Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
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Liberazione 05-06-2006
 
Referendum 25 giugno, avviso all’Unione: per dire di no bisogna dire di no
 
Alberto Burgio
 
Ancora nell’autunno del 2004, mentre il progetto elaborato dai quattro di Lorenzago era in discussione alle Camere, due figure di primo piano dell’Ulivo, Giuliano Amato e Luciano Violante, hanno lanciato la proposta di una nuova Commissione di revisione costituzionale.
Che non si trattasse di un’idea estemporanea lo dimostra il fatto che la proposta - formalizzata nel corso di un seminario nel giugno dello scorso anno - viene ripresa proprio in questi giorni dai costituzionalisti più impegnati del fronte riformista, a cominciare da Augusto Barbera e Stefano Ceccanti, da sempre fautori di radicali modifiche della Carta del ’47.

E allora, qual è la questione? Che nell’ambito dell’Unione vivano culture politiche e orientamenti molto diversi tra loro, non è né una novità né necessariamente un problema. Che queste divergenze coinvolgano anche una materia nevralgica come l’assetto costituzionale del Paese è certo motivo di attenzione, ma non può sorprendere e non deve per forza di cose suscitare allarme. Il punto è un altro. Anzi, sono altri due.

Il primo - il più urgente - ha a che fare con la situazione nella quale ci troviamo dopo la fortunosa vittoria elettorale alle politiche, al cospetto di un esito interlocutorio delle amministrative e alla vigilia del referendum costituzionale di giugno, nel quale la destra si gioca il tutto per tutto con l’intento di mettere in discussione l’intero quadro politico prodotto dal voto di aprile. In tale contesto, l’agitarsi dei riformisti e le insistite aperture dei loro autorevoli mentori suscitano non poco sconcerto. Tanto più che si è ritenuto opportuno lanciare un appello che ruota intorno a una parola d’ordine a dir poco disorientante. Il 25 giugno bisognerebbe «dire un “no” per dire un “sì”»: un sì ad altre modifiche costituzionali e all’istituzione di una Convenzione che dovrebbe dare avvio ad un “percorso costituente”.

Sulla base di questa piattaforma, ricorrendo ad espedienti polemici arcinoti (chi difende la Costituzione è un conservatore; chi si oppone alla controriforma berlusconiana senza manifestare il proprio intendimento “riformatore” vuole “demonizzare le riforme”), Barbera e Ceccanti hanno raccolto oltre duecento firme, tra cui quelle di Nicola Mancino, di Mario Segni e della neo-ministra Melandri. C’è da chiedersi come mai i firmatari dell’appello non si avvedano dei rischi generati dalla loro iniziativa.

In Italia una campagna elettorale lunghissima e senza esclusione di colpi ha prodotto un’enorme confusione. Su queste materie, in particolare, vi è un allarmante deficit di informazione. La destra ha tutto l’interesse a mobilitare il proprio elettorato e ha mostrato di essere assai abile ed efficace su questo terreno. L’on. Berlusconi non fa mistero di accarezzare sogni di rivalsa e di puntare sul referendum per “dimostrare che la sinistra non è maggioranza nel Paese”. A dargli man forte ha lustri di propaganda antipolitica, plebiscitaria e pseudofederalista.

E’ possibile non comprendere che introdurre oggi distinzioni e paletti potrebbe dividere lo schieramento del No sino a compromettere le sorti di una sfida vitale per la nostra democrazia? E’ possibile non vedere che chiedere di bocciare la Costituzione di Calderoli dichiarandosi pronti a cambiare quella vigente significa offrire all’avversario l’argomento più forte e persuasivo? Quello di chi dice che allora tanto vale accoglierle queste modifiche, tanto più che gran parte di esse entrerebbero in vigore tra diversi anni (nel 2011 o nel 2016) e che vi sarebbe tutto il tempo di perfezionarle nel corso di questa legislatura?

Il fatto è che non di ingenuità si tratta ma, con ogni probabilità, di sostanza politica. E qui veniamo al secondo punto che va posto in chiaro. Al professor Barbera la Costituzione della destra non piace in toto, ma egli ne apprezza buona parte e ne condivide - così ci pare - lo spirito informatore. Gli sembra augurabile introdurre l’elezione diretta del premier. Gli pare opportuno riservare al primo ministro (eletto direttamente dal popolo) il potere di sciogliere le Camere. Si augura che venga sancita una normativa “antiribaltone” (che comporterebbe la costituzionalizzazione surrettizia del sistema maggioritario e azzererebbe quanto resta dell’autonomia del Parlamento). E, naturalmente, auspica la realizzazione di un “vero federalismo”.

Com’è evidente, si tratta di modifiche analoghe a quelle propugnate dalla Casa delle Libertà. Il modello è quello di una “democrazia immediata” (plebiscitaria: e non è un caso che Barbera e Ceccanti si richiamino esplicitamente a Maurice Duverger), che sacrifica la complessità della composizione politica del Paese (cioè il diritto di tutti gli interessi sociali ad essere adeguatamente rappresentati) sull’altare dell’efficienza (di uno “snellimento delle istituzioni” che santifica il mito della “governabilità”).

Ma del professor Barbera non parleremmo così a lungo se egli non fosse il portabandiera di uno schieramento vasto e molto influente. E’ questa la questione che davvero preoccupa. All’inizio degli anni Novanta si è imboccata una strada infausta. Sono state introdotte con grande disinvoltura riforme dirompenti (il maggioritario, il presidenzialismo negli Enti Locali, un federalismo di facciata che ha reso ingovernabili i rapporti tra Stato e Regioni). Si è offerta a una destra dichiaratamente avversa alla Resistenza antifascista l’opportunità di governare il Paese umiliando le opposizioni, colpendo i diritti fondamentali del lavoro e appellandosi al “popolo sovrano” contro le istituzioni rappresentative.

Si sono poste le premesse per un attacco di inedita violenza alla Costituzione repubblicana che - portando a compimento il disegno restauratore avviato con la “riforma” Castelli dell’ordinamento giudiziario - archivia l’equilibrio tra i poteri e subordina all’esecutivo le istituzioni di garanzia, rimettendo all’ordine del giorno il rischio di una dittatura del “Capo del governo”.

Nonostante tutto questo e nonostante metà del Paese soggiaccia ancora all’egemonia ideologica dell’avversario, non si trova niente di meglio che ricominciare con la canzone delle “riforme”. Con il ritornello della distinzione tra principi fondamentali e architettura istituzionale. Con l’ossessione della “governabilità” del sistema. Con la malcelata intenzione di farla finita una volta per tutte con il sistema proporzionale.

L’impressione è che si tenda ad adottare in campo istituzionale lo schema invalso sul terreno delle politiche economiche, dove la sinistra appare irretita dalle ideologie dell’avversario. Lì è questione di “compatibilità”: e per questo non si esita a propugnare “riforme” che violano i diritti del lavoro generalizzando la precarietà, privatizzando il privatizzabile e avallando una feroce redistribuzione della ricchezza a vantaggio del capitale. Qui è questione di “governabilità”. In nome della quale ci si acconcia a considerare il Parlamento e le istituzioni di garanzia come impacci da imbrigliare.

Ma così - gli anni che ci lasciamo alle spalle lo dimostrano - non si costruisce nessuna modernità. Così, seguitando a fondarsi sui cardini del “migliorismo”, non si fa altro che preparare la propria sconfitta. Oltre che il disastro di questo Paese.


Indice "Rassegna Stampa e Opinioni" - 2006
 
Speciale "Referendum costituzionale" 2006
 
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