In primo luogo, la sequenza di Prodi sembra dare per scontato un esito felice del referendum: si va alle urne, vince il no, si archivia la controriforma della Cdl; dopodiché il processo di riforma si riapre, nel confronto fra maggioranza e opposizione. Ora, che il referendum vada per il meglio non è affatto scontato. Può darsi che ci ripensino, ma all'indomani della sconfitta elettorale Berlusconi e i suoi alleati avevano deciso di comune accordo (cioè superando i precedenti contrasti di merito) di fare del 25 giugno il giorno della revanche. Ferma restando questa intenzione, la mobilitazione dell'elettorato di centrodestra sarà ampia e ideologicamente sostenuta, a fronte di una mobilitazione del centrosinistra fin qui fiacca e poco motivata. Niente autorizza dunque l'ottimismo, e nemmeno il silenzio sullo scenario catastrofico che si aprirebbe nella malaugurata ipotesi che a vincere fosse il sì.
Ma se anche la vittoria del no si potesse dare per certa, la sequenza di Prodi resterebbe oscura, non per quello che dice ma per quello che non dice. Che ogni Costituzione, compresa la nostra, possa essere riformata è ovvio, che debba essere riformata in modo condiviso è giusto (anche se fin qui, dopo il fallimento della bicamerale, sia il centrodestra sia il centrosinistra l'hanno modificata a maggioranza). Come la nostra «splendida» Costituzione debba essere riformata dopo più di un decennio speso, nel centrodestra e in larga parte del centrosinistra, a delegittimarla, è invece il non detto che pesa sul dopo-referendum e sul quale Prodi, come tutti i laeder di centrosinistra, glissa.
Non glissa invece la cultura giuridica e costituzionale che al centrosinistra fa riferimento, che da anni evidenzia questo colpevole processo di delegittimazione, e che oggi è convinta che la vittoria del no al referendum sia cruciale ma non garantisca affatto che le cose prendano una giusta piega in seguito. Ancora giovedì scorso, mentre Prodi presentava il suo governo al senato, un incontro promosso a Roma dalla Fondazione Basso e introdotto da Luigi Ferrajoli ha fatto il punto della questione. E il punto non è solo liquidare una controriforma che fa a pezzi il principio d'uguaglianza tramite la devolution, dà tutti i poteri al premier, mortifica il parlamento, paralizza il processo legislativo. Il punto è, o sarebbe, invertire quel processo di delegittimazione, rilanciando la Carta del '48 nei suoi principi fondamentali, a partire dall'uguaglianza (tradita del resto anche tramite legge ordinaria, si pensi alla legge 40). Un rilancio che richiederebbe insieme una buona «restaurazione culturale» e una buona riforma, in grado di agganciare la Costituzione italiana alla Carta dei diritti europea (Stefano Rodotà, Giuseppe Bronzini).
Ma è questa la riforma di cui (non) parlano Prodi e gli altri leader del centrosinistra, o è una riforma che punta solo a moderare gli eccessi di quella berlusconiana, confermandone la sostanza quanto a verticalizzazione dei poteri, svuotamento della rappresentanza, riduzione dell'uguaglianza? Prima di chiamarci alle urne, la nuova maggioranza dovrebbe provarsi a dissipare questi dubbi.
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