Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
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DDL Costituzionale (contenente la devolution): Commenti all'approvazione del Senato

Corriere della sera  24-03-2005
 
La patria perduta. Nuova Carta, in pericolo l’unità italiana
 
di Ernesto Galli della Loggia

 È impossibile nascondersi la gravità di quanto è accaduto ieri al Senato. Dopo la Camera, infatti, l’assemblea di Palazzo Madama ha approvato definitivamente in prima lettura una riforma della Costituzione italiana che distrugge alcuni aspetti caratterizzanti dell’organizzazione dello Stato repubblicano e modifica in profondità il funzionamento dei massimi organi del suo potere politico nonché lo schema dei loro rapporti.
 
Il panorama delle rovine è presto descritto. Viene estesa a dismisura, anche a campi delicatissimi come quello dell’istruzione e della sicurezza pubblica, la capacità legiferatrice delle Regioni: lo Stato centrale mantiene sì formalmente l’esercizio di un potere d’interdizione, ma in misura attenuata e così ambigua che l’unico risultato prevedibile è una crescita esponenziale del contenzioso Stato- Regioni, già oggi ben oltre il limite di guardia. Nell’ambito del potere centrale, poi, la fine dell’attuale bicameralismo perfetto serve ad installare un Senato di nuovo tipo — presentato come «federale» ma in realtà non eletto in rappresentanza delle Regioni in quanto tali, e con competenze ridotte rispetto ad una vera camera politica —e una Camera dei deputati sovrastata da un primo ministro eletto dal popolo ma che, in barba ad ogni logica costituzionale, potrà a certe condizioni essere sfiduciato dalla stessa ed avrà, insieme, il potere di scioglierla quando gli piacerà. Ciò che in conclusione la riforma costituzionale realizza—per giunta non subito ma, tanto per accrescere la confusione, in varie tappe scaglionate nel tempo — sarà un incrocio contraddittorio e micidiale di accentramento e decentramento, all’insegna dell’istituzionalizzazione della paralisi e dell’apoteosi del ricatto.
 
Del resto è solo per il ricatto continuo e minaccioso della Lega che l’onorevole Berlusconi e la destra hanno dato il via a un progetto simile. È esclusivamente, cioè, per il proprio immediato tornaconto politico che il presidente del Consiglio e altre forze della sua maggioranza, che al pari di lui non hanno mai manifestato alcun interesse per il federalismo, e anzi sono ideologicamente ai suoi antipodi come Alleanza nazionale, lo hanno improvvisamente abbracciato, accettando così cinicamente di mettere mano al disfacimento del Paese.
 
Perché di questo si tratta: la riforma della Costituzione voluta dal governo e dalla sua maggioranza costituisce forse il più grave pericolo che l’unità italiana si trova a correre dopo quello terribile corso sessant’anni orsono nel periodo seguito all’armistizio dell’8 settembre. Mentre in misura altrettanto forte sono in pericolo la funzionalità e l’efficienza della direzione politica dello Stato da un lato, e dall’altro alcuni valori di fondo della nostra convivenza, non più garantiti da una tutela pubblica affidabile.
 
Di fronte a questa prospettiva inquietante, non ci sembra che abbia molto senso unire la nostra voce al coro di quelli che, sia pure con qualche ragione, mettono sotto accusa le responsabilità anche della sinistra per aver aperto la porta al disastro attuale approvando, con una ristrettissima maggioranza, le modifiche del Titolo V della Costituzione nella scorsa legislatura. Anche nelle responsabilità c’è una gerarchia, e oggi quello che appare in modo indiscutibile è il primo posto guadagnato dalla destra e dal suo capo nella corsa a fare il male del Paese. Per realizzare il misfatto hanno bisogno però del consenso dei cittadini nel referendum confermativo da qui ad un anno o quando sarà: vedremo allora se gli italiani sono davvero stanchi di avere una Costituzione e una patria.



