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Silvio Basile 17-06-2007
 
  Per mettere in sicurezza la Costituzione

(Versione aggiornata della proposta di emendamento all'art. 138 Costituzionale presentata (marzo 2007) al "Comitato fiorentino per la Difesa della Costituzione")


    Siamo tutti d’accordo nel Comitato sulla necessità di opporsi all’idea di modifiche organiche del testo costituzionale o di modifiche che comunque ne alterino i principi ispiratori, sul tipo di quelle che da anni erano state proposte anche in sede istituzionale e che infine sono sfociate nella legge costituzionale respinta l’anno scorso a grande maggioranza dagli elettori nel referendum del 5 giugno.
    Nel Comitato non tutti sono, però,  d’accordo sulla necessità di approntare uno strumento giuridico adeguato allo scopo. Lo strumento, infatti, può consistere solo in una modifica dell’art. 138 della Costituzione stessa. Non ci si può opporre alle proposte di alterazione del testo costituzionale – si dice – proponendo nel contempo di modificarlo. L’argomento può sembrare forte. In realtà, non lo è: la modifica del procedimento di revisione costituzionale non costituirebbe alterazione della Costituzione e, d’altra parte, la Costituzione esplicitamente ammette la possibilità di sue modifiche. Di fatto, in poco meno di un sessantennio le modifiche di sue parti omogenee e circoscritte sono state abbastanza numerose. Nel più dei casi, sono state concordate dalla maggioranza con settori piuttosto ampi dell’opposizione, hanno ottenuto in seconda votazione maggioranze superiori ai due terzi in entrambe le Camere e non hanno alterato la Costituzione nei suoi principi ispiratori, ma l’hanno solo corretta in piccole e riconosciute imperfezioni. Fino a pochi lustri or sono, l’art. 138 era adeguato a questi scopi: emendare la Costituzione ove necessario, impedirne sia modifiche unilaterali sia alterazioni e riforme organiche. L’esperienza degli ultimi anni mostra, però, che sotto questi profili  l’art. 138 è oggi del tutto insufficiente.
    Vediamo come e perché. Nel testo attuale, come si sa, l’art. 138 dispone:

    Art. 138.Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
    Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
    Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.

