Referendum - Fassino a Tremonti: prima
si voti poi dialogo sul federalismo fiscale
Aldo Cazzullo
Segretario Fassino, l’ex ministro Tremonti
propone un patto tra i Poli per migliorare la riforma costituzionale prima
del referendum. Lei che cosa risponde? «Apprezzo il tono di Tremonti, e
anche l’intenzione. Ma mi pare che la soluzione indicata sia contraddittoria.
Trovo significativo che Tremonti riconosca che la revisione costituzionale
proposta agli elettori dalla destra sia da modificare: questo indica che
pure loro sono consapevoli che la riforma elaborata da Calderoli e altri
è un brutto pasticcio, che non garantisce né il federalismo
vero né più efficienza a chi governa. Per questo non si può
chiedere ai cittadini: approvatela così com’è, poi noi la
cambiamo».
Quindi la sua risposta a Tremonti è
no? «Non è proprio così.
Innanzitutto apprezzo la disponibilità a discutere, che il centrodestra
manifesta per la prima volta: in passato ha proceduto a colpi di maggioranza
e di voti di fiducia. Io non mi limito a dire di no; anzi, rilancio. Prima
liberiamo il tavolo, togliendo di mezzo con il referendum questo pasticcio.
Poi però sediamoci a discutere per una buona e vera riforma costituzionale.
Il nostro no al referendum non è un no conservatore. Abbiamo appena
celebrato i sessant’anni della Costituente, siamo consapevoli che è
passato molto tempo, che la seconda parte della Carta, quella ordinamentale,
può essere cambiata. Del resto gli stessi padri costituenti hanno
previsto all’articolo 138 questa possibilità. E in questi sessant’anni
la Costituzione è già stata modificata più volte,
da ultimo dal centrosinistra, con il titolo V».
Ma perché non cominciare la
discussione subito, come propone Tremonti? «Perché il referendum è
uno strumento che chiede ai cittadini di pronunciarsi e di decidere. Se
gli si chiede di approvare la riforma, non si può dire che il giorno
dopo la si cambia. La riforma va prima azzerata e poi riscritta, insieme,
maggioranza e opposizione».
La riforma del titolo V l’avete fatta
da soli. «Sì, ma sulla base di un
testo che nella Bicamerale era stato approvato da tutti, e in più
con il consenso dei presidenti di Regione, compresi quelli della destra.
E poi con il Titolo V si sono modificati cinque articoli della Costituzione;
oggi il centrodestra propone di cambiarne cinquanta, un terzo dell’intera
Carta, sulla base di una proposta approvata in Parlamento dalla sola maggioranza
di governo. C’è una bella differenza. Siamo talmente convinti che
le regole fondamentali vadano scritte con un’ampia maggioranza, che abbiamo
proposto di modificare l’articolo 138, in modo da legare qualsiasi riforma
a maggioranze qualificate. Così si evita che chi vince le elezioni
possa farsi ogni volta la propria riforma».
Non c’è qualcosa che salverebbe
nella riforma della Cdl? Qualcosa che potrebbe essere indicato prima del
referendum? «Non è questo il punto. Ogni
legge contiene almeno una norma condivisibile. È l’impianto complessivo
che va rivisto: non a caso non si trova un solo costituzionalista disposto
a difenderlo. La Costituzione non è un vestito di Arlecchino, da
cui togliere una pezza che non piace per sostituirla con un’altra. La riprova
è nell’atteggiamento di Tremonti, e dello stesso Bossi: nel momento
in cui si dicono aperti a cambiamenti, riconoscono che l’impianto non funziona.
È un impasto indigeribile tra separatismo e neocentralismo, che
non soddisfa il Nord, visto che la devolution è un falso federalismo,
e inquieta il Sud».
Perché un falso federalismo? «Perché da una parte c’è
un rigurgito statalista: non c’è il Senato federale; non c’è
una sola parola sul federalismo fiscale; non poche competenze vengono addirittura
ricentralizzate in capo allo Stato».
Ma altre competenze vengono delegate. «Appunto: dall’altra parte, la riforma
della destra rappresenta una rottura dell’eguaglianza dei diritti tra i
cittadini. Oggi noi abbiamo un sistema sanitario nazionale, le cui competenze
sono delegate alle Regioni. Domani avremmo venti sistemi sanitari regionali,
e gli italiani non avranno più la garanzia di avere le stesse prestazioni
e le stesse cure. Oggi abbiamo un sistema scolastico nazionale, la cui
gestione è in parte affidata alle Regioni. Domani avremmo venti
sistemi scolastici diversi, che impedendo una formazione omogenea mal si
adattano a un mercato del lavoro mobile e flessibile. In questo modo si
mina la coesione sociale. Si spacca il Paese. Tanto più che il presidente
della Repubblica è ridotto a poco più di un notaio delle
decisioni del governo».
