Corriere della
sera 06-07-2003
Consulta «allargata» alle Regioni: dubbi di An e centristi,
no dell’Ulivo
D’Onofrio: nessuno scandalo, però va coinvolta
l’opposizione. La Margherita: strada aperta al controllo politico
ROMA - Ignazio La Russa, capogruppo di An in
attesa di diventare l’alter ego di Gianfranco Fini nel partito, invita
a non lasciarsi prendere la mano dagli annunci del governo, perché
«i testi scritti della riforma costituzionale ancora non ci sono
e ci vorrà almeno qualche mese per mettere a punto un documento
condiviso». Eppure lui e gli altri sherpa della maggioranza che si
ritrovano ogni lunedì nel laboratorio delle riforme che si chiama
Oficina, di testi e di proposte ne hanno esaminate tante: «Tutte
però sui singoli temi - la devolution, il premierato, la Camera
delle Regioni - adesso bisogna capire se si può fare un disegno
unitario coerente». Su un solo argomento, devolution a parte, Umberto
Bossi però è già stato sul punto di arrivare in Consiglio
dei ministri con un testo: la riforma della Corte costituzionale con giudici
nominati dalle Regioni. Due volte ha annunciato di essere pronto a metter
mano all’organo massimo di controllo del nostro sistema, due volte non
se ne è fatto nulla: i suoi testi, prima ancora di essere presentati,
sono stati oggetto di osservazioni critiche da parte di giuristi e soprattutto
del Quirinale. Il punto controverso riguarda il numero e il criterio di
elezione dei giudici: agli attuali 15 - eletti per un terzo dal Parlamento
e per un terzo dalla magistratura e, nominati, gli ultimi dal Capo dello
Stato - Bossi vorrebbe aggiungerne altri eletti dalle Regioni. A lanciare
l’allarme contro questi cambiamenti è stato il presidente emerito
della Corte Costituzionale Giuliano Vassalli: «Inserire rappresentanti
delle Regioni nella Consulta sarebbe come dire che i giudici della Consulta
nominati dal presidente della Repubblica rappresentano il capo dello Stato,
quelli indicati dalle Camere il Parlamento e gli altri la magistratura,
cosa che assolutamente non è». Ragioni che rendono il padre
del nostro codice di procedura penale «contrarissimo» al progetto.
Non la pensa così Donato Bruno (FI), presidente della Commissione
Affari Costituzionali della Camera, anche se ammette «che il discorso
della riforma della Consulta merita un momento di approfondimento, soprattutto
per determinare il sistema di elezione, che comunque non potrà prescindere
dall’introduzione della Camera delle Regioni, prevista dal progetto del
governo». «Nulla di scandaloso nell’aggiungere qualche giudice
alla Corte» aggiunge Francesco D’Onofrio (Udc), anche lui frequentatore
assiduo delle riunioni di Oficina, che non manca di far osservare
che per «una riforma così ampia della Costituzione andrebbe
però aperto un discorso articolato anche con l’opposizione».
Opposizione che intravede doppi fini nell’idea
di riforma della Corte: «Non va trascurato il clima politico: la
Consulta è l’unico organo di garanzia non controllabile dalla maggioranza
- spiega Dario Franceschini, responsabile delle riforme per la Margherita
- cambiarne la composizione vuol dire renderlo più politico e dunque
controllabile. Se le Regioni vogliono contare, lo potranno fare attraverso
il Senato delle Regioni che sarà comunque chiamato, come avviene
ora per il Senato, ad eleggere insieme alla Camera cinque giudici. Mi sembra
sufficiente». Il diessino Stefano Passigli ha più di una «perplessità»:
«Regionalizzare la Corte significa andare in controtendenza rispetto
a quello che avviene negli Stati federali dove la Corte è un elemento
di unità».