ROMA - Se non fosse perché è vicepremier, se non fosse perché è stato uno dei protagonisti della Bicamerale presieduta da D’Alema, avrebbe comunque titolo a parlare di riforme perché «io sono uno dei pochi sopravvissuti della commissione Bozzi». Vecchio non è Fini, sebbene ieri abbia festeggiato il suo 51° compleanno, però è bastato accostasse alla sua esperienza il nome dell’esponente liberale che guidò il primo tentativo di modifica delle istituzioni, per sottolineare quante volte il Palazzo ha invano tentato di riformarsi. Così, l’assenza di enfasi nelle sue parole non è solo dettata dalla prudenza di chi ha vissuto i fallimenti passati, ma dal fatto che per realizzare l’impresa servono ora «certe condizioni». Intanto che non ci siano condizioni, che non si parta con i diktat, «perché è ovvio che An è da sempre favorevole al modello semi-presidenzialista francese, ma non si può pensare di ricominciare daccapo, con le bandiere di partito, con l’idea che le riforme diventino armi per regolamenti di conti o per sparate propagandistiche. Altrimenti non si andrà da nessuna parte». E allora, se si vorrà discutere del nuovo assetto dello Stato, «bisognerà parlarne coniugando i verbi al futuro, pensando ciò che sarà, non disegnando la realtà del presente. Le riforme si fanno per i cittadini e non per i protagonisti del dibattito politico di oggi». Fra le tante cause dei precedenti naufragi, «la più forte - secondo Fini - fu che mancò la consapevolezza di stabilire un equilibrio complessivo di pesi e contrappesi tra le istituzioni. Ed è proprio il riferimento che ha fatto Ciampi nel suo messaggio di fine anno».
Vuol dire che è disposto ad accettare
una ipotesi subordinata rispetto al semi-presidenzialismo?
«Intanto vorrei non si demonizzassero le
posizioni che non si condividono. Non si può parlare di devolution
e passare per qualcuno che vuole disgregare il Paese, non si può
sostenere il presidenzialismo ed essere accusati di voler andare verso
una deriva plebiscitaria di tipo venezuelano».
Ma se si lavorasse attorno al progetto del
premierato?
«Se si è d’accordo con l’idea di
rafforzare i poteri dell’esecutivo, allora significa che tutti prendono
in considerazione l’idea di modificare gli attuali equilibri, comprese
anche quelle che sono oggi le prerogative del Capo dello Stato. E si vedrà
subito se c’è qualcuno che parla di premierato e pensa al cancellierato,
se discute di ipotesi innovative e poi si arrocca su posizioni di retroguardia.
A mio avviso esistono alcune colonne d’Ercole che prendono origine da un
messaggio inviato alle Camere durante il suo settennato da Cossiga. L’allora
presidente della Repubblica pose il problema su quale fosse il baricentro
della legittimità di un governo. Io penso risieda nel corpo elettorale,
pertanto le colonne d’Ercole di cui parlo sono il fatto che nessuna maggioranza
parlamentare e nessun premier possono essere diversi da quelli scelti dagli
elettori. In questo senso gli ultimi anni non sono passati invano, sono
stati già acquisiti elementi di bipolarismo e di una corretta democrazia
dell’alternanza. Ma questi elementi devono essere consolidati, proprio
come dice Ciampi».
Ritiene che il premier scelto dagli elettori
dovrebbe avere quindi il potere di nominare e revocare i ministri e soprattutto
di sciogliere le Camere?
«Sì. Ciò significherebbe
che non avrebbe più senso la fiducia parlamentare a un governo,
mentre avrebbe ancora un senso il meccanismo della sfiducia. Ma l’atto
di sfiducia al Governo del premier porterebbe alle elezioni. Simul stabunt,
simul cadent . Attenzione però a non soffermarsi solo su questo
tema, non si possono modificare alcuni Titoli della seconda parte della
Costituzione senza toccarne altri. Le riforme vanno fatte tenendo in considerazione
gli equilibri tra istituzioni e devono andare a regime insieme. Altrimenti
è meglio non partire».
Se sta mandando un messaggio a qualcuno sia
più esplicito.