 
il manifesto 24-03-2005
 
L'esito
IDA DOMINIJANNI
 
La lunga ed estenuante transizione italiana è arrivata al suo approdo. Vista dalla fine, la storia si vede sempre meglio. Vista dalla fine, e caduti uno dopo l'altro i veli che nei primi anni `90 fecero brindare molta sinistra al «nuovo inizio», la transizione mostra con chiarezza la sua posta in gioco più vera. Che è stata, dall'inizio, la rottura e la riscrittura del patto costituzionale fondativo della Repubblica. Non questo o quel punto, questo o quel potere, questo o quel diritto, ma l'impianto, la concezione della democrazia, la storia novecentesca e antifascista di quel patto. Non a caso la maggioranza che ha messo al mondo la proposta della nuova Carta è fatta di tre forze fin dall'inizio eterogenee, ma fin dall'inizio cementate dalla loro comune estraneità e ostilità alla Carta del `48. Nel voto del Senato di ieri non c'è, per il centrosinistra, una sconfitta politica: c'è una sconfitta, e una verità, storica. Bisogna guardare in faccia questa sconfitta e questa verità senza diminuirle. Perché è vero che l'ultima parola non è ancora detta e spetta al referendum, ma è vero altresì che il referendum non si potrà vincere senza questa cruda consapevolezza, derubricando la posta in gioco o smussando le ragioni dello scontro. L'esito di oggi si poteva evitare? Sì, si poteva evitare; o almeno si poteva lottare con convinzione per evitarlo. Si poteva evitare, dagli anni ottanta in poi, di interiorizzare l'idea che la democrazia italiana avesse bisogno solo di qualche iniezione di governabilità. Si poteva evitare, negli anni novanta, di abbracciare il sistema maggioritario come la panacea di tutti i mali, senza nemmeno preoccuparsi di dotarlo delle garanzie necessarie a non farlo funzionare (oggi e anche in passato, quando fu il centrosinistra a riformare da solo il titolo V) come onnipotenza della maggioranza. Si poteva evitare di innamorarsi con frivolezza di tutti i figurini istituzionali disponibili sul mercato internazionale, dividendosi sul premierato israeliano e sul semipresidenzialismo francese invece di arginare e ribaltare il sovversivismo di Berlusconi, Bossi e Fini. Si poteva evitare di giocare a dadi con la Costituzione e con le istituzioni per risolvere problemi di natura squisitamente politica interni ai partiti e alle coalizioni. Ci voleva una politica costituzionale; non c'è stata.

Bisogna ricostruirla e comunicarla all'opinione pubblica con la convinzione che serve nelle battaglie decisive. Non è vero che la materia è astrusa quanto sembra e non è detto che sia meno coinvolgente di un Porta a Porta su Sanremo. Intrattenere gli elettori sui dispositivi tecnici della riforma può essere difficile, ma spiegarne il senso è semplice. E il senso è questo: una riforma che dà tutti i poteri al premier, riduce il parlamento a una camera di consultazione medievale, sovrappone quattro fonti legislative, altera le funzioni di garanzia del presidente della Repubblica e della Corte. E soprattutto, svuota la rappresentanza e fa a pezzi i diritti fondamentali. Ce n'è abbastanza per mobilitare chiunque.

Esiziale sarebbe invece, per l'opposizione, restare paralizzata dall'annosa paura che difendere il patto del `48 significhi macchiarsi di conservatorismo, e che riformarlo significhi riscriverlo nello stesso senso, solo un po' più moderato, del centrodestra. La Costituzione non va né difesa come un totem né stracciata come un certificato scaduto: va rilanciata, nel suo spirito originario, all'altezza del presente. Magari con un occhio puntato alla Costituzione europea, cornice necessaria, ancorché a sua volta controversa, per smarcarsi dal talk show della transizione nazionale e compiere il salto che la storia impone davvero dal Novecento al secolo nuovo.



