Dopo Referendum - Unione divisa sulla
strategia del 27 giugno L’Ulivo: trattiamo. La sinistra: no al dialogo
Si fa presto a dire no. Perché
c’è il no di chi dice che la Costituzione è sacra e intoccabile;
quello di chi pensa a qualche ritocchino, nulla più; il no aperturista,
perché le riforme «si fanno insieme»; e il no di chi
ha già in testa che tavolo apparecchiare con la Cdl, e quali portate
servire. È insomma un no variegato, complicato, quello dei politici
che hanno deciso di votare no al referendum. Di centrosinistra quasi tutti,
ma non solo. Perché anche chi nella Cdl si muove in dissenso, ha
poi idee opposte su cosa fare dopo. Marco Follini , Udc, è stato
tra i primi a sostenere che serve il no proprio per fare dopo «riforme
condivise, non a colpi di maggioranza». Giorgio La Malfa invece,
che per questo si è dimesso da presidente del Pri, vota no perché
«non c’è bisogno di nessuna riforma della Costituzione»,
e tantomeno di bicamerali, costituenti o via discorrendo.
Ma è nel centrosinistra che la
differenza di posizioni è più eclatante. Se è vero
che si va da quella rigida del presidente dei comitati per il No Oscar
Luigi Scalfaro («Nel momento in cui oggi si vive superando anche
i 90 anni con una certa tranquillità, noi diamo per vecchia una
Costituzione che ha 60 anni? Ma è ai primi passi!»), a quella
di grande disponibilità verso l’opposizione del dipietrista Pino
Pisicchio , secondo il quale si deve già pensare «a un Costituente»,
fino a Franco Debenedetti che ha chiesto ai leader dei due poli di impegnarsi
a fare insieme le riforme indipendentemente dall’esito del voto.
Fra gli estremi, tante le sfumature, con
Romano Prodi in persona a garantire che se il no prevarrà, si aprirà
il dialogo con l’opposizione. Un discorso che non piace per niente alla
sinistra radicale della coalizione. A usare i toni più duri è
Marco Rizzo , del Pdci: «Perché mai - protesta - si dovrebbe
dialogare dopo che gli italiani hanno detto no, con chi è stato
fautore di un modello sbagliato? Non c’è ragione per perseguire
sulla via dell’inciucio. Suggeriamo questo anche a Prodi». Sulla
stessa linea, anche il verde Paolo Cento: «Se vince il no, la questione
delle riforme esce dall’agenda politica, prima di tutto perché si
sono espressi gli elettori, e poi perché non è una priorità.
Al massimo, posso pensare ad interventi limitati sul titolo V, ma lo strumento
è l’articolo 138, altro che bicamerali che servono solo ad altro,
a "dialogare" per arrivare alle larghe intese».
Freddissimi anche in Rifondazione: «Non
esistono assolutamente le condizioni per il dialogo, e comunque serve un
consolidamento del testo costituzionale, non un suo cambiamento. Semmai,
cambiamo il quorum previsto dal 138 per modificare la Carta: alziamolo,
aumentiamo le garanzie», dice il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore,
ripetendo il leit-motiv di Bertinotti: «Serve una lunga pausa di
riflessione».
Altra musica spostandosi verso il centro
della coalizione: «Non condivido chi dice che la Costituzione è
sacra e della Carta non si cambia nulla: bisogna invece renderla viva,
con alcune modifiche fatte con largo consenso», dice il diessino
Gavino Angius, ipotizzando come strumento possibile per operare la Convenzione
proposta da Barbera, sempre se «c’è la volontà comune,
sennò...». La sinistra radicale non ci sta? «Beh, sbagliano,
è una posizione ingiusta la loro, e anche contraria a quanto scritto
nel programma dell’Unione: sì a nuove riforme fatte a larga maggioranza».
In sintonia Renzo Lusetti , Margherita: «Certo che si deve aprire
la trattativa, e su tutto: in particolare su forma di stato e forma di
governo. Lo strumento? Il 138 rischia di portare ancora a riforme a colpi
di maggioranza, la Costituente dividerebbe i poli, meglio una bicamerale
più "agile". E ricordo agli alleati che si oppongono, che aprire
al dialogo non è inciuciare, ma fare un regalo al Paese».
«È autolesionistica una campagna
del no che sceglie Scalfaro testimonial e si appella alla sacralità
della Costituzione», attacca Daniele Capezzone per la Rosa nel Pugno.
Da cambiare c’è eccome, va fatto assieme, ma solo se l’obiettivo
è chiaro: «Dobbiamo andare verso una riforma anglosassone,
all’americana o all’inglese, delle nostre istituzioni e della legge elettorale:
al Paese serve un sistema bi o tri-partitico».
Insomma, il centrosinistra è pronto
a dialogare? Mauro Fabris, Udeur, non solo lo auspica ma non ha dubbi:
«Dall’altra parte un sacco di gente aspetta solo il voto per aprire
un nuovo discorso con il centrosinistra, e parlo dell’Udc ma non solo:
certo che si finirà per dialogare...».