Bene o male le alte cariche dello Stato
sono in carica. Male più che bene Prodi è riuscito a confezionare
un governo. Così per una diecina di giorni il popolo si può
rilassare. Ma a fine maggio ci saranno importanti elezioni amministrative
(tra l’altro a Roma e Milano). Dopodiché il 25 giugno arriva il
referendum confermativo, o sconfermativo, della nuova costituzione. Anche
se il buon popolo forse non lo avverte, quest’ultimo è il voto più
importante di tutti. La costituzione stabilisce le regole della politica
e della gestione del potere. Regole malfatte, che non funzionano, creano
un Paese che non funziona. Regole che limitano poco e male il potere sono
regole che portano all’abuso di potere. Per di più, le costituzioni
durano; e se sono buone costituzioni è bene che durino. Ma durano
anche perché sono difficili da cambiare. Il che sottintende che
se facciamo una cattiva costituzione il rischio è che ce la dovremo
tenere.
Dobbiamo davvero cambiare ab imis la costituzione
vigente? L’argomento dei «cambisti» è che chi difende
la costituzione del ’48 è un «conservatore», un invecchiato,
un sorpassato, sordo alle esigenze del progresso. Ma questo è uno
slogan di bassa e sleale propaganda. Alla stessa stregua è conservatore
il medico che ci conserva in vita, il pompiere che ci conserva la casa
che sta bruciando e l’ecologista che si batte per conservare un’aria pulita.
Scorrettezze polemiche a parte, il discorso serio è che cambiare
una buona (relativamente buona) costituzione per una cattiva costituzione
è un «cambismo» stolto e dannoso. Una costituzione è
da conservare finché non si dimostri che sia necessario rifarla
e, secondo, a condizione che sia sostituita da una costituzione migliore.
E sfido chicchessia a dimostrare che la carta Bossi-Berlusconi sia preferibile,
nel suo insieme, a quella del '48.
Le difese della nuova Carta sono due.
La prima è che finalmente crea una Italia federale. Benissimo. Il
guaio è che quel progetto è fatto con i piedi. Ma sul federalismo
«alla Bossi» è doveroso dedicare un (prossimo) pezzo
a sé. La seconda difesa - di Calderisi e Taradash, lettera al Corriere
del 13 maggio - merita invece di essere affrontata subito, e argomenta
che la nuova costituzione ha il fondamentale merito di eliminare il bicameralismo
simmetrico, o paritario (due Camere con uguale potere), perché «sottrae
la fiducia al Senato». L’argomento è davvero tirato per i
capelli. C’è bisogno di impiombare il Paese con una macchinosa devolution
per così poco? Basterebbe un articoletto che dica press’a poco così:
che nel caso di maggioranze diverse nelle due Camere (altrimenti non c’è
problema) il voto di fiducia compete soltanto alla Camera dei deputati.
Per andare da Roma a Firenze Calderoli mi vorrebbe far passare da Pechino.
Grazie no: preferisco la via diritta.
L’argomento è anche manchevole perché riduce il problema
al voto di fiducia. Ma in Parlamento si votano leggi tutto il tempo e ogni
volta il governo deve ottenere una maggioranza che approva. Anche se il
caso viene limitato alla legislazione concorrente, non ci siamo lo stesso.
L’ultimo affondo del Nostro è che «se il 25 giugno dovesse
prevalere il no alla riforma la spinta conservatrice (sic , ci risiamo)
sarebbe tale da congelare qualsiasi tentativo riformatore della nostra
Carta del ’48». Ma perché mai? Sono decenni che i costituzionalisti
propongono ritocchi migliorativi di quel testo. Se l’ultimo «riformone»
verrà bocciato forse è l’occasione buona per arrivare finalmente
alle «riformine» che occorrono.