Angelo Panebianco ha indicato la strada:
votare sì al referendum per non interrompere il cammino delle riforme.
I leader della Cdl, e con loro Umberto Bossi, hanno accolto il suggerimento,
e hanno abbandonato l’idea di trasformare il 25 giugno nel giorno della
possibile spallata al governo. Ora è Giulio Tremonti, che in questo
percorso ha avuto un ruolo cruciale, a compiere un passo decisivo. Partendo
dalla convinzione che «sul fronte del referendum si confrontano due
schieramenti, ma paradossalmente ciò che unisce è più
di ciò che divide», il vicepresidente di Forza Italia propone
una prospettiva diversa alla contrapposizione tra sì e no su un
referendum che potrebbe ulteriormente dividere le forze politiche e bloccare
il cammino delle riforme: una «mozione parlamentare aperta»
a tutti i partiti in cui, prima del voto, si indicano «i punti da
cambiare» della riforma istituzionale e si scelgono gli strumenti
per farlo. In alternativa, un giorno di «libero e pubblico dibattito
tra persone di buona volontà». L’obiettivo «ideale»?
Svelenire il clima, «pacificare» il Paese e aprire una nuova
stagione di dialogo. Non «sull’attività di governo: faremo
opposizione dura e pura», ma sulla Costituzione .
Onorevole Tremonti, ma esistono punti
di incontro tra i sostenitori del sì e quelli del no?
«Guardiamo i due fronti e dentro
i due fronti. Ci sono un fronte migliorista e uno nichilista. Un fronte
che vuole migliorare la Costituzione insieme modernizzandola e correggendo
errori anche recenti, e uno che la vuole conservare tale e quale come se
fosse uno "statuto" tramandato da un passato intoccabile. Il fronte migliorista
è più ampio del fronte nichilista. Passa attraverso le due
coalizioni ed una vasta area di cultura politica. Va dal centrodestra al
centrosinistra, e nel centrosinistra da Amato a Villone, da Bassanini a
Barbera a Segni. Include pensatori indipendenti da Panebianco a Ceccanti,
e tanti altri. Il fronte nichilista si radica essenzialmente nell’area
del centrosinistra, e qui concentra legittime istanze del fondamentalismo
con la continuazione con altri mezzi della campagna elettorale».
Però i due poli sembrano compatti
al proprio interno e divisi tra loro.
«Perché oggi il fronte migliorista
è unito sul merito ma ancora diviso sul metodo. Concorda sulle cose
da fare, ma si distingue sul come farle. La prima ipotesi è quella
del doppio sì: sì al referendum, ma anche sì a modifiche
da concordare sul testo. La sequenza temporale della riforma che va dal
2006 al 2016 (circa) consente un percorso di emendamenti concordati. La
seconda ipotesi è quella del no-sì: prima un no al referendum,
e poi un sì alla riforma. Più che una contraddizione, è
una illusione».
Perché?
«Dopo il no, l’unica forza in campo
sarà la forza di inerzia. Il titolo V - la devolution di sinistra
- resterà in campo e continuerà a produrre i suoi effetti
negativi. Le reti internazionali e nazionali - dalle infrastrutture all’energia
- resteranno di competenza concorrente regionale. Il made in Italy resterà
regionale. Contraddizioni paralizzanti. Non ci sarà separatismo
interno all’Italia, ma separatismo dell’Italia dall’Europa. Non ci saranno
più ricchi o più poveri, ma saremo tutti più poveri
dentro una gabbia che ci siamo fatti con le nostre mani e che ci spiazza
nella competizione mondiale. E’ per queste ragioni insieme di fattibilità
politica e di convenienza economica che non credo al riformismo del no.
Ora o mai più. L’occasione è unica. Se si riparte da zero
si ottiene zero. I tentativi di riforma sono falliti per decenni. Il no
chiude su tutto, il sì apre al meglio».
Ma quali sarebbero i punti di convergenza?
«La riforma si concentra essenzialmente
sulla forma di governo e sulla forma di Stato. Forma di governo: un governo
più efficiente. Il rischio paventato è quello di un eccesso
di potere. Un premier padrone insieme del governo e del Parlamento. Non
è così. Cito alcuni passaggi di un testo: Amato, Princìpi
e proposte per la riforma della Costituzione, coordinamento dei segretari
dei partiti del centrosinistra, 10 dicembre 2003: "E’ giusto che non siano
legittimati i cosiddetti ribaltoni... Pubblicazione del programma elettorale...
Nome del candidato sulla scheda elettorale... Potere di nomina e revoca
dei ministri... Responsabilità dell’intera compagine di governo...
In caso di sfiducia, e su sua proposta, vi sarà lo scioglimento
del Parlamento, a meno di una mozione costruttiva autosufficiente votata
dalla maggioranza iniziale". Mi pare un testo non diverso da quello di
riforma. E se ci sono differenze sono superabili in base ad un consenso
comune».