«Non ho problemi: mi riferisco a quella
riforma che viene considerata una fissazione monomaniacale di Berlusconi,
e che invece è una necessità. Mi riferisco al problema della
magistratura. E tra i magistrati c’è chi sembra non rendersi conto
di quel che fa. Trovo di una gravità enorme la richiesta rivolta
ai suoi iscritti dall’Anm, affinché inaugurino l’Anno giudiziario
con in mano la Costituzione, come se la Costituzione fosse minacciata.
E da chi?».
Provi a indovinare?
«Ma è grave che, nel momento in
cui si cerca di ripartire con le riforme, una parte dei magistrati lanci
il messaggio che il suo ordine è minacciato dalla politica».
Dicono di rifarsi al messaggio di Ciampi, che
si è presentato in tv agli italiani con la Costituzione sulla scrivania.
«Si permettono di usare come un alibi Ciampi,
che nel suo messaggio ha ribadito la necessità di tutelare l’indipendenza
della magistratura. Nessuno vuol metterla in discussione. L’atteggiamento
dell'Anm è pretestuoso, il suo comportamento è tipico di
una mentalità politica, e il processo alle intenzioni è istituzionalmente
inaccettabile».
A proposito di temi legati alla giustizia,
sull’indulto An si è spaccata.
«No, il partito ha espresso la sua contrarietà.
È falso che An lascerà libertà di voto. Il punto è
un altro: trattandosi di una materia che riguarda la libertà, ed
essendoci stato un appello del Papa rivolto alle Camere, se vi saranno
singoli parlamentari che vorranno appellarsi alla loro coscienza, questo
diritto andrà tutelato e garantito».
Come immagino vorrà veder garantito
e tutelato il bipolarismo se partirà il processo costituente...
«Se opposizione e maggioranza inizieranno
a discutere non verranno meno al loro ruolo e alla loro natura. Tra le
cause che portarono al fallimento della Bicamerale guidata da D’Alema,
ci fu anche l’idea - a mio avviso errata - che si stesse ricercando un
inciucio. Strano destino quello del presidente dei Ds: fu lui il primo
a coniare quell’espressione e poi a rimanerne vittima... Comunque, se l’accordo
non si dovesse trovare, ciò non comporterebbe come conseguenza automatica
l’impossibilità di fare le riforme. I padri costituenti furono previdenti,
varando l’art. 138 della Costituzione. Ma mi auguro si possa trovare un’intesa.
D’altronde l’anno si è già aperto con una notizia positiva».
A cosa si riferisce?
«All’andamento dei conti pubblici, che
è migliorato. Ciò significa che Berlusconi non professa solo
l’ottimismo della volontà ma anche quello della ragione, e che si
iniziano a vedere gli effetti dell’azione di governo. Merito anche del
ministro Tremonti, che negli ultimi tempi sembrava una sorta di San Sebastiano».
Qualche freccia l’aveva scagliata anche il
suo amico Casini...
«La mia amicizia con il presidente della
Camera è destinata a rafforzarsi. Oggi siamo chiamati a incarichi
diversi e ciò implica anche obblighi diversi, non ci possiamo comportare
come ai tempi in cui eravamo i leader dei nostri rispettivi partiti. Ma
la mia stima nei suoi confronti è aumentata, e spero che la cosa
sia reciproca».
L’opposizione ritiene comunque che sui conti
pubblici non si avrà un effetto virtuoso duraturo, ma soltanto momentaneo
e dovuto ai giochi di finanza creativa messi in atto dal ministro dell’Economia.
«Si tratta di operazioni già attuate
in altri Paesi. Quanto alla finanza creativa di Tremonti, vorrei ricordare
che Schröder sta valutando l’ipotesi di importare il meccanismo dello
scudo fiscale in Germania. Non mi risulta che le idee di Visco fossero
così apprezzate da essere importate persino in Paesi a guida socialdemocratica».
C’era Visco però al governo quando l’Italia
entrò nell’euro.
«E oggi sarebbe sbagliato valutare la moneta
unica esclusivamente per l’effetto che ha avuto sui prezzi al consumo.