Se al tavolo delle riforme il centrosinistra
terrà questa linea, il dialogo non farà molta strada. «Non è detto. Cinque anni
dopo la modifica del Titolo V, è possibile verificare insieme quali
aspetti del federalismo in Italia funzionano e quali no. Ci sono settori
in cui è bene che lo Stato abbia un ruolo. La politica turistica
di un Paese come l’Italia non può essere la somma di venti politiche
regionali; deve avere una programmazione e una guida comune. Anche per
promuovere il made in Italy sui mercati esteri è utile una regia
nazionale. Lo stesso vale per il dossier esplosivo dell’energia. Né
ogni Regione può avere il proprio sistema elettorale: si decentrano
le politiche, non le regole. Su altri punti si può imboccare la
direzione opposta: dallo Stato verso le Regioni».
Quali punti? Dica il più importante. «Il federalismo fiscale. Proporremo
di rafforzare l'autogoverno delle risorse fiscali da parte delle Regioni,
sia nel reperimento delle risorse, sia nella spesa; ovviamente con meccanismi
di perequazione, che non allarghino la forbice tra regioni più e
meno ricche. Credo anche possibili intese su come ridefinire il funzionamento
del bicameralismo, e un più efficiente ed equilibrato rapporto tra
governo e Parlamento. Insomma, noi siamo pronti a discutere, ma per farlo
bisogna togliere di mezzo con il no la riforma attuale».
Il dialogo deve riguardare anche le
questioni etiche? La prima uscita del ministro per la Ricerca Mussi ha
aperto polemiche anche all’interno della maggioranza. «Sgomberiamo il campo da un equivoco.
Mussi non ha cambiato la normativa italiana. Più semplicemente,
con una decisione di buon senso ha rimosso il veto italiano che impediva
agli altri Paesi europei di condurre la ricerca sulle staminali. Sarebbe
aberrante che l’Italia si arrogasse il diritto di decidere anche per altri
Stati sovrani. Ciò premesso, le questioni etiche richiedono una
sensibilità particolare. Viviamo in un’epoca in cui la vita e la
morte non sono più affidate solo agli eventi della natura e del
destino. Grazie alla scienza, alla ricerca, alla tecnologia, sulla vita
e sulla morte ora l'uomo può incidere. Ciò rappresenta un
enorme possibilità, per prolungare la vita, alleviare le sofferenze,
cancellare malattie endemiche. Ma pone una questione etica, religiosa,
culturale».
Nella politica italiana e in particolare
all’interno dell’Unione è emersa la questione della laicità. «Laicità per me significa
affrontare temi così importanti con spirito aperto, di ricerca,
di dialogo. Respingendo visioni integraliste, veti ideologici. Cercando
una sintesi tra la libertà di scelta di ogni persona e la responsabilità
che ogni persona ha nei confronti della società».
La legge sulla fecondazione assistita
va cambiata? «La legge va rivisitata. È
vero che c’è stato un referendum. Ma, a parte il fatto che non essendo
stato raggiunto il quorum non è stato possibile conoscere l’effettiva
volontà della maggioranza degli italiani, in ogni caso il referendum
non ha risolto tutti gli interrogativi e i dubbi che la legge pone. Confrontiamoci
con spirito libero tra maggioranza e opposizione, per vedere come migliorarla.
Resto convinto che sulle questioni etiche sia meglio non creare spaccature
e divisioni, che si debba ricercare il consenso più vasto possibile».
Senza spaccature e divisioni oggi non
avremmo divorzio e aborto.
«Confrontarsi, dialogare, cercare
larghe intese rappresenta una sollecitazione a trovare soluzioni, non un
alibi per non decidere».
Ma la spaccatura oggi è innanzitutto
interna alla maggioranza, e riguarda anche le due componenti che dovrebbero
unirsi nel partito democratico. «Siccome l’Ulivo è il nucleo
fondativo del partito democratico, propongo di istituire subito, fin dai
prossimi giorni, un gruppo di lavoro dell’Ulivo sulle questioni bioetiche.
Un tavolo in cui ognuno porti le proprie esperienze, culture, competenze:
scientifiche, etiche, filosofiche, religiose. Mi sembra il metodo migliore
di trovare una sintesi, più dei manifesti contrapposti».
Non le è piaciuto il manifesto
dei cattolici della Margherita? «Se servono a piantare una bandiera,
i manifesti sono inutili e possono anche essere dannosi. Hanno invece una
grande utilità se rappresentano un contributo e una sollecitazione
a discutere. Raccolgo l’invito: confrontiamo le nostre diverse sensibilità,
troviamo una sintesi, e portiamola al confronto parlamentare con l’opposizione».