    Queste garanzie, si diceva, hanno perso ormai del tutto il loro significato originario. Hanno permesso, infatti, sia modifiche unilaterali e, almeno in un caso, dal dubbio carattere circoscritto, sia addirittura il recente tentativo di alterare tutta la parte organizzativa della Costituzione.
    Le ragioni sono molte. Contro un’opinione molto diffusa, bisogna scriverlo a chiare lettere: non consistono soltanto nella modifica della legge elettorale delle Camere, con abbandono del principio proporzionale fra elettori e rappresentanza. D’altra parte, contro gli effetti qui sicuramente devastanti della legge maggioritaria, in concreto non c’è nessuna garanzia che la legge elettorale debba essere proporzionale. La proporzionale era certamente presupposta dai Costituenti; i quali, tuttavia, almeno al preciso riguardo delle elezioni delle Camere, non ne sancirono il principio nel testo della Costituzione e con ciò, appunto, non la garantirono. La legge elettorale maggioritaria, del resto, permette bensì modifiche unilaterali, che la proporzionale non avrebbe permesso, ma l’idea che fossero necessarie vere e proprie alterazioni della Costituzione (la “grande riforma” di Craxi), per garantire quella che si diceva la “governabilità”, si era affermata già negli anni Ottanta, assai prima dunque della modifica elettorale del 1993. La modifica stessa, anzi, era stata dichiaratamente proposta con l’idea di rendere possibile, appunto, la “governabilità”.
    C’è anche di più: la normale approvazione delle leggi di revisione costituzionale a maggioranza dei due terzi in modo da evitare il referendum, non si spiega in modo compiuto senza un presupposto preciso che negli anni Ottanta era già venuto meno. Tra i politici di professione il referendum (e in particolare il referendum costituzionale) fino a tempi abbastanza recenti era considerato pericoloso e da evitarsi in tutti modi. L’esito non esaltante del referendum del 2 giugno 1946, vinto a fatica dalla Repubblica contro la monarchia compromessa con il fascismo e responsabile dell’8 settembre, spiega molto al riguardo. Non a caso, era stato evitato con ogni cura il voto popolare diretto sulla Costituzione, che pure, con il probabile esito favorevole, l’avrebbe consolidata. D’altra parte, i partiti, a carattere marcatamente ideologico, avevano allora ognuno una base abbastanza sicura, sul cui voto in cabina elettorale fare affidamento. A ragione potevano dunque temere che la propria base si dividesse e non seguisse sempre le loro indicazioni se chiamata a decidere in referendum su questioni specifiche. Per i diversi partiti non c’era soltanto il rischio di essere smentiti dai propri elettori abituali, ma poi anche quello di perderli  nelle elezioni successive. L’uso frequente del referendum abrogativo, iniziato negli anni Settanta, non ha certo costituito l’unica causa, ma ha contribuito a modificare la situazione. I tradizionali partiti a carattere marcatamente ideologico o sono spariti negli anni di tangentopoli o hanno cambiato i propri connotati, per avvicinarsi al modello del partito d’opinione. Nei loro vertici, per quel che qui più interessa, si è attenuato il timore di essere smentiti dalla propria base e di perderla, almeno in parte, attraverso il referendum.
    D’altra parte, per avere il quadro completo delle ragioni si deve anche considerare la scomparsa degli uomini politici che avevano elaborato il testo della Costituzione e, negli anni Novanta, la trasformazione degli stessi partiti da loro rappresentati in quell’Assemblea. Pur nel contrasto che, negli anni della guerra fredda era stato durissimo, provenivano tutti dall’antifascismo e dalla Resistenza e si consideravano tutti di quello che si chiamò l’“arco costituzionale”. Non che quelli di loro che fra il 1948 e la fine degli anni Settanta ebbero dagli elettori la maggioranza in Parlamento avessero completamente attuata la Costituzione, né che sempre l’avessero scrupolosamente osservata, ma almeno non l’avevano mai contestata e, d’altra parte, quando sentivano la necessità di emendarla erano indotti dalle loro stesse premesse ideologiche ad accordarsi con tutti i partiti dell’“arco costituzionale”. Dopo, in maggioranza in Parlamento si sono trovati talvolta uomini e partiti non solo estranei, ma proprio ostili alla Costituzione e ai suoi valori fondamentali. 
     Oggi, dopo le esperienze di governo di partiti anticostituzionali, c’è dunque da convincersi che è necessario mettere in sicurezza la Costituzione con strumenti adeguati, cioè con un’adeguata revisione dell’art. 138. Occorrono esplicite garanzie contro la possibilità sia di riforme organiche della Costituzione, sia di revisioni anche limitate a parti omogenee e circoscritte del testo che siano però espressione di meri interessi di potere o comunque siano unilateralmente imposte dalla maggioranza e non nascano da ampio dibattito che coinvolga per quanto possibile tutta la comunità politica.
    In vista di una iniziativa popolare di legge costituzionale di emendamento dell’art. 138, propugnata dal Comitato, ho elaborato lo schema che segue:
   
    Art. 138. – La Costituzione può essere modificata con legge costituzionale solo per emendamento esplicito relativo a parti omogenee e circoscritte del suo testo e senza toccarne i principi fondamentali.
    Le leggi di emendamento della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono approvate dal popolo per referendum su proposta adottata da ciascuna Camera in due successive deliberazioni conformi prese ad intervallo non minore di tre mesi e a maggioranza dei due terzi dei componenti nella seconda votazione.
    La proposta  di legge costituzionale formulata dalle Camere è trasmessa al Presidente della Repubblica che entro un mese ne ordina la pubblicazione. Prima della scadenza del termine, il Presidente della Repubblica, con messaggio motivato, può chiedere alle Camere una nuova deliberazione, con il medesimo procedimento, ove ritenga che il testo proposto non corrisponda alle condizioni stabilite al primo comma.
    Il Presidente della Repubblica indice il referendum non prima di tre mesi dalla pubblicazione della proposta. Il testo sottoposto a referendum può essere votato dagli elettori per parti separate quando, entro il termine dei tre mesi, un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali ne facciano motivata richiesta al Presidente della Repubblica.
    La legge costituzionale è approvata dalla maggioranza dei voti validamente espressi superiore a un terzo degli aventi diritto.

