il manifesto
13-01-2004
Il lodo si ferma alla Consulta
La Corte dichiara l'illegittimità dello «scudo»
salva Berlusconi: viola l'uguaglianza dei cittadini di fronte la legge
e l'intangibilità del principio di difesa. Dura poco più
del semestre europeo la sospensione dei processi milanesi a carico del
premier. Una decisione che sconfessa la firma del presidente della Repubblica
e sbarra la strada anche a una eventuale legge di revisione costituzionale.
MATTEO BARTOCCI
ROMA - In poco più di un mese, dopo tre camere di consiglio intervallate da lunghe pause di riflessione, la Consulta ha affondato per «illegittimità costituzionale» l'articolo 1 della legge 140 del 20 giugno 2003, meglio conosciuta come «lodo Schifani». Il grimaldello politico-giuridico che sospendeva i processi penali nei confronti degli alti rappresentanti dello stato «per qualsiasi reato, anche per i fatti antecedenti l'assunzione della carica», di fatto, non esiste più. Lo «scudo» del Cavaliere decadrà il giorno successivo la pubblicazione della decisione. Secondo la Consulta l'immunità tagliata su misura dell'imputato «Berlusconi Silvio» viola gli articoli 3 e 24 della nostra Costituzione. Si tratta di due principi non certo secondari: l'uguaglianza dei cittadini di fronte la legge e l'intangibilità del diritto di difesa in giudizio. Non sono state invece accolte le eccezioni riguardanti altri sette articoli costituzionali richiamate dai giudici milanesi. A nulla è valsa quindi la lunga memoria di 59 pagine firmata di proprio pugno dal premier-imputato. Un tentativo disperato persmontare le eccezioni presentate dal tribunale di Milano.
Curiosamente ma non troppo, lo «scudo» ha salvato il presidente del consiglio dai processi che lo riguardano per la durata esatta del semestre europeo di presidenza italiana. Il semestre è passato, è andato com'è andato (male), e ora per il premier si ricomincia da capo. Non è un mistero che proprio il Quirinale in passato avesse caldeggiato un «ombrello istituzionale» a protezione del Cavaliere durante il round di negoziati che avrebbe potuto portare alla nascita della costituzione europea. Ciampi, e non solo lui, temeva come il fumo negli occhi un premier tenuto sotto processo di fronte a tutta Europa. Proprio per questo la decisione di ieri rappresenta anche uno schiaffo simbolico alla firma del presidente della Repubblica che accompagna in calce il lodo Schifani. Il 26 giugno scorso Ciampi, a una domanda postagli a Berlino durante una sua visita in Germania, aveva affermato che a suo avviso il lodo non era «manifestamente incostituzionale» e aveva affidato alla Corte la decisione di legittimità. Nella stessa occasione il capo dello stato volle precisare che «negli ultimi vent'anni le leggi promulgate e incappate in un giudizio negativo della Corte non raggiungono il numero di 100 e sono state così giudicate spesso per motivi marginali». Anche leggendo lo stringato comunicato della Consulta, non sembra proprio che sia questo il caso del lodo.
Che la decisione sia stata comunque sofferta lo testimonia il fatto che i giudici si sono riuniti anche di sabato, una decisione inedita nella storia dell'istituzione e, secondo le indiscrezioni, la bocciatura della legge sarebbe stata presa solo a maggioranza: dieci voti a favore e cinque contrari. I giudici vicini al centrodestra avrebbero tentato fino all'ultimo di far passare un semaforo rosso parziale. Ma si tratta di speculazioni politiche che non modificano di una virgola la sostanza della sentenza di ieri.
Una pronuncia così netta da parte della Corte, le cui motivazioni saranno rese note entro il 23 gennaio, sembrerebbe infatti sbarrare la strada anche a un lodo approvato con una norma costituzionale e non ordinaria come in questo caso. Il riferimento all'articolo 3, soprattutto, ristabilisce la rigidità della nostra Costituzione di fronte agli assalti delle maggioranze politiche di parte. A Carta vigente, infatti, l'uguaglianza dei cittadini di fronte la legge non è un principio sopprimibile. E' una falsa partenza, quindi, quella che una parte della Casa delle libertà si appresterebbe ora ad intraprendere.
Fin dall'inizio il presidente della Consulta Riccardo Chieppa si è dimostrato sensibile alla delicatezza istituzionale e alla rilevanza politica della decisione di cui la Corte era stata investita: aveva infatti suddiviso i vari argomenti giuridici, in modo inconsueto, tra due relatori diversi. La parte più corposa era stata affidata al giudice Francesco Amirante (eletto dalla corte di Cassazione alla fine del 2001), mentre il giudice Annibale Marini (eletto dal parlamento su indicazione del Polo nel 1997) ha dovuto istruire la parte relativa all'applicazione del giudice Brambilla nel collegio Sme. Un argomento anch'esso giudicato inammissibile ieri ma ormai superato nei fatti dalla sentenza contro Previti e dalla successiva astensione del collegio nel processo stralcio contro Berlusconi. Il presidente Chieppa ha mantenuto l'impegno di giungere a una decisione entro il termine del suo mandato. La sua presidenza infatti scadrà il prossimo 23 gennaio e, secondo la prassi in vigore, dovrebbe succedergli sul seggio più alto l'attuale vicepresidente Gustavo Zagrebelsky, professore nominato dall'allora presidente Scalfaro nel 1995.