È vero che ha innescato una piccola ripresa dell’inflazione, ma
è l’unico elemento negativo rispetto agli enormi vantaggi che ha
prodotto. Sono d’accordo con l’analisi svolta da Giavazzi sul Corriere
: l’euro è uno strumento indispensabile sia sotto il profilo
economico sia sotto il profilo politico. E la Convenzione europea, di cui
mi onoro di far parte, sta lavorando proprio a quel progetto storico».
Cesare Salvi però direbbe: perché fare questro regalo
a Berlusconi?
«Perché c´è un fortunato velo d´ignoranza
su chi vincerà le prossime elezioni. Io, a differenza di Salvi,
ho fiducia nella vittoria del centrosinistra».
Il professor Sartori obietterebbe che in Inghilterra non c´è
l´elezione diretta del premier...
«Obiezione di tipo formalistico. Anche negli Stati Uniti il presidente
non è eletto dai cittadini, ma dai grandi elettori».
Insomma, dobbiamo importare un sistema di tipo inglese, ma restando
alle coalizioni, senza il bipartitismo. Non è come cercare la quadratura
del cerchio?
«Che è già stata realizzata. Con l´elezione
dei sindaci e dei presidenti di regione e province».
Che non sono votati, però, col cosiddetto «Mattarellum»...
«Io lascerei la legge elettorale così com´è.
Perché si sa come si entra nella discussione, ma non come se ne
esce. Un esempio: la soglia di sbarramento al 4 per cento. Finirebbe come
col finanziamento dei partiti, due minuti e l´abbatterebbero all´un
per cento. Invece, come dice Ciampi, e anche Pera, manteniamo le nostre
conquiste, con tutte le loro imperfezioni».
Ciampi ha fatto un espresso riferimento, nel suo discorso di fine
anno, al maggioritario. Ma non al sistema inglese.
«Ciampi, quando ha sottolineato la necessità di un capo
dello stato come garante, ha di fatto detto no al semipresidenzialismo.
E anche al cancellierato, perché come è noto in Germania
si vota col proporzionale. Dunque, resta il modello di tipo inglese, in
cui il premier è anche un leader di maggioranza, e ha potere di
revoca dei ministri».
E la regina come supremo garante.
«Può esserlo anche il presidente della Repubblica. Non
eletto dai cittadini, ma dal Parlamento. Varando però anche la riforma
del bicameralismo perfetto, arrivando a un Senato della autonomie. Vede,
il punto debole del sistema è proprio questo: la fiducia va votata
da una sola Camera. Come accade in Francia, in Inghilterra, in Germania.
Perché il premier è un leader di maggioranza, e non si può
correre il rischio che vi siano maggioranze diverse nei due rami del Parlamento.
E poi, sa una cosa? Questo è esattamente quanto avveniva nell´Italia
pre-fascista. Le Camere venivano sciolte sulla base di una relazione proposta
al re dal presidente del Consiglio, allegata in calce al decreto di scioglimento.
E, a mio avviso, questo c´è già nella nostra Costituzione:
le Camere possono essere sciolte, con parere non vincolante dei due presidenti
del Parlamento controfirmato dal presidente del Consiglio. Scalfaro l´interpretò
con un ruolo notarile del capo del governo, ma vi può essere l´interpretazione,
discussa dalla Costituente, per cui è lo stesso premier l´autore
della proposta».
Per ora Carlo Azeglio Ciampi preferisce non tornare sul tema delle riforme
e dl dialogo tra i Poli. Quel che voleva dire l'ha detto nel messaggio
di capodanno, e adesso, da Napoli, si limita a un laconico: «Spero
che il 2003 sia un anno positivo per il dialogo». Se il presidente
sceglie la massima prudenza non è perché sia insoddisfatto
dalla reazione degli schieramenti al suo appello, ma, al contrario, perché
i risultati sono per il momento più che lusinghieri. Ma la fase
è delicata: meglio evitare scossoni. E' nel centrosinistra che le
parole del capo dello stato hanno inciso più a fondo. Da mesi gli
stati maggiori della Quercia e della Margherita miravano a «tornare
alla politica abbandonando le piazze», secondo fornula asai in voga
nell'Ulivo. Le avances diessine non erano mancate, prima sulla giustizia,
poi sulle riforme istituzionali, ma quasi a mezza bocca. La benedizione
del Colle ha fatto piazza pulita di ogni timidezza. Quella che l'Ulivo
ha lanciato nelle ultime 48 ore è una offensiva di pace in piena
regola, che sarà coronata l'8 gennaio prossimo dalla presentazione
del pacchetto di riforme proposte dal centrosinistra. Subito dopo sarà
convocata l'assemblea dei parlamentari per discutere e controfirmare.
