Referendum, Berlusconi: alle urne contro
il governo
Bossi rilancia: le vie sono due, federalismo
o secessione
Carlo Azeglio Ciampi scende in campo e
si schiera con il fronte del no nella battaglia referendaria del 25 e 26
giugno. Un intervento, il suo, che suscita le aspre reazioni di esponenti
della Casa delle libertà che lo accusano di avere gettato la maschera,
di non essere più imparziale e di essersi schierato apertamente
con l’Unione. Il centrosinistra lo difende apertamente, anche se a sinistra
si comincia diffondersi il timore di non riuscire a farcela nella consultazione
popolare di fine mese. Una preoccupazione della quale si fanno interpreti
il manifesto e il governatore diessino della Toscana, Claudio Martini.
Ieri un editoriale sul giornale comunista - intitolato «La paura
del 25 giugno» - sottolineava che nonostante «le spacconate
di Bossi la partita è aperta». Un’impressione avvalorata anche
da Martini: «La vittoria del sì non sarebbe un buon segnale,
indebolirebbe il quadro politico e potrebbe riaprire la discussione sulla
fase politica appena avviata». Questi, è vero, sono ragionamenti
sul futuro. E di futuro parlano Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. «Una
delle ragioni fondamentali - dice l’ex premier - per votare sì è
quello di dire no al governo Prodi. Un sì, quindi, contro l’Italia
del no». Insomma è la sua conclusione: «Se vincono i
no ci sarà una pietra tombale sull’ammodernamento dello Stato».
Anche Bossi si proietta oltre il 25 giugno. «Ci auguriamo che passi
il sì, se passa almeno al Nord, avremmo il diritto di andare ovunque,
anche all’Onu, per invocare maggiore libertà per il nostro popolo».
Per il Senatur «Ciampi ha perso un’occasione». Ecco perché,
ricorda, la scelta è: «O il federalismo o altrimenti la secessione,
che però è pericolosa, perché implica azioni che sapete
bene. Vogliamo la libertà che per non essere una parola priva di
significato deve diventare federalismo». In ogni caso, colpiscono
lo parole dell’ex Capo dello Stato. «Non ho difficoltà a rispondere
- spiega - convinto come sono della validità di fondo dell’impianto
e degli equilibri della nostra Costituzione. Andrò a votare e voterò
per il no». Questa è anche la propensione di tutti i senatori
a vita, a eccezione di Sergio Pininfarina.
Dure le reazioni del centrodestra. Per
il leghista Castelli «Ciampi è diventato il presidente solo
di metà degli italiani». L’azzurro Renato Schifani rileva
che «quando è in difficoltà la sinistra manda in campo
i senatori a vita». Il leghista Roberto Maroni si domanda: «Come
si fa a non essere conservatori a 86 anni?». Per Ignazio La Russa
(An) «ormai il voto di Ciampi vale come quello dell’ultimo deputato
eletto». L’Unione difende il presidente emerito. Il verde Alfonso
Pecoraro Scanio parla di «attacchi indecenti che mostrano mancanza
di rispetto per la democrazia». Anna Finocchiaro (Ds) rileva che
la scelta per il no di Ciampi è coerente con le sue prese di posizione
sulla necessità di difendere le istituzioni e attacca il centrodestra
per le critiche «irrispettose e ingenerose». Nonostante l’
incomunicabilità, Piero Fassino rilancia il dialogo: «Dopo
la vittoria del no siamo pronti ad aprire il confronto per approdare a
riforme che diano un assetto stabile al Paese».
Si era imposto qualche mese di silenzio
assoluto. E, per proteggere il suo ritiro, faceva respingere anche i tanti
inviti a convegni, dibattiti, lauree honoris causa che i commessi di Palazzo
Giustiniani hanno già cominciato a recapitargli nello studio da
senatore a vita. Una scelta, quella della laconicità e del profilo
basso, che gli pareva indispensabile nella fase di passaggio da presidente
in carica a «emerito» della riserva repubblicana. Ma quando
giovedì ha letto le dichiarazioni di Bossi, con la minaccia di percorrere
«vie non democratiche» se il risultato del referendum dovesse
bocciare la riforma costituzionale del Polo, allora Carlo Azeglio Ciampi
ha deciso di intervenire. Il 25 giugno si presenterà alla scuola
Mazzini, quartiere Trieste, dove è registrato fra gli elettori e
voterà «no». Lo ha fatto sapere pubblicamente ieri,
a costo di esporsi alle critiche del centrodestra, bisbetiche e velenose
come la bordata di fischi riservatagli un mese fa, quando in Senato votò
l'atto di nascita del governo Prodi.
Eppure i Gasparri, i Maroni, i Bondi e
i Calderoli, che si sono assunti l'onere di sparare ad alzo zero contro
un ex capo dello Stato da loro stessi più volte lodato in quanto
«super partes» e non a caso ancora forte di altissimi indici
di popolarità, non dovrebbero essere davvero stupiti.
Ciampi, infatti, non ha mai nascosto la
propria fedeltà alla Carta costituzionale, facendo affiorare seri
dubbi sulla cosiddetta «devolution» leghista - integrata da
parecchie aggiunte del centrodestra - che ne modifica 52 articoli. Ha difeso
in infinite circostanze il «pactum societatis» scritto 60 anni
fa, ricordando anche nell'ultima celebrazione del 25 aprile che quel testo
è stato per lui una «stella polare», quasi una «bibbia
laica». E non ne ha fatto solo una questione di coerenza generazionale
con le ragioni fondative sulle quali i «padri costituenti»
trovarono l'intesa. Dal suo punto di vista, che è poi quello degli
altri presidenti emeriti (tanto che potrebbero formare, magari insieme
a quello in carica, Napolitano, una sorta di influente partito trasversale),
questa riforma altera e stravolge l'equilibrio fra poteri dello Stato.
Rappresenta un rischio troppo grande.
Insopportabile. Che nessun alibi di «modernizzazione»
giustifica. Di più. Carlo Azeglio Ciampi è talmente convinto
della «validità e attualità» della nostra Magna
Charta da giudicare superficiale e sbagliata la pretesa di rottamarla.
«Meglio smetterla con la smania di liquidare tutto. L'Italia ha bisogno
di essere amministrata, e amministrata bene: si pensi a questo, piuttosto»,
ripete in questi giorni a chi va a trovarlo. Insomma: resta favorevole
a piccoli ritocchi e rettifiche funzionali, non a un disinvolto engeneering
che modifichi l'impianto stesso della Costituzione. Ciò che vale
oggi per la riforma del centrodestra come, domani, per una di analoga profondità
che fosse pianificata dal centrosinistra. L'altra sua remora, infine, riguarda
il metodo per lavorare sulla Carta: non a colpi di maggioranza, come ha
fatto il governo Berlusconi (e, nella legislatura precedente, quello di
centrosinistra con il titolo V), ma costruendo una larga condivisione.