Sul federalismo però è
scontro duro.
«Il titolo V, la devolution del
centrosinistra, ha irreversibilmente introdotto in Costituzione il federalismo.
Un federalismo che va completato con il Senato federale, le cui composizione
e funzione possono essere migliorate rispetto alla riforma. Ha devoluto
alle Regioni un catalogo sbilenco di competenze. Insieme troppe e troppo
poche. E soprattutto ha cancellato l’interesse nazionale e la clausola
di garanzia della sua prevalenza, creando un sistema sulla cui inefficienza,
e dunque sulla cui necessaria modifica, c’è il più ampio
consenso. Ma soprattutto non si guarda l’essenziale: il federalismo o è
fiscale o non è, o passa attraverso il bilancio dello Stato o non
è».
Sta dicendo che il federalismo fiscale
è il punto di incontro?
«Sull’articolo 119 della Costituzione,
su di un federalismo fiscale equo e solidale come quello votato e voluto
dal centrosinistra, tutti concordano. Anche il centrodestra. La riforma
non tocca questo articolo perché lo riconosce come giusto. Sono
dunque prive di fondamento le ipotesi-spauracchio di divisione o di egoismo
regionale, di divisione sociale. La piena attuazione di un federalismo
fiscale equo e solidale dovrà e potrà essere campo di lavoro
comune. Ma c’è una cosa ancora più importante».
Quale?
«E’ la difesa della prima parte
della Costituzione contro le ipotesi che stanno venendo fuori di migliorarla
in senso "mercatista". L’ipotesi della solidarietà sociale fatta
via mercato. Il mercato come matrice di giustizia sociale. E’ su questo
che si dovrà riflettere: gli interessi pesano più dei valori?
Se c’è un rischio, è quello di conservare invariata la seconda
parte della Costituzione, quella perfettibile, ed invece di consentire
l’erosione inconsulta della prima parte - quella immodificabile».
Ma come si riprende il confronto sulle
riforme?
«Dopo il sì, il lavoro comune
al servizio del Paese e finalmente in uno spirito di pacificazione e di
legittimazione reciproca potrà prendere molte forme. Potrà
prendere la forma della "Convenzione" di Barbera, o potrà essere
interno al Parlamento. Ci sarà ampio spazio per la buona volontà».
Ma quale garanzia potete offrire che,
dopo l’eventuale vittoria del sì, la vostra disponibilità
resterà e non partirete all’attacco di un governo «delegittimato»?
«E’ fondamentale la chiarezza. Il
referendum è evangelico nella sua formulazione - o sì o no
- ma non chiaro nel suo campo di applicazione. Vastissimo. Non solo per
la politica, ma anche per il Paese, è necessaria la chiarezza su
cosa si vota e cosa succede con il voto. In un mondo ideale, l’ipotesi
potrebbe essere quella di una mozione parlamentare aperta, che identifica
i punti comuni, di merito e di metodo, su cosa si concorda, su cosa si
può cambiare e su come farlo. In alternativa, sarebbe possibile
almeno una pre-Convenzione, libero luogo di dibattito pubblico, tra persone
di buone volontà».
Ma una iniziativa che stabilisce cosa
si farà, indipendentemente dal voto, non depotenzia e svuota il
referendum?
«In effetti un referendum negativo
e senza quorum, che già di per sé è destinato ad avere
un quorum molto basso, con la concentrazione dell’interesse più
sui Mondiali di calcio che sulla Costituzione, comunque vada sarebbe un
referendum a bassa intensità di legittimazione. La partita del no-no
è una partita nella quale non vince una parte, ma perde il Paese».
Se si arrivasse all’ipotesi che lei
prospetta, come cambierebbero i rapporti tra maggioranza e opposizione?
«Se si identifica un campo di lavoro
comune, si porta molto al fattore comune. Si separa la politica costituzionale
dalla politica di governo, si riducono i fattori di contrasto. L’opposizione
si farebbe contro il governo, e non contro il Paese».
Prodi si troverebbe in una situazione
simile a quella di dieci anni fa, quando l’obiettivo economico era il risanamento
per entrare nell’euro e i poli si confrontavano nella Bicamerale. Ma la
Bicamerale fallì e il governo cadde...
«La situazione è diversa.
Alla spinta positiva per l’euro in effetti si sta sostituendo qualcosa
di molto diverso, non propulsivo ma compulsivo, il vincolo esterno imposto
dai mercati. Passando dall’economia (che fa comunque politica) alla politica
pura, io ho vissuto lo spirito della Bicamerale, straordinario nella sua
fase iniziale, quella che andava da Massimo D’Alema a Silvio Berlusconi
a Umberto Bossi. La storia non si ripete, ma la storia non si ferma, continua».
Paola Di Caro
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