Riforme Istituzionali
Rassegna stampa

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Corriere della sera 30-01-2002
L’intervento di Giovanni Sartori del 15 gennaio ...

Leopoldo Elia (Presidente Emerito della Corte Costituzionale)

L’intervento di Giovanni Sartori del 15 gennaio scorso, esprimendo l’opinione di uno dei più illustri politologi a livello mondiale, merita una considerazione ed un chiarimento che sono mancati nei commenti di questi giorni. E’ nota la sua posizione, coerentemente mantenuta da gran tempo, in tema di conflitto di interesse: ma la questione di più immediato rilievo per il costituzionalista è un’altra e tocca il problema dei rapporti tra organi costituzionali allorché viene chiamato in causa il potere presidenziale previsto nel quarto comma dell’art. 87 della Costituzione: «Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del governo». Orbene, il quesito che si è posto Sartori è il seguente: può il capo dello Stato non autorizzare la presentazione alle Camere del disegno di legge governativo sul conflitto di interesse? Ed ha ritenuto di poter rispondere positivamente. Come non è a tutti noto l’esplicitazione di quel potere del presidente della Repubblica fu richiesta nell’Assemblea Costituente da Vittorio Emanuele Orlando.
Il presidente della Commissione incaricata di predisporre il progetto di Costituzione on. Ruini rispose che si poteva aderire alla richiesta, trattandosi di un «intervento formale» del capo dello Stato, già ricompreso nel più generale precetto che richiede che gli atti più importanti del potere esecutivo siano formalmente emanati con decreti del presidente della Repubblica.
La dottrina ha poi chiarito che il carattere formale dell’intervento non andava inteso nel senso di decorativo o automatico perché anche l’emanazione o la firma davano al presidente la possibilità di controllare o sindacare che l’atto del governo corrispondesse a determinate condizioni e requisiti. Ma tale potere di controllo ha limiti ben precisi che hanno trovato in una definizione del compianto Livio Paladin la sintesi migliore: «L’unica ratio di tale autorizzazione consiste nel verificare se i disegni in esame siano immuni da vizi così gravi che il Parlamento non dovrebbe nemmeno prenderne visione». Ed è chiaro che i vizi dovrebbero dar luogo non a un semplice giudizio di inadeguatezza, ma di palese e radicale incostituzionalità altrimenti, aggiungo io, il presidente sarebbe coinvolto in questioni di gestione politica che sono nella esclusiva responsabilità del governo.
D’altra parte, se si riflette sul fatto che su una legge approvata dal Parlamento, che entra perciò in vigore con il solo fatto della promulgazione, spetta al presidente della Repubblica un potere di semplice veto sospensivo (nel senso che, come è pure successo nella storia repubblicana, dinanzi ad una nuova approvazione parlamentare egli è obbligato a procedere alla promulgazione), come si può pensare che, nel momento assai meno impegnativo della autorizzazione alla presentazione del disegno di legge alle Camere, il suo possa configurarsi come un potere di veto assoluto? Un veto che, tra l’altro, non potrebbe comunque impedire che lo stesso disegno di legge venga presentato ad iniziativa parlamentare o popolare.
I precedenti, che non sono di per sé decisivi ma vanno pur sempre presi in considerazione anche quando risalgono alla cosiddetta prima Repubblica, insegnano qualche cosa. Uno dei motivi più seri della tensione che turbò i rapporti tra il presidente Segni e il primo governo di centrosinistra organico, presieduto da Aldo Moro, consisteva nell’ostruzionismo messo in opera dal capo dello Stato contro un disegno di legge in materia tributaria, sostenuto fortemente anche dall’on. Ugo La Malfa: la tensione fu molto alta e si protrasse per alcune settimane finché il decreto di autorizzazione fu firmato di malavoglia dal presidente Segni.
Un altro episodio riguarda il controllo mediante richiesta di riesame che il presidente Cossiga esercitò a proposito di un disegno di legge già approvato dal Consiglio dei ministri in tema di copertura degli oneri finanziari conseguenti a pronuncia della Corte Costituzionale e di altri organi giurisdizionali. Il presidente, eccependo dubbi di compatibilità con l’ordinamento costituzionale, chiese con una lettera rimasta riservata di «riproporre all’approfondimento del governo la nuova normativa» alla luce dei suoi rilievi. Il governo De Mita rinunciò poi al disegno di legge.
Dunque interpretazione costituzionale e prassi di lungo corso coincidono ed escludono il veto del capo dello Stato, al di fuori delle circostanze eccezionalissime evocate da Paladin, a proposito di disegni di legge ritenuti rilevanti per l’attuazione del programma di governo.
Del resto, se il presidente agisse diversamente da questa linea interpretativa, avallata dalla migliore dottrina, si darebbe luogo ad un precedente pericoloso per i futuri sviluppi costituzionali. Si potrebbero verificare, infatti, situazioni di confusione di responsabilità, dalle quali potrebbero trarre argomento i sostenitori di un presidente della Repubblica dotato di poteri di governo.
Tuttavia sembra eccessivamente squilibrata in altro senso la posizione espressa da Galli della Loggia, secondo il quale il «sorvegliatissimo e discretissimo Consigliere dell’esecutivo» potrebbe consigliare e sconsigliare solo in circostanze eccezionali. E’ invece evidente che l’intervento di «moral suasion» può verificarsi, einaudianamente, tutte le volte che il presidente lo ritenga utile: ed anche nell’esercizio del potere di autorizzazione.
Nondimeno la presa di posizione di Sartori resta altamente sintomatica delle carenze di garanzie nel nostro sistema iper maggioritario dopo il 13 maggio, non solo per la mancanza di uno statuto dell’opposizione che la protegga di fronte alle prevaricazioni all’interno del Parlamento, ma anche di tutele di pluralismo essenziali nelle istituzioni di alte autorità indipendenti, con speciale riguardo alla disciplina dei mezzi di informazione radiotelevisiva. Si richiedono soluzioni appropriate e largamente consensuali: riflettendo tutti che, secondo la ruota del tempo e degli eventi, tutti potranno giovarsi di un ragionevole garantismo.
 


