Riforme Istituzionali
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Corriere della sera 04-06-2006
 
Referendum - Fassino a Tremonti: prima si voti poi dialogo sul federalismo fiscale
 
Aldo Cazzullo
 
Segretario Fassino, l’ex ministro Tremonti propone un patto tra i Poli per migliorare la riforma costituzionale prima del referendum. Lei che cosa risponde?
«Apprezzo il tono di Tremonti, e anche l’intenzione. Ma mi pare che la soluzione indicata sia contraddittoria. Trovo significativo che Tremonti riconosca che la revisione costituzionale proposta agli elettori dalla destra sia da modificare: questo indica che pure loro sono consapevoli che la riforma elaborata da Calderoli e altri è un brutto pasticcio, che non garantisce né il federalismo vero né più efficienza a chi governa. Per questo non si può chiedere ai cittadini: approvatela così com’è, poi noi la cambiamo».
Quindi la sua risposta a Tremonti è no?
«Non è proprio così. Innanzitutto apprezzo la disponibilità a discutere, che il centrodestra manifesta per la prima volta: in passato ha proceduto a colpi di maggioranza e di voti di fiducia. Io non mi limito a dire di no; anzi, rilancio. Prima liberiamo il tavolo, togliendo di mezzo con il referendum questo pasticcio. Poi però sediamoci a discutere per una buona e vera riforma costituzionale. Il nostro no al referendum non è un no conservatore. Abbiamo appena celebrato i sessant’anni della Costituente, siamo consapevoli che è passato molto tempo, che la seconda parte della Carta, quella ordinamentale, può essere cambiata. Del resto gli stessi padri costituenti hanno previsto all’articolo 138 questa possibilità. E in questi sessant’anni la Costituzione è già stata modificata più volte, da ultimo dal centrosinistra, con il titolo V».
Ma perché non cominciare la discussione subito, come propone Tremonti?
«Perché il referendum è uno strumento che chiede ai cittadini di pronunciarsi e di decidere. Se gli si chiede di approvare la riforma, non si può dire che il giorno dopo la si cambia. La riforma va prima azzerata e poi riscritta, insieme, maggioranza e opposizione».
La riforma del titolo V l’avete fatta da soli.
«Sì, ma sulla base di un testo che nella Bicamerale era stato approvato da tutti, e in più con il consenso dei presidenti di Regione, compresi quelli della destra. E poi con il Titolo V si sono modificati cinque articoli della Costituzione; oggi il centrodestra propone di cambiarne cinquanta, un terzo dell’intera Carta, sulla base di una proposta approvata in Parlamento dalla sola maggioranza di governo. C’è una bella differenza. Siamo talmente convinti che le regole fondamentali vadano scritte con un’ampia maggioranza, che abbiamo proposto di modificare l’articolo 138, in modo da legare qualsiasi riforma a maggioranze qualificate. Così si evita che chi vince le elezioni possa farsi ogni volta la propria riforma».
Non c’è qualcosa che salverebbe nella riforma della Cdl? Qualcosa che potrebbe essere indicato prima del referendum?
«Non è questo il punto. Ogni legge contiene almeno una norma condivisibile. È l’impianto complessivo che va rivisto: non a caso non si trova un solo costituzionalista disposto a difenderlo. La Costituzione non è un vestito di Arlecchino, da cui togliere una pezza che non piace per sostituirla con un’altra. La riprova è nell’atteggiamento di Tremonti, e dello stesso Bossi: nel momento in cui si dicono aperti a cambiamenti, riconoscono che l’impianto non funziona. È un impasto indigeribile tra separatismo e neocentralismo, che non soddisfa il Nord, visto che la devolution è un falso federalismo, e inquieta il Sud».
Perché un falso federalismo?
«Perché da una parte c’è un rigurgito statalista: non c’è il Senato federale; non c’è una sola parola sul federalismo fiscale; non poche competenze vengono addirittura ricentralizzate in capo allo Stato».
Ma altre competenze vengono delegate.
«Appunto: dall’altra parte, la riforma della destra rappresenta una rottura dell’eguaglianza dei diritti tra i cittadini. Oggi noi abbiamo un sistema sanitario nazionale, le cui competenze sono delegate alle Regioni. Domani avremmo venti sistemi sanitari regionali, e gli italiani non avranno più la garanzia di avere le stesse prestazioni e le stesse cure. Oggi abbiamo un sistema scolastico nazionale, la cui gestione è in parte affidata alle Regioni. Domani avremmo venti sistemi scolastici diversi, che impedendo una formazione omogenea mal si adattano a un mercato del lavoro mobile e flessibile. In questo modo si mina la coesione sociale. Si spacca il Paese. Tanto più che il presidente della Repubblica è ridotto a poco più di un notaio delle decisioni del governo».