Nonostante sia stato dichiarato ammissibile nella stessa giornata di ieri, il referendum anti-lodo promosso da Antonio Di Pietro non dovrebbe più avere luogo per l'avvenuta cancellazione della norma, anche se ogni decisione in merito passa ora alla suprema corte di Cassazione.
La Consulta si è rivelata ancora una volta l'ultimo argine istituzionale
di fronte a molte delle leggi approvate dal centrodestra. Le leggi targate
Cdl dichiarate incostituzionali sono numerose e non secondarie: su tutte
il decreto sull'elettrosmog (in parte assorbito dalla legge Gasparri) e
la norma tremontiana sulle fondazioni bancarie. Molte questioni altrettanto
scottanti aspettano ora il vaglio della Corte: su tutte la Bossi-Fini (nonostante
il parziale via libera di ieri), il condono edilizio e la mole di contenziosi
tra stato e regioni sulle competenze reciproche. E' indubbio però
che il populismo plebiscitario che contraddistingue le destre al governo
non esce indenne dalla sentenza di ieri.
La sovranità smantellata
La posta in gioco nella decisione della Corte. Alessandro Pace: «E'
una vittoria della Costituzione»
IDA DOMINIJANNI
ROMA - «Oggi dovremmo sentirci felici tutti, ivi compresi Berlusconi,
Bondi e Schifani, perché un rigetto della questione di costituzionalità
del lodo Schifani avrebbe significato la fine della rigidità costituzionale,
che è un bene primario di cui godiamo tutti, compresi Berlusconi,
Bondi e Schifani. Non è una vittoria mia e degli altri avvocati
che hanno discusso la causa davanti alla corte, è una vittoria della
Costituzione». Alessandro Pace, il costituzionalista che insieme
con Giuliano Pisapia e Roberto Mastroianni aveva steso, depositato e discusso
la memoria Cir versus Berlusconi sull'incostituzionalità della legge
che rendeva immuni le cinque più alte cariche dello Stato, commenta
così la decisione della consulta. E si capisce parlandogli che effettivamente
non è solo la soddisfazione professionale a fargli vibrare il tono
della voce. Che nella decisione della corte non ci fossero in gioco soltanto
il destino del processo Sme e né le sorti giudiziarie di Berlusconi,
ma il valore della Costituzione e del costituzionalismo democratico, Pace
ce l'aveva chiarissimo quando, illustrando la memoria davanti alla consulta,
aveva citato non a caso alcune sentenze decisive per la storia del costituzionalismo,
dalla «soluzione salomonica» adottata a Lipsia nel `32 dal
tribunale del Reich, che di fatto aprì la strada al nazismo, alla
sentenza Marbury contro Madison con cui la corte suprema statunitense fissò
nel 1803 il principio della rigidità costituzionale. Era questa
la posta in gioco vera della questione di incostituzionalità del
lodo Schifani: ribadire la superiorità della Costituzione rispetto
alla legge ordinaria, che non è titolata a modificarla; ribadire
il valore supremo del principio dell'uguaglianza, che neanche una legge
di riforma costituzionale è titolata a erodere; ribadire l'inesistenza
di qualsiasi «sovranità assoluta», che sia quella del
re o quella del popolo e dei suoi rappresentanti, perché le Costituzioni
novecentesche non sono state scritte per concentrare i poteri bensì
per limitarli e sottoporli tutti alla legge fondamentale.
Checché ne dicano in coro gli esponenti della Casa delle libertà, che non perdono l'occasione per dimostrare la loro insipienza in materia istituzionale e costituzionale attribuendo la decisione della consulta al solito gioco persecutorio contro il premier, la dichiarazione di illegittimità del lodo Schifani assume a questo punto della storia repubblicana un significato decisivo e solenne. Motivata - stando allo scarno comunicato della corte - sulla base dell'articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittradini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge») e dell'articolo 24 («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento») essa non ha solo il merito di rinviare al mittente la palese condizione di privilegio anti-egualitario che stabiliva per la persona (e non per la funzione, come la memoria Cir sottolineava) del premier; né solo quello di evidenziare la meno palese lesione del garantismo contenuta in una norma che, nel sospendere un processo, di fatto priva del diritto di difesa chi vorrebbe tutelare, impedendogli di dimostrare la propria innocenza. La lezione più decisiva è ancor più di fondo, e consiste nello smantellamento della convinzione su cui ruota tutta la visione del mondo e l'azione di governo di Berlusconi e soci: l'idea che la sovranità popolare, trasferita tramite il voto alla maggioranza parlamentare, sia onnipotente e autorizzi la produzione di leggi scritte a copertura di interessi privati contro la lettera e lo spirito della Costituzione. Senonché «non vi è più in Italia principe o suddito sciolto dalle leggi», e «il popolo non può, col suo voto, rendere giudiziariamente immuni coloro che siano stati da esso eletti», c'era scritto nella memoria di Pace, Pisapia e Mastroianni. I giudici supremi le hanno dato ragione, vanificando con un solo atto l'attivismo anticostituzionale da cui la destra di Berlusconi, Bossi e Fini è tenuta insieme; e ammonendo implicitamente chiunque, anche nell'altra metà del campo politico, sia sedotto dall'idea che in democrazia i voti siano tutto. La separazione dei poteri ha ancora qualche freccia al suo arco, e la Costituzione ha ancora i suoi custodi.
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