Il Sole 24 ore  24-03-2005
 
Pesi e contrappesi
di  Enrico De Mita
  
Sia in termini giuridici che politici il progetto di riforma della Costituzione che ha fatto un passo avanti decisivo ieri al Senato non risponde alle garanzie che devono essere proprie di una democrazia. Siamo di fronte a un progetto che ha punti di crisi fin dalle fondamenta e non ci può illudere che possa essere corretto attraverso modifiche dei singoli punti la cui criticità è stata peraltro messa in luce dalla dottrina giuridica.
Questo soprattutto perché la cosiddetta riforma è fatta di una serie di sovrapposizioni all'idea di base della Lega che va sotto il nome di devolution: un insieme di elementi richiesti da una parte della maggioranza e condivisi con il solo scopo di garantire la stabilità del governo. Questa è la sua forza: una riforma come pretesto politico.
Vi è innanzitutto un problema di merito. La procedura seguita, quella prevista dall'art. 138 della Costituzione con l'eventuale referendum confermativo, non appare infatti idonea per modifiche così ampie. L'art. 138 è stato concepito solo per modificare dei punti ben delimitati. Se si dovesse pervenire a un referendum rispetto a una revisione che tocca l'impianto della Repubblica e dei suoi organi fondamentali, i cittadini sarebbero chiamati a dare una risposta singola, e per questo impropria, rispetto a una serie di istituti non coerenti fra loro.
A un referendum costituzionale complesso è allora necessario rispondere in modo semplice, riconducibile a un valore che il popolo chiamato al referendum possa avvertire come forte e decisivo. Allora la critica di Prodi, che ha denunciato i rischi di una dittatura della maggioranza, contiene un minimo di forza politica, ma non è sufficiente: il rischio che l'Italia sta correndo non è solo la dittatura della maggioranza, ma il disorientamento che si creerebbe nella democrazia a partire dalla approvazione del progetto fino alla celebrazione del referendum.
A questo punto le critiche necessarie non sono più solo quelle tecnico-giuridiche, che nella loro complessità difficilmente possono essere giudicate dal popolo chiamato al referendum, ma sono quelle osservazioni che i giuristi sanno fare quando il loro pensiero investe il terreno storico-politico: «Quando la lotta politica degenera in lotta per la Costituzione, per riprendere una espressione usata a proposito di Weimar, vuol dire che si è arrivati a un punto nel quale, ove non si torni a una seria riflessione sulle condizioni e sui presupposti di una democrazia pluralista, si rischia di causare a quest'ultima ferite gravi e irreversibili» (Baldassarre).
A questo punto non è retorica affermare che la democrazia italiana può correre seri pericoli. Occorre allora tornare alla politica ed è auspicabile che le forze interne ai due poli sappiano trovare il coraggio per dare espressione alla vera maggioranza del Paese.
Contrastare questa riforma non vuol dire fare un dispetto a qualcuno, ma fare in modo che il sistema maggioritario possa tornare a espressioni costruttive superando i condizionamenti di particolari gruppi di potere. Allora prima deve venire l'assetto politico, poi le correzioni alla legge elettorale, poi gli aggiornamenti della Costituzione. Se quest'ultima viene al primo posto in funzione strumentale, per il rafforzamento di singole forze politiche, il Paese rischia la frantumazione, rischia di perdere quella prospettiva unitaria indispensabile dalla politica economica alla politica internazionale.
La Costituzione in una democrazia è la garanzia della coesione sociale e la sua corretta rappresentanza. I contrappesi alla maggioranza sono espressione di pluralismo culturale e di equilibrio nel costume democratico.
E se la Costituzione è confusa diventano insufficienti le garanzie e i contrappesi. Chi nei due poli crede a queste indicazioni ha una grossa responsabilità. Maggioranza e minoranza debbono fare l'impossibile perché questa riforma non venga approvata. Chi nella maggioranza ha una concezione moderata della politica e ha capito che il tema in gioco è il rapporto fra Paese e Parlamento, cioè la corretta rappresentanza politica, oltre le tentazioni del plebiscitarismo, deve ritrovare il coraggio della politica, una politica forte basata sui valori della trasparenza ed dell'efficacia.
Solo con un ritrovato coraggio si può salvare il sistema parlamentare e una concezione del maggioritario con esso compatibile. Il ruolo del Parlamento e l'assetto democratico del Paese sono troppo importanti per essere modificati dagli interessi di tattica politica di breve periodo.


Repubblica.it  25-03-2005
 
Riforma costituzionale - quell'ingenua illusione
di Giuseppe D'Avanzo

ANCORA oggi c'è chi pensa che della riforma della Costituzione, alla fine, non se ne farà nulla. Il referendum la cancellerà, si dice con avventatezza. Nel mondo politico, della cultura e dell'informazione, per non parlare dell'opinione pubblica, c'è chi è - ancora oggi - fiducioso che "il limite" non sarà oltrepassato. L'ingenua illusione può provocare disastri imponenti se non si affronta con realismo quel che è accaduto al Senato con l'approvazione della "Riforma dell'ordinamento della Repubblica" (primo firmatario Silvio Berlusconi). Ha vinto una cultura politica che crede sia la forza il reale fondamento della convivenza umana. L'idea è antica.

