uomini più rappresentativi della «squadra del capo» senza affidare a De Gennaro la loro sostituzione. Un passo, anche questo, significativo al punto che, nel palazzo, ieri sera è circolata di nuovo la voce di possibili dimissioni di chi era ed è al vertice della "catena di comando".


 
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