MESSAGGI DEBOLI E CONTRADDITTORI
Sinistra, sveglia domani è referendum
di Luigi La Spina
Mancano una decina di giorni al voto sulla
riforma della Costituzione e il centrosinistra non se ne è ancora
accorto. Così, tra l’allarme sui conti pubblici, la spartizione
di posti nel più affollato governo della seconda Repubblica, il
carosello di estemporanee proposte dei loquacissimi ministri, la maggioranza
rischia davvero di sottovalutare le conseguenze di una vittoria del «sì»
nell’ultima tappa di quello scadenziario elettorale che ha contrassegnato
l’anno politico cominciato nella primavera del 2005. E’ ormai chiaro come
il centrodestra affidi all’esito del referendum la residua speranza di
quella «spallata» al neonato e già gracile governo fallita
nel recente voto amministrativo. Su un terreno, tra l’altro, sul quale
può contare sul consueto enorme vantaggio competitivo: l’efficacia
del suo messaggio propagandistico, contrapposta alla debolezza, confusione
e contraddittorietà di quello che riesce a far pervenire agli elettori
il centrosinistra. Anche su questo voto, infatti, si sta ripetendo puntualmente
il copione già visto nell’ultimo mese di campagna elettorale per
le legislative del 10 aprile, ormai consegnato alle biblioteche come il
perfetto manuale del politico masochista.
La comunicazione della «Casa delle libertà» per il referendum del 25 giugno si fonda essenzialmente su tre fascinatori argomenti: la riforma votata da quella che era la maggioranza nella scorsa legislatura riduce i parlamentari e, quindi, diminuisce i costi della politica. Motivazione sempre seducente, ma ancor più efficace dopo la pletorica abbuffata di viceministri e sottosegretari compiuta dal Prodi bis. Semplificazione che si completa con la scomparsa del «bicameralismo perfetto», cioè la doppia approvazione, con il medesimo iter e con la medesima competenza, delle leggi tra Camera e Senato. Terza ragione per votare «sì», sempre nella propaganda del centrodestra, è la cosiddetta «devolution», cioè il passaggio di importanti poteri alle Regioni. Un trasferimento che andrebbe sempre a vantaggio del cittadino perché avvicina la possibilità di un controllo popolare sull’esercizio di questo potere.
Di fronte a questo terzetto argomentativo, il centrosinistra o contrappone un inesplicabile silenzio o riduce la sua propaganda referendaria a un allarme generico, conservatore e soprattutto scarsamente efficace per le generazioni sotto i cinquant’anni: «La Costituzione non si tocca». Uno slogan che tenta di elevare a tabù un testo che per molti italiani non è più sacro nella memoria. Sia perché ormai la maggioranza dei nostri concittadini non ha vissuto la tragedia militare, politica e morale dalla quale è nato il testo su cui si è fondata la Repubblica. Sia perché, da più di trent’anni, l’idea di una «grande riforma» costituzionale è stata discussa, praticata e, in parte, anche realizzata da tutte le forze politiche presenti in Parlamento, sinistre comprese. Dai progetti craxiani, alle varie commissioni parlamentari, a partire da quella Bozzi fino alla Bicamerale di D’Alema, alle riforme prima del centrosinistra e, poi, appunto del centrodestra, l’idea di una irriformabilità della Costituzione è scarsamente credibile per la vasta platea dell’opinione pubblica.
Eppure, sarebbe facile per il centrosinistra ribattere, con altrettanta semplificatoria efficacia, ai primi due argomenti della parte avversa, perché l’attuale maggioranza propone una riduzione ancor più marcata del numero dei parlamentari e la legge approvata nella scorsa legislatura rinvia l’attuazione del provvedimento al 2016. Con tutte le incognite di una scadenza così lunga, in una vita politica terremotata e imprevedibile come la nostra. La cosiddetta fine del «Bicameralismo perfetto», poi, porterebbe a un tale intrico e confusione di competenze tra Camera, Senato e Regioni da rendere impraticabile l’attuazione della nuova legge, con effetti opposti a quello snellimento di procedure da tutti auspicato.
Ma è sul terzo punto, quello della «devolution», che l’atteggiamento del centrosinistra è davvero schizofrenico e contraddittorio. Ci sono, infatti, almeno tre posizioni, tutte e tre incompatibili tra loro. C’è chi dice che il trasferimento di poteri alla periferia deciso dal centrodestra nella scorsa legislatura è una finzione, perché, in realtà, le competenze rimangono più o meno inalterate e, quando sono effettivamente diverse, riguardano settori marginali e di scarsa importanza nella vita del cittadino. Un secondo «gruppo d’opinione», sempre nell’attuale maggioranza, grida invece all’attentato all’unità nazionale. Perché la diversa ricchezza delle Regioni porterebbe a non garantire a tutti gli italiani gli stessi servizi sociali sull’intero territorio del Paese. Aggravando, così, le diseguaglianze geografiche già esistenti. Una terza scuola di pensiero, infine, giudica la «devolution» del centrodestra un inganno, confezionato perché Bossi se ne possa gloriare con il popolo padano, rivendicando un grande successo personale. Il codicillo sull’«interesse nazionale» sarebbe, per costoro, l’arma che consentirebbe al potere centralista di riprendersi, in realtà, tutto il potere illusoriamente trasferito alle Regioni.
La libertà d’opinione è,
naturalmente, sacra e nessuno vuol ridurre al centrosinistra la facoltà
di discutere. Approssimandosi al voto, però, sarebbe forse utile
che il centrosinistra, prima, si accorgesse della nuova scadenza elettorale,
poi, che maturasse un atteggiamento unico e, infine, che riuscisse a trasmetterlo
all’opinione pubblica in modo chiaro ed efficace. I miracoli non si ripetono
spesso, anche se Prodi sembra dotato di una certa fortuna elettorale. E,
nel referendum, il parere dei senatori a vita non è determinante.
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