Fu di Machiavelli, è stata aggiornata nel ventesimo secolo da Max Weber e Carl Schmitt. Nella sua naiveté Berlusconi ne è, nel mondo occidentale, l'interprete più nitido. Egli si riconosce un'eccezionale autorità personale che può illuminare soltanto chi ha, per la politica, una vocazione. Vive per essa e non di essa (come, al contrario, quei "funzionari di partito" che gli sono avversari). Egli vuole esercitare il potere per realizzare, a vantaggio della comunità, la propria capacità di dare valori, significato e indirizzo alla vita secondo una "concezione del mondo" maturata con successo "in azienda" e in ogni altra "impresa" affrontata.

È naturale, è coerente - a pensarci - che questa volontà e questo potere carismatico abbiano voluto consolidarsi in una Costituzione. Nell'humus istituzionale di un sistema democratico pluralista e pluripartitico, Berlusconi è a disagio. Incontra ostacoli, lungaggini, barriere, balances che gli fanno venire (ammette) "l'orticaria". Burocrazie, partiti, governo, Parlamento, organi di garanzia, magistrature, calcoli elettorali, lo condizionano, lo appesantiscono. Avviliscono i suoi poteri a "mediazione dei conflitti". Li riducono soltanto alla snervante direzione dell'agenda di governo.

Se questo è vero, pare un errore pensare che la nuova Costituzione sia il frutto di una congiuntura politica che ha voluto (dovuto) concedere a ognuno dei partiti di governo una bandierina da sventolare in questa, e nella prossima, campagna elettorale. Berlusconi ha bisogno di questa Costituzione per "cambiare passo", dopo la prima stagione legislativa. Si prepara ad esercitare più concretamente la forza che rimane, nella sua cultura politica naif ma quanto consapevole, lo strumento essenziale per l'organizzazione della società e l'esercizio del potere politico.

È quel che annuncia la "Riforma dell'ordinamento della Repubblica" che frantuma il sistema costituzionale come sistema di equilibri e di reciproche garanzie. Semplificato e irrigidito, il sistema "riformato" concentra e personalizza il potere politico. Nasce un vertice monocratico del potere, eletto plebiscitariamente. È dotato di strumenti che gli consentono di governare senza mediazione e di controllare la maggioranza condizionando con voti bloccati la volontà parlamentare perché dispone liberamente della "vita" della legislatura.

Come ha avuto modo di dire già due anni fa il presidente (ora emerito) della Corte Costituzionale Valerio Onida, questo scenario "non significa democrazia più immediata, ma meno democrazia". Il passo successivo non è difficile immaginarlo perché in controluce già affiora di tanto in tanto. Le categorie del "politico" che quel vertice monocratico e cesarista maneggerà saranno "il bene" e "il male", "l'amico" e "il nemico", "l'uguale" e "il diverso"...

Conviene, come sollecita Mario Pirani, "svegliarsi", rimboccarsi le maniche, riflettere, cercare di capire, al di là dello sconcerto e dell'indignazione. Nessuno deve pensare che sia facile, capire. Ancora ieri, era complicato venire a capo di quanti articoli della Carta siano stati riscritti dal Polo. Per Michele Ainis ne sono stati "modificati 52 e aggiunti altri 3 di sana pianta". Per Andrea Manzella ne sono stati "cambiati 53". Per Sergio Bartole, presidente dell'Associazione costituzionalisti italiani, "la Costituzione cambia in ben 48 articoli". Altre riviste (come Questione Giustizia 1/2005) sostengono che il testo "sostituisce o modifica 49 degli 80 articoli della seconda parte della Costituzione".

52, 55, 53, 48 o 49? Si tratta della Carta costituzionale. Non è irrilevante che neppure addetti eccellenti sappiano concordemente dirci quanti sono gli articoli riscritti o aggiunti. Questa incertezza non è muta. Sono contraddizioni che ci svelano quanto debole e affrettato sia stato il dibattito culturale e politico intorno a una faccenda decisiva per il futuro della democrazia italiana. Forse è utile chiedersi perché questo è accaduto e azzardare anche una risposta.

