Riforme Istituzionali
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La Stampa 25-04-2003
 
I crimini della dittatura irachena e il problema della giustizia internazionale
 
    di Mario Chiavario
 
Da padroni di lussuose dimore a fuggiaschi; da glorie nazionali a figure di carte da gioco, con l'etichetta «wanted». Pochi, nello stesso mondo arabo, sembrano compiangerne la sorte attuale; ma ora occorre pur domandarsi quale seguito «civile» dare a una cattura di Saddam e soci, che per qualcuno è già diventata realtà.

Nonostante il drammatico clima che l'Iraq sta vivendo, tra macerie, fame e saccheggi, non si ha sinora notizia di linciaggi ed esecuzioni sommarie; e speriamo che non ve ne siano neppure in futuro, se e quando a cadere nella rete saranno i pesci più grossi. Ma, allora, chi (e come) potrà e dovrà cercar di garantire autentica giustizia? L'interrogativo è di soluzione difficilissima, teoricamente e soprattutto praticamente; ed è verosimile che, svanite le illusioni dei bagni di folla plaudenti, ne siano oggi consapevoli gli stessi trionfatori d'una guerra in sé meno lunga e disastrosa di quanto molti temevano, ma tutt'altro che finita nelle sue conseguenze dirette e indirette.

Come mezzo per assicurare la repressione di crimini particolarmente gravi, viene da tempo indicato il cosiddetto principio di «universalità» della giurisdizione; ed è un'impostazione corretta ed efficace del problema nella misura in cui la collettività mondiale sia unanime nel ritenere criminosa la natura di determinati fatti e necessaria l'adozione delle più severe sanzioni: su questa base, in qualunque luogo risulti commesso il crimine, e quale che sia la nazionalità del suo autore, ogni Stato del mondo avrebbe il potere-dovere di giudicarlo e di punirlo. L'esempio più spesso addotto è quello della pirateria, tradizionale o aerea; ma si può altresì ricordare che nello stesso ordine di idee il Belgio processò e condannò, due anni fa, alcuni ruandesi per la partecipazione a massacri compiuti nel loro Paese.

Non di rado, però, il principio di universalità rischia di essere applicato in modo distorto; e il pericolo è alto specialmente in un contesto come quello odierno iracheno, dove potrebbe forse soltanto servire, da un lato, per far conseguire una sostanziale immunità a chi riuscisse a rifugiarsi -e a farsi giudicare- in Paesi amici, dall'altro, e all'opposto, per dare una copertura artificiosa a giudizi sui catturati, totalmente rimessi alle autorità militari di occupazione.

E' bensì probabile che appunto a questa soluzione pensino comunque tali autorità, memori dell'operato del generale Mc Arthur nel Giappone del 1945. E qualcuno dirà che - se non per il lugubre esito di quel «precedente» (il processo di Tokyo si concluse con l'impiccagione di sette fra i massimi esponenti del potere imperiale nipponico) - almeno per le garanzie offerte dalla procedura penale angloamericana, essa può anche risultare un «meno peggio». Ma come evitare che nella polveriera del «dopo-Saddam» ne resti invece unicamente, per la popolazione locale e per quelle dei Paesi vicini, l'impressione di un «diritto dei vincitori», imposto con la sola forza delle armi?

Perplessità ancor maggiori, d'altronde, suscita la prospettiva di processi gestiti proprio da autorità locali, ammesso che se ne riesca a mettere in piedi qualcuna in tempi ragionevoli: oltretutto, il crescere della marea fondamentalista evidenzia il rischio che vi rimangano totalmente estranei i princìpi del «fair trial». Ed è vero che persino il recente Statuto della Corte penale internazionale permanente riconosce che a giudicare i reati commessi nel territorio di una nazione - compresi i crimini contro l'umanità - devono di regola essere i giudici nazionali; tuttavia, sempre secondo lo Statuto, il principio vien meno quando quei giudici non diano garanzie di indipendenza e imparzialità, oppure qualora uno Stato non appaia in grado, «in ragione di un disfacimento totale o sostanziale, di giudicare l'accusato o di ottenere gli elementi probatori e le testimonianze necessarie».