    Il primo comma è inteso a rendere esplicito quanto la dottrina costituzionalistica prevalente e la stessa giurisprudenza costituzionale hanno considerato implicito nel testo attuale dell’art. 138: la Costituzione può essere emendata solo per parti omogenee e circoscritte del suo testo senza alterarla nei suoi principi fondamentali. Il rendere esplicito questo principio, già accolto in sede d’interpretazione, non è inutile: costituisce pur sempre una garanzia in più a favore di prassi e giurisprudenze conformi e contro tentativi difformi in sede politica e, più ancora, si collega, limitandole, alle possibilità di richiesta da parte del Presidente della Repubblica, da un lato, e dei soggetti indicati dal quarto comma, dall’altro. Inoltre, nel testo qui proposto si richiede che l’emendamento sia esplicito. Lo si richiede anche in ragione delle altre leggi costituzionali previste dalla stessa Costituzione. S’intende così escludere espressamente che esse, non disposte per modificare la Costituzione, ma solo per attuarla con riguardo a certi organi, la possano modificare in modo tacito.
    Il secondo comma  tende ad evitare che meri interessi di potere, che possono anche essere comuni a maggioranza e opposizione parlamentare, s’impongano nella revisione costituzionale e insieme a far sì che la revisione costituzionale nasca sempre da ampio dibattito e sempre coinvolga, per quanto possibile, l’intera comunità politica. Se vogliamo veramente che la Costituzione sia cosa del popolo, non possiamo esigere soltanto che sia insegnata nelle scuole, come oggi è assai poco e male, e neppure soltanto che la sua conoscenza sia una fra le premesse per l’acquisto della cittadinanza, come oggi non è. Dobbiamo esigere che sia, per quanto possibile, atto del popolo. Giustamente, a questo proposito, Leopoldo Elia ha rilevato l’importanza del referendum costituzionale del giugno scorso: per la prima volta, il popolo si è  pronunciato sulla Costituzione e, in sostanza, l’ha confermata, almeno nella sua parte organizzativa, respingendo il tentativo di alterarla. Paradossalmente, proprio i suoi tradizionali critici, con il loro tentativo, hanno reso alla Costituzione il più importante servizio, rendendo possibile la richiesta di un referendum per confermarla. Con ciò, fra l’altro, oggi sicuramente non hanno più senso vecchi timori che potevano essere giustificati all’indomani del voto finale dell’Assemblea Costituente.
    Ci si chiederà però a questo punto: non basta il referendum facoltativo previsto nell’art. 138, se, dopo tutto, è stato sufficiente a confermare la Costituzione contro quel tentativo? Si deve ammettere che l’obiezione è seria. Si deve considerare, per prima cosa, che l’obbligatorietà toglierebbe al referendum costituzionale il carattere oppositivo che nel testo oggi in vigore, almeno in conformità alle evidenti intenzioni dei Costituenti, gli dovrebbe essere proprio. Il rapporto fra rappresentanti e rappresentati diverrebbe, al contrario, un rapporto di collaborazione: i rappresentanti elaborano il progetto, il popolo, approvandolo, ne fa una legge costituzionale. Si devono poi considerare anche i costi della consultazione popolare per le pubbliche finanze: con il referendum facoltativo, ci sono se c’è richiesta, altrimenti non ci sono; con il referendum obbligatorio, ci sono sempre. Sui vantaggi dell’una o dell’altra forma, sotto questi profili, si potrebbe discutere all’infinito. Il punto però è soltanto chiedersi cosa si reputa più importante. Se si ritiene che il più importante è che la Costituzione sia cosa del popolo – e personalmente sono dell’idea –, si dovrà essere a favore del referendum obbligatorio, quale che ne sia il vantaggio del referendum facoltativo per i minori costi per le finanze o, magari, in ragione del carattere oppositivo che dovrebbe avere, ma di fatto non sempre ha avuto. Del resto, se l’auspicato carattere oppositivo dell’un tipo di referendum è apprezzabile, il carattere meramente confermativo che esso assunse nel 2001, in funzione di legittimazione dell’operato di una risicata maggioranza, ha semmai solo aspetti negativi. Ad ogni modo, anche la collaborazione fra rappresentanti e rappresentati, propria dell’altro tipo di referendum è apprezzabile, specie quando, come nel caso del testo che qui si propone, non può assumere quegli aspetti di legittimazione di parte.