Il falso mito delle riforme costituzionali, come una malattia, ha contagiato l'intero quadro politico. Tutti. Laici e cattolici. Destra, centro e sinistra. Il contagio, si può dire, dura da vent'anni e ha un suo primo epilogo con il referendum sul sistema proporzionale. Quel giorno, la nostra democrazia cambia pelle. Da "democrazia organizzata", come spiega Mario Dogliani, (organizzata perché fondata sulla mediazione dei partiti) si trasforma in "democrazia individualistica" (perché fondata sul rapporto immediato tra singolo e rappresentanti).

In questo slittamento la Costituzione, approvata il 22 dicembre del 1947, entrata in vigore il primo gennaio del 1948, sembra deprezzarsi, svalutarsi. Appare "invecchiata". Ma le Costituzioni, se vitali, non invecchiano. La più antica delle Costituzioni scritte, quella degli Stati Uniti d'America, nacque il 17 settembre del 1787; fu integrata con i dieci emendamenti del Bill of rights (carta dei diritti) l'anno dopo (1788) e da allora, in 217 anni, dei 10.000 emendamenti proposti ne sono stati approvati soltanto 17 (l'ultimo nel 1992).

La nostra Costituzione, messa sotto pressione, ha dovuto mostrare in questi anni tutta la vitalità dei suoi verdissimi 57 anni. Se non ci si lascia acceccare dal falso mito, lo si può constatare a occhio nudo. E' stata accusata di indebolire il sistema decisionale del governo troppo esposto agli umori del Parlamento. Al contrario è il Parlamento a vivere un'infelice crisi di ruolo mentre le pratiche in uso - i tempi garantiti della discussione in aula; l'ampio uso della questione di fiducia; i maxiemendamenti governativi... - offrono all'esecutivo un vigoroso potere decisionale.

È stato detto che la Carta impedirebbe la stabilità e la continuità dei governi. In realtà, da quando il Parlamento è stato eletto, prevalentemente con il maggioritario (dal 1994), sono stati in carica sei governi, ma si sono succedute al governo quattro maggioranze di cui tre scaturite dal voto. È stato detto che la Costituzione offre al "potere partitocratico" il modo di allungare le mani sulle istituzioni.

È sempre più evidente che il ruolo di mediazione dei partiti tra istanze sociali e istituzioni è quasi del tutto venuto meno. Si dice che è colpa della Costituzione se abbiamo un sistema politico così frammentato. Un sistema politico, però, non è il frutto delle regole del sistema costituzionale, ma delle regole del sistema elettorale (che nulla hanno a che fare con la Carta).

Si può dire allora che - da quando il "mito" delle riforme costituzionali è diventato invasivo e vincente - il sistema politico in tutti i suoi segmenti ha preteso di ottenere, come sostiene Onida, "attraverso le regole costituzionali, la coesione interna delle coalizioni politiche" che è appunto il lavoro, la quotidiana "fatica" dell'azione politica. Quel che la politica non è riuscita a conservare o proteggere o innovare, lo ha chiesto alla rigidità della Costituzione. È il passo laterale che ha sfigurato l'idea della Costituzione. Da motore della politica è diventata cornice. Da tabernacolo di valori e di programmi per realizzarli si è trasformata in strumento tecnico per dare robustezza al potere politico.

Non si può negare che in questa interpretazione svalutativa della Carta è rimasta intrappolata anche l'opposizione di oggi (il governo di ieri). Le preoccupazioni che il centrosinistra propone in queste ore possono esserne una conferma. L'allarme maggiore sembra riguardare "i diritti", come se la Costituzione si rinchiudesse soltanto nel rapporto tra i singoli e i diritti costituzionali.

Sembra quasi che la Carta debba essere affare di Corti Costituzionali, di giudici, di garanzie e non anche l'impegno comune che custodisce un modello di società condiviso, la rappresentazione di un fine e di un futuro collettivo. È proprio vero che bisogna "svegliarsi". Quel che attende il Paese con il referendum è un confronto tra culture politiche. Della cultura "cesaristica" di Berlusconi si sa e si è detto, ma quella che ha ispirato la Costituzione del 1947 dov'è? È ancora viva? Se è viva, perché tace, perché non si mostra?


Indice "Rassegna Stampa e Opinioni" - 2004
 
 
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