La risposta di Sartori

Le questioni sono tre. La prima riguarda il testo della Costituzione: cosa dice o non dice. La seconda è su come la giurisprudenza interpreta la Costituzione e la sua evoluzione «materiale». La terza è su quali siano le circostanze di intervento. Nel mio fondo del 15 gennaio mi sono occupato dei poteri «informali» del presidente e degli articoli 87 e 74 della Costituzione. Non mi sono occupato, invece, della giurisprudenza. Questa omissione (dovuta alla tirannide dello spazio) viene ora sanata dall’impeccabile intervento di Elia. Impeccabile in sé, e anche di grande aiuto e conforto per me. Perché, in avvenire, sull’interpretazione citerò Elia. In materia io non faccio testo; lui sì.
Vero è che, rinviando a Paladin, Elia trae dal mazzo la lettura più restrittiva. Ma a me sta bene anche la sintesi di Elia: per intervenire il presidente deve ravvisare in un provvedimento una «palese e radicale incostituzionalità». Nel mio sopracitato articolo sul Corriere ho già adombrato che questa è e sarà la mia tesi. In altri scritti (in questa settimana sull’ Espresso ) la tesi è già delineata. Ma prima di azionare le mie artiglierie - sul terreno di combattimento che mi compete, il terreno della teoria della democrazia - debbo aspettare il testo sulla disciplina del conflitto di interessi che sarà partorito dal Parlamento.
In attesa tengo a rassicurare Elia. Io non ipotizzo un potere di veto assoluto, ma invece qualificato. Più esattamente io mi pongo il problema dei poteri presidenziali «autonomi» nei quali la firma del presidente non è soltanto un atto dovuto di certificazione notarile, ma è invece un atto che esprime una volontà, soltanto in contesti di «merito costituzionale». Mi è chiarissimo che il capo dello Stato non deve essere «coinvolto in questioni di gestione politica». Deve essere altrettanto chiaro che io sollevo una questione ulteriore: se un presidente sia costretto ad avallare senza nemmeno fiatare un disegno di legge che viola - come mi propongo di dimostrare su un testo definitivo - tutte le regole del gioco della democrazia costituzionale.


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