Riforme Istituzionali
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Corriere della sera 03-06-2006
 
Sono per dare un doppio consenso: dopo quello al quesito, l'altro è sulle modifiche da concordare altrimenti vince la forza d'inerzia
 
Tremonti: «Riforme, un patto per cambiarle insieme»
 
Presentiamola prima del sì al referendum. Poi via libera anche a una Convenzione

Angelo Panebianco ha indicato la strada: votare sì al referendum per non interrompere il cammino delle riforme. I leader della Cdl, e con loro Umberto Bossi, hanno accolto il suggerimento, e hanno abbandonato l’idea di trasformare il 25 giugno nel giorno della possibile spallata al governo. Ora è Giulio Tremonti, che in questo percorso ha avuto un ruolo cruciale, a compiere un passo decisivo. Partendo dalla convinzione che «sul fronte del referendum si confrontano due schieramenti, ma paradossalmente ciò che unisce è più di ciò che divide», il vicepresidente di Forza Italia propone una prospettiva diversa alla contrapposizione tra sì e no su un referendum che potrebbe ulteriormente dividere le forze politiche e bloccare il cammino delle riforme: una «mozione parlamentare aperta» a tutti i partiti in cui, prima del voto, si indicano «i punti da cambiare» della riforma istituzionale e si scelgono gli strumenti per farlo. In alternativa, un giorno di «libero e pubblico dibattito tra persone di buona volontà». L’obiettivo «ideale»? Svelenire il clima, «pacificare» il Paese e aprire una nuova stagione di dialogo. Non «sull’attività di governo: faremo opposizione dura e pura», ma sulla Costituzione .
 
Onorevole Tremonti, ma esistono punti di incontro tra i sostenitori del sì e quelli del no?
«Guardiamo i due fronti e dentro i due fronti. Ci sono un fronte migliorista e uno nichilista. Un fronte che vuole migliorare la Costituzione insieme modernizzandola e correggendo errori anche recenti, e uno che la vuole conservare tale e quale come se fosse uno "statuto" tramandato da un passato intoccabile. Il fronte migliorista è più ampio del fronte nichilista. Passa attraverso le due coalizioni ed una vasta area di cultura politica. Va dal centrodestra al centrosinistra, e nel centrosinistra da Amato a Villone, da Bassanini a Barbera a Segni. Include pensatori indipendenti da Panebianco a Ceccanti, e tanti altri. Il fronte nichilista si radica essenzialmente nell’area del centrosinistra, e qui concentra legittime istanze del fondamentalismo con la continuazione con altri mezzi della campagna elettorale».
 
Però i due poli sembrano compatti al proprio interno e divisi tra loro.
«Perché oggi il fronte migliorista è unito sul merito ma ancora diviso sul metodo. Concorda sulle cose da fare, ma si distingue sul come farle. La prima ipotesi è quella del doppio sì: sì al referendum, ma anche sì a modifiche da concordare sul testo. La sequenza temporale della riforma che va dal 2006 al 2016 (circa) consente un percorso di emendamenti concordati. La seconda ipotesi è quella del no-sì: prima un no al referendum, e poi un sì alla riforma. Più che una contraddizione, è una illusione».
 
Perché?
«Dopo il no, l’unica forza in campo sarà la forza di inerzia. Il titolo V - la devolution di sinistra - resterà in campo e continuerà a produrre i suoi effetti negativi. Le reti internazionali e nazionali - dalle infrastrutture all’energia - resteranno di competenza concorrente regionale. Il made in Italy resterà regionale. Contraddizioni paralizzanti. Non ci sarà separatismo interno all’Italia, ma separatismo dell’Italia dall’Europa. Non ci saranno più ricchi o più poveri, ma saremo tutti più poveri dentro una gabbia che ci siamo fatti con le nostre mani e che ci spiazza nella competizione mondiale. E’ per queste ragioni insieme di fattibilità politica e di convenienza economica che non credo al riformismo del no. Ora o mai più. L’occasione è unica. Se si riparte da zero si ottiene zero. I tentativi di riforma sono falliti per decenni. Il no chiude su tutto, il sì apre al meglio».
 
Ma quali sarebbero i punti di convergenza?
«La riforma si concentra essenzialmente sulla forma di governo e sulla forma di Stato. Forma di governo: un governo più efficiente. Il rischio paventato è quello di un eccesso di potere. Un premier padrone insieme del governo e del Parlamento. Non è così. Cito alcuni passaggi di un testo: Amato, Princìpi e proposte per la riforma della Costituzione, coordinamento dei segretari dei partiti del centrosinistra, 10 dicembre 2003: "E’ giusto che non siano legittimati i cosiddetti ribaltoni... Pubblicazione del programma elettorale... Nome del candidato sulla scheda elettorale... Potere di nomina e revoca dei ministri... Responsabilità dell’intera compagine di governo... In caso di sfiducia, e su sua proposta, vi sarà lo scioglimento del Parlamento, a meno di una mozione costruttiva autosufficiente votata dalla maggioranza iniziale". Mi pare un testo non diverso da quello di riforma. E se ci sono differenze sono superabili in base ad un consenso comune».
 
