Stefano Rodotà
È legittimo chiedere ai politici
una tregua, una moratoria, una provvisoria rinuncia, una temporanea astinenza
che arresti la bulimia con la quale si avventano voracemente su tutti i
talk-show che quotidianamente li convocano per discutere di qualsiasi tema?
E’ legittimo chiedere ai politici del
centrosinistra di partecipare solo alle trasmissioni nelle quali possano
parlare del referendum costituzionale del 25 giugno?
Credo che vi siano molte buone ragioni
per fare queste domande, e rispondere di sì. Si è creato
un generale e indistinto contenitore televisivo, che ingoia politica e
politici, che ormai ha poco a che fare con una giusta e diretta comunicazione
con l’opinione pubblica, trasformato com’è in una triste e ripetitiva
vetrina, in un palcoscenico dove si mettono in scena prevedibili risse
e tic ormai familiari, che gli spettatori più o meno smaliziati
aspettano come se assistessero ad un serial.
I n quest'unico, grande contenitore (o
frullatore?) è cancellata ogni gerarchia, il delitto truculento,
la baruffa nel mondo dello spettacolo o le questioni dell’occupazione si
vedono attribuito lo stesso valore proprio dalla presenza degli stessi
attori,
Da qui nasce la seconda domanda.
L’agenda politica è stata sequestrata,
o almeno distorta, dal sistema dei talk-show. Così la richiesta
di parlare solo del referendum non riflette soltanto l’importanza del tema
e dell’occasione, ma anche un tentativo della politica di avere voce nella
fissazione di questa agenda pubblica parallela (e talvolta soverchiante),
nella definizione delle priorità. . .
Finora questa voce non si e manifestata.
Nella campagna elettorale dell’Unione la questione referendaria non ha
trovato un posto significativo (eufemismo), pur trattandosi della materia
maggiormente espressiva della distanza profonda tra i due schieramenti,
della logica sostanzialmente eversiva dell’ordine costituzionale che ha
accompagnato l’intero operare di Governo e maggioranza nella passata legislatura.
Si dirà che non v’è stata
nessuna sottovalutazione, ma soltanto un rinvio legato alla separazione
temporale tra voto elettorale e voto referendario. E questo è stato
un errore, non tanto perché non si è utilizzato un argomento
politicamente forte, ma soprattutto perché, scorporato dal contesto
politico generale, il tema referendario rischia di essere percepito come
questione tecnica, per molti versi difficile da comprendere.
Ora la forza dirompente del referendum
costituzionale è, o dovrebbe essere, davanti agli occhi di tutti.
Berlusconi ha dichiarato di volerne fare una occasione di rivincita. E
quale rivincita sarebbe! Lo sconfitto catturerebbe il vincitore, obbligato
in futuro ad obbedire alle regole fissate dall’altro. La strategia referendaria
dovrebbe essere lineare, e invece rischia di complicarsi. Si dice: non
al muro contro muro, trasferendo impropriamente sul voto di giugno le preoccupazioni
sulla “spaccatura” del paese. Ma il referendum ha nella sua natura l’alternativa
secca, è il regno del “sì o no”, e l’esperienza mostra che
i referendum sono stati vinti solo quando ci si è presentati con
assoluta chiarezza. E poi: per evitare il muro contro muro bisogna essere
in due, e non sembra che l’attuale opposizione sia percorsa da questi spiriti,
tanto che ha richiamato all’ordine i riottosi, ottenendo dichiarazioni
di fedeltà assoluta anche da chi, come l’Udc, aveva in passato dichiarato
che si trattava di materia da affidare alla libertà di voto. Se
vi fosse da parte dell’Unione un sia pur lieve disarmo unilaterale, gli
elettori non capirebbero e si regalerebbe un vantaggio non piccolo ai sostenitori
della sciagurata riforma, In realtà, il ricorso all’argomento del
muro contro muro è anteriore all’esito elettorale e svela un obiettivo
politico consistente nel tentativo di definire fin d’ora quella che dovrebbe
essere una possibile politica costituzionale per il dopo referendum. Su
questo bisogna essere chiari. Solo dicendo che quella riforma è
pessima, ed eliminandola, sarà possibile riprendere seriamente la
discussione sulla Costituzione, senza ipoteche preventive. Solo abbandonando
le velleità dell’ingegneria costituzionale, che hanno già
fatto troppi danni, si potrà avviare una equilibrata “manutenzione”
di una Costituzione che rima ne buona, che richiede interventi solo su
pochi e precisi punti, che dev’essere salvaguardata nella sua prima parte
dedicata alle libertà e ai diritti. Solo recuperando nel suo significato
profondo la cultura costituzionale è possibile vincere la prova
referendaria ed avviare una stagione affidata ad un costituzionalismo maturo.
L’appannamento della cultura costituzionale
è grave, evidente, ha molte cause. Molti segnali recenti lo confermano.
Nel tentativo di superare il muro contro muro, durante l’elezione del Presidente
della Repubblica, si è offerto all’opposizione un negoziato su regole
e principi costituzionali che non sono disponibili per nessuna trattativa
politica.
Assistiamo in questi giorni all’aggressione
ai senatori avita, doppiamente avvilente: perché vuole ridurli a
figure puramente decorative, incapaci d’intendere e di volere nell’esercizio
pieno della loro funzione istituzionale; perché ha determinato una
spinta ad attrarre un alto ruolo istituzionale nella perversa e logica
della spartizione. Non è la prima volta che ciò avviene.
Mai, però, in modo così conclamato, e spudorato. Si è
chiesto ad alta voce un “riequilibrio”. In sostanza, il Presidente della
Repubblica dovrebbe nominare un senatore a vita doc, a denominazione di
origine controllata di destra, che garantisca così preventivamente
il modo in cui voterà.
Sarebbe anche questa una delle condizioni
per superare il muro contro muro?
O questo modo d’intendere le istituzioni
non è pure la conseguenza del modo approssimativo e frettoloso con
cui si è corsi verso il bipolarismo, che ci ha regalato anni terribili
e sul quale pare che nessuno sia disposto a riflettere?
Ma le questioni costituzionali non sono
affare del solo ceto politico. Oggi sono in campo i cittadini, che decideranno
con il loro voto il futuro costituzionale dell’Italia. E questo momento
ha una forza politica dirompente, perché il modo in cui si ridisegnano
la forma di Stato e di governo è destinato ad incidere profondamente
sugli stessi valori fondativi del patto costituzionale. E’ un momento nel
quale non può essere assente o flebile la voce degli studiosi di
diritto costituzionale, se essi non intendono la loro funzione culturale
soltanto come l’accompagnamento più o meno rassegnato di quel che
fa una politica sempre più autoreferenziale, sempre più prigioniera
di un uso puramente congiunturale delle istituzioni.
Si indichi pure, se si vuole, qualche
intervento specifico da attuare se si riuscirà a cancellare l’attuale
testo (a cominciare dalle indispensabili modifiche alla cattiva riforma
del titolo V della Costituzione a suo tempo approvata dal centrosinistra).
Ma il punto forte della campagna elettorale deve essere appunto un richiamo
esplicito ai valori fondativi della Costituzione, al collegamento tra questi
e i valori espressi nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
allargando così l’orizzonte culturale e politico e rendendo esplicita
l’ispirazione ideale che deve guidare il nuovo governo.
Questa è la via per costruire quel
consenso popolare che nessuna argomentazione puramente tecnica può
far nascere. E si avvierebbe pure quella rigenerazione della politica che
non può essere affidata soltanto alle alchimie ed agli annusamenti
tra partiti.
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