Che l'operazione arrivi in porto, cioè che sia davvero possibile
trovare un punto d'accordo tra gli ulivisti e i berluscones, è più
che dubbio. Gli stessi leader del centrosinstra non nascondono scetticismo
e pessimismo. Ma l'intenzione di provarci c'è davvero. «Tutto
l'Ulivo - dichiara per la Margherita Dario Franceschini - deve avere la
consapevolezza che sulle riforme costituzionali non ci si può porre
il problema se dialogare o meno». E' la stessa posizione espressa
dal coordinatore della Quercia Chiti. E sono proprio Chiti e Franceschini
a dare per già raggiunto l'accordo tra le varie componenti dell'Ulivo
sul progetto di restauro istituzionale.
In realtà le cose sono meno rosee. Il principale nodo irrisolto
è la legge elettorale. L'Udeur di Mastella, ma anche una robusta
componente trasversale che comprende una parte dei Ds e della Margherita,
chiedono il ritorno al proporzionale, o almeno a un sistema misto: il risultato
sarebbe il cancellierato su modello tedesco. Ma proprio bloccare il ritorno
al proporzionale è una delle molle principali che spiegano il fervore
dialogante dell'Ulivo e soprattutto dei Ds. «La via maestra - insiste
Chiti - è quella del governo del premier, realizzabile senza modifiche
dell'attuale legge elttorale». Alla fine, si può scommttere
che sul capitolo legge elettorale l'8 gennaio non verrà detta una
parola. La soluzione del nodo verrà rinviata a data da destinarsi.
Sulle altre proposte (sostituzione del senato con una camera delle
autonomie locali, statuto dei diritti dell'opposizione, sistema codificato
di garanzie sul pluralismo delle tv) lo scontro è meno esplicito,
ma è difficile credere che i senatori accetteranno davvero l'harakiri
senza colpo ferire.
Infine, regna ancora la massima ambiguità su uno dei punti chiave:
i poteri che il centrosinistra concederebbe al premier direttamente eletto
(o al cancelliere). Il punto dolente è la facoltà di sciogliere
le camere. Gli ulivisti ripetono infatti che va salvaguardata la funzione
super partes del presidente della repubblica. Solo che una volta sottrattogli
il potere di sciogliere le camere, del ruolo di garanzia del Quirinale
resterebbe ben poco, e il premierato finirebbe per somigliare assai al
presidenzialismo di Berlusconi. La formula verso la quale l'Ulivo si sta
orientando è questa: il primo ministro potrebbe essere sfiduciato
dalle camere, ma in questo caso potrebbe decidere le elezioni anticipate.
Neppure sull'opportunità di aprire il confronto, però,
l'Ulivo è davvero unito. Verdi e Pdci frenano a tavoletta e mettono
in guardia dal procedere con troppa fretta. Il correntone diessino, o almeno
una sua vasta componente, è pregiudizialmente contrario a riaprire
il dialogo. Non è un caso che ieri il quotidiano vicino alle posizioni
dalemiane Il Riformista abbia lanciato un viuolento attacco personale
contro Pietro Folena, uno degli esponenti del correntone più ostile
al nuovo corso sulle riforme. Rifutare le riforme o «non partecipare
a modellarle», conclude il quotidiano, «sarebbe l'ennesimo
esercizio di tafazzismo». Non è un mistero che la sterzata
dialogante abbia anche una precisa funzione interna al centosinistra: chiudere
i conti con il «movimentismo» dell'ultimo anno.
Gli estremi per uno scontro tra i più seri all'interno dell'Ulivo
ci sono tutti, e se restano ancora sotto traccia c'è un motivo preciso.
I leader dell'Ulivo, anche a porte chiuse, ripetono che la rinuncia alla
devolution bossiana è la condizione pregiudiziale per ogni passo
ulteriore sulla via delle riforme. Ed è un impegno che, se rispettato,
potrebbe terminare il dialogo prima che sia davvero iniziato.
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