Sul federalismo però è scontro duro.
«Il titolo V, la devolution del centrosinistra, ha irreversibilmente introdotto in Costituzione il federalismo. Un federalismo che va completato con il Senato federale, le cui composizione e funzione possono essere migliorate rispetto alla riforma. Ha devoluto alle Regioni un catalogo sbilenco di competenze. Insieme troppe e troppo poche. E soprattutto ha cancellato l’interesse nazionale e la clausola di garanzia della sua prevalenza, creando un sistema sulla cui inefficienza, e dunque sulla cui necessaria modifica, c’è il più ampio consenso. Ma soprattutto non si guarda l’essenziale: il federalismo o è fiscale o non è, o passa attraverso il bilancio dello Stato o non è».
 
Sta dicendo che il federalismo fiscale è il punto di incontro?
«Sull’articolo 119 della Costituzione, su di un federalismo fiscale equo e solidale come quello votato e voluto dal centrosinistra, tutti concordano. Anche il centrodestra. La riforma non tocca questo articolo perché lo riconosce come giusto. Sono dunque prive di fondamento le ipotesi-spauracchio di divisione o di egoismo regionale, di divisione sociale. La piena attuazione di un federalismo fiscale equo e solidale dovrà e potrà essere campo di lavoro comune. Ma c’è una cosa ancora più importante».
 
Quale?
«E’ la difesa della prima parte della Costituzione contro le ipotesi che stanno venendo fuori di migliorarla in senso "mercatista". L’ipotesi della solidarietà sociale fatta via mercato. Il mercato come matrice di giustizia sociale. E’ su questo che si dovrà riflettere: gli interessi pesano più dei valori? Se c’è un rischio, è quello di conservare invariata la seconda parte della Costituzione, quella perfettibile, ed invece di consentire l’erosione inconsulta della prima parte - quella immodificabile».
 
Ma come si riprende il confronto sulle riforme?
«Dopo il sì, il lavoro comune al servizio del Paese e finalmente in uno spirito di pacificazione e di legittimazione reciproca potrà prendere molte forme. Potrà prendere la forma della "Convenzione" di Barbera, o potrà essere interno al Parlamento. Ci sarà ampio spazio per la buona volontà».
 
Ma quale garanzia potete offrire che, dopo l’eventuale vittoria del sì, la vostra disponibilità resterà e non partirete all’attacco di un governo «delegittimato»?
«E’ fondamentale la chiarezza. Il referendum è evangelico nella sua formulazione - o sì o no - ma non chiaro nel suo campo di applicazione. Vastissimo. Non solo per la politica, ma anche per il Paese, è necessaria la chiarezza su cosa si vota e cosa succede con il voto. In un mondo ideale, l’ipotesi potrebbe essere quella di una mozione parlamentare aperta, che identifica i punti comuni, di merito e di metodo, su cosa si concorda, su cosa si può cambiare e su come farlo. In alternativa, sarebbe possibile almeno una pre-Convenzione, libero luogo di dibattito pubblico, tra persone di buone volontà».
 
Ma una iniziativa che stabilisce cosa si farà, indipendentemente dal voto, non depotenzia e svuota il referendum?
«In effetti un referendum negativo e senza quorum, che già di per sé è destinato ad avere un quorum molto basso, con la concentrazione dell’interesse più sui Mondiali di calcio che sulla Costituzione, comunque vada sarebbe un referendum a bassa intensità di legittimazione. La partita del no-no è una partita nella quale non vince una parte, ma perde il Paese».
 
Se si arrivasse all’ipotesi che lei prospetta, come cambierebbero i rapporti tra maggioranza e opposizione?
«Se si identifica un campo di lavoro comune, si porta molto al fattore comune. Si separa la politica costituzionale dalla politica di governo, si riducono i fattori di contrasto. L’opposizione si farebbe contro il governo, e non contro il Paese».
 
Prodi si troverebbe in una situazione simile a quella di dieci anni fa, quando l’obiettivo economico era il risanamento per entrare nell’euro e i poli si confrontavano nella Bicamerale. Ma la Bicamerale fallì e il governo cadde...
«La situazione è diversa. Alla spinta positiva per l’euro in effetti si sta sostituendo qualcosa di molto diverso, non propulsivo ma compulsivo, il vincolo esterno imposto dai mercati. Passando dall’economia (che fa comunque politica) alla politica pura, io ho vissuto lo spirito della Bicamerale, straordinario nella sua fase iniziale, quella che andava da Massimo D’Alema a Silvio Berlusconi a Umberto Bossi. La storia non si ripete, ma la storia non si ferma, continua».
 
Paola Di Caro


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