Se al tavolo delle riforme il centrosinistra terrà questa linea, il dialogo non farà molta strada.
«Non è detto. Cinque anni dopo la modifica del Titolo V, è possibile verificare insieme quali aspetti del federalismo in Italia funzionano e quali no. Ci sono settori in cui è bene che lo Stato abbia un ruolo. La politica turistica di un Paese come l’Italia non può essere la somma di venti politiche regionali; deve avere una programmazione e una guida comune. Anche per promuovere il made in Italy sui mercati esteri è utile una regia nazionale. Lo stesso vale per il dossier esplosivo dell’energia. Né ogni Regione può avere il proprio sistema elettorale: si decentrano le politiche, non le regole. Su altri punti si può imboccare la direzione opposta: dallo Stato verso le Regioni».
Quali punti? Dica il più importante.
«Il federalismo fiscale. Proporremo di rafforzare l'autogoverno delle risorse fiscali da parte delle Regioni, sia nel reperimento delle risorse, sia nella spesa; ovviamente con meccanismi di perequazione, che non allarghino la forbice tra regioni più e meno ricche. Credo anche possibili intese su come ridefinire il funzionamento del bicameralismo, e un più efficiente ed equilibrato rapporto tra governo e Parlamento. Insomma, noi siamo pronti a discutere, ma per farlo bisogna togliere di mezzo con il no la riforma attuale».
Il dialogo deve riguardare anche le questioni etiche? La prima uscita del ministro per la Ricerca Mussi ha aperto polemiche anche all’interno della maggioranza.
«Sgomberiamo il campo da un equivoco. Mussi non ha cambiato la normativa italiana. Più semplicemente, con una decisione di buon senso ha rimosso il veto italiano che impediva agli altri Paesi europei di condurre la ricerca sulle staminali. Sarebbe aberrante che l’Italia si arrogasse il diritto di decidere anche per altri Stati sovrani. Ciò premesso, le questioni etiche richiedono una sensibilità particolare. Viviamo in un’epoca in cui la vita e la morte non sono più affidate solo agli eventi della natura e del destino. Grazie alla scienza, alla ricerca, alla tecnologia, sulla vita e sulla morte ora l'uomo può incidere. Ciò rappresenta un enorme possibilità, per prolungare la vita, alleviare le sofferenze, cancellare malattie endemiche. Ma pone una questione etica, religiosa, culturale».
Nella politica italiana e in particolare all’interno dell’Unione è emersa la questione della laicità.
«Laicità per me significa affrontare temi così importanti con spirito aperto, di ricerca, di dialogo. Respingendo visioni integraliste, veti ideologici. Cercando una sintesi tra la libertà di scelta di ogni persona e la responsabilità che ogni persona ha nei confronti della società».
La legge sulla fecondazione assistita va cambiata?
«La legge va rivisitata. È vero che c’è stato un referendum. Ma, a parte il fatto che non essendo stato raggiunto il quorum non è stato possibile conoscere l’effettiva volontà della maggioranza degli italiani, in ogni caso il referendum non ha risolto tutti gli interrogativi e i dubbi che la legge pone. Confrontiamoci con spirito libero tra maggioranza e opposizione, per vedere come migliorarla. Resto convinto che sulle questioni etiche sia meglio non creare spaccature e divisioni, che si debba ricercare il consenso più vasto possibile».
Senza spaccature e divisioni oggi non avremmo divorzio e aborto.
«Confrontarsi, dialogare, cercare larghe intese rappresenta una sollecitazione a trovare soluzioni, non un alibi per non decidere».
Ma la spaccatura oggi è innanzitutto interna alla maggioranza, e riguarda anche le due componenti che dovrebbero unirsi nel partito democratico.
«Siccome l’Ulivo è il nucleo fondativo del partito democratico, propongo di istituire subito, fin dai prossimi giorni, un gruppo di lavoro dell’Ulivo sulle questioni bioetiche. Un tavolo in cui ognuno porti le proprie esperienze, culture, competenze: scientifiche, etiche, filosofiche, religiose. Mi sembra il metodo migliore di trovare una sintesi, più dei manifesti contrapposti».
Non le è piaciuto il manifesto dei cattolici della Margherita?
«Se servono a piantare una bandiera, i manifesti sono inutili e possono anche essere dannosi. Hanno invece una grande utilità se rappresentano un contributo e una sollecitazione a discutere. Raccolgo l’invito: confrontiamo le nostre diverse sensibilità, troviamo una sintesi, e portiamola al confronto parlamentare con l’opposizione».

Indice "Rassegna Stampa e Opinioni" - 2006
 
Speciale "Referendum costituzionale" 2006
 
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