Già: la Corte penale internazionale. Sarebbe il vero «giudice naturale», almeno dei più gravi tra i crimini addebitabili agli esponenti della dittatura irachena. Però sappiamo che essa è legittimata a giudicare i soli reati commessi a partire dal 1° luglio 2002, data di entrata in vigore del Trattato che l'ha istituita. Risalgono invece ben all'indietro fatti come le stragi di oppositori e minoranze, realizzate sin dagli anni ottanta.

Non rimane che pensare a una risoluzione dell'Onu, volta o ad estendere in via straordinaria la giurisdizione della Corte oppure (forse più realisticamente) a creare un nuovo Tribunale internazionale ad hoc, simile a quelli chiamati a giudicare i crimini commessi nell'ex-Jugoslavia e in Ruanda. Facile, bensì, un'obiezione: sarebbe pure questo, come i due che si sono appena menzionati, un giudice «post factum»: dunque mancante del connotato della «pre-costituzione» che è supporto normale di una giurisdizione penale non sospetta. Ma tale obiezione, già superata negli altri due casi, potrebbe spuntarsi anche stavolta, purché a certe condizioni: che la composizione del tribunale assicuri ineccepibili livelli di professionalità e di indipendenza dei giudici; che le tavole dei delitti da giudicare si ricavino da specifiche norme preesistenti, o quantomeno dai «princìpi generali del diritto riconosciuti dalla comunità delle nazioni» (secondo la formula dei Patti internazionali sui diritti dell'uomo); che le sanzioni per i rei - tra cui andrebbe comunque esclusa la pena di morte - non siano contrarie al senso di umanità; che le regole processuali siano congegnate in modo da garantire lo scrupoloso rispetto dei diritti fondamentali degli accusati, a cominciare dalla presunzione d'innocenza, sino a prova contraria, per ogni reato contestato.

Di fronte a un organismo del genere sarebbe gravissima responsabilità delle forze occupanti, o di chi altri avesse tra le mani qualche potenziale imputato, il diniego di consegnarlo per il giudizio. Ed è pur vero che a non suggerire troppe illusioni sta l'atteggiamento assunto dagli Stati Uniti nei confronti della Corte penale internazionale, a partire dal loro rifiuto di ratificarne il Trattato istitutivo, nel timore che a subirne processi finiscano per essere anche dei cittadini americani. Potrebbe però essere proprio questa l'occasione per rilanciare, se non un confronto a tutto campo sull'intera materia, almeno un primo, nuovo coinvolgimento degli Usa in un impegno collettivo, quale si avrebbe con un'iniziativa del Consiglio di sicurezza per l'istituzione, appunto, di un Tribunale come quello di cui si è detto.

Ad avere titoli per una richiesta in tal senso potrebbero essere i Paesi di quell'Unione europea, i cui Paesi (Gran Bretagna compresa) hanno tutti accettato lo Statuto della Corte permanente. Né ci sarebbe perciò da mutare di una riga la posizione dell'Europa, a sostegno, in via generale, di quest'organismo, nell'ambito delle sue competenze, e nel rifiuto di ogni immunità a priori per i cittadini di qualsiasi Stato, come pretenderebbero, per i proprii, gli Stati Uniti. Ci sarebbe semmai da evitare che tale rifiuto ridiventasse occasione per polemiche unilaterali e strumentali in funzione antiamericana. Anche perché, di fronte alla giustizia penale internazionale, non sono i soli Stati Uniti ad avere la coda di paglia: in prima fila, troviamo Paesi già schierati per il «no» alla guerra irachena, come Russia e Cina, oltretutto non certo esemplari neppure quanto a tutela «interna» dei diritti umani. Per non parlare di Cuba, appena tornata a dar lavoro al boia e a sottoporre gli oppositori a pesantissime pene carcerarie.


Indice "Rassegna Stampa e Opinioni" - 2003
 
 
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