    Nello stesso secondo comma, infatti, è accolta la proposta da più parti ventilata di elevare ai due terzi la maggioranza necessaria in seconda deliberazione nelle due Camere, senza clausole di esclusione del referendum per l’ipotesi che vi si raggiunga una maggioranza ancora più larga (come invece nella proposta di Vannino Chiti): con ciò si intende rendere per lo meno improbabile una revisione unilaterale da parte della maggioranza di governo.
    Il terzo comma intende porre una garanzia concreta che la proposta di legge costituzionale risponda ai requisiti indicati dal primo. Con riguardo ad uno fra quei requisiti (il carattere di emendamento della revisione costituzionale) il problema della garanzia è stato già posto con lucidità in un convegno fiorentino dello scorso dicembre da Maurizio Fioravanti, che ha indicato nella Corte costituzionale l’organo adeguato allo scopo, avendo anche presente la giurisprudenza con riguardo all’omogeneità dei quesiti nel referendum abrogativo. Personalmente non mi sembra dubbio che la Corte costituzionale, nell’esercizio delle sue normali funzioni giurisdizionali, e cioè su sollecitazione d’altri, debba dire l’ultima parola al riguardo. Mi sembra però al riguardo inopportuno il controllo preventivo d’ufficio della Corte, come stabilito appunto nella legislazione vigente sul referendum abrogativo; inopportuno, in linea generale, perché lascia del tutto scoperta la Corte di fronte a critiche politiche più o meno violente che rischiano di delegittimarla, e inopportuno, in modo particolare, quando si tratta di stabilire qualcosa su un terreno al limite tra politica e diritto, come appunto la questione relativa al carattere omogeneo e circoscritto di emendamenti. Il sistema qui proposto, senza escludere la normale possibilità di successivi responsi della Corte, eventualmente in sede di conflitto di attribuzioni, intende affidare il primo controllo in materia al Presidente della Repubblica, con rinvio alle Camere e richiesta motivata di riesame, in analogia a quanto previsto dall’art. 74 con riguardo alle leggi ordinarie. Se un tale potere del Presidente è ammesso nel procedimento legislativo ordinario, non dovrebbe, del resto, essere considerato fuori luogo nel procedimento legislativo costituzionale, che evidentemente esige semmai maggiori garanzie.  Con ciò non si richiede che il riesame debba necessariamente aver luogo nel corso della stessa legislatura che ha dato la prima formulazione al testo. Si intende, al contrario, proprio lasciare aperta la possibilità che abbia luogo in una legislatura successiva: ciò, fra l’altro, potrebbe costituire un ostacolo alla tendenza di una larga maggioranza a imporre revisioni unilaterali contro la minoranza.
    Il quarto comma intende stabilire un’ulteriore garanzia del rispetto dei requisiti indicati dal primo per le leggi costituzionali: certi soggetti (gli stessi che secondo l’art. 138 nel testo attuale possono chiedere il referendum) possono chiedere che il testo da sottoporre agli elettori sia loro sottoposto per parti separate, in modo che possano approvare certe disposizioni e respingerne altre senza essere costretti a un prendere o lasciare che riduce il referendum a un plebiscito. Ciò non esclude la possibilità di sollecitare il giudizio della Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzioni, ove si ritenga che la divisione dei quesiti comporti irrazionalità.
    L’ultimo comma, infine, intende escludere che la maggioranza che approva la legge costituzionale sia una minoranza esigua del corpo elettorale, evitando il sistema del quorum previsto dall’art. 75 della Costituzione per il referendum abrogativo. Il sistema del quorum, infatti, è assolutamente da evitare, perché favorisce tutti i possibili imbrogli: da un lato, consente a una minoranza, altrimenti perdente, di far fallire una consultazione elettorale organizzando l’astensionismo, mentre, dall’altro, non esclude neppure che una minoranza esigua del corpo elettorale, inferiore eventualmente a un quarto, venga a costituire la maggioranza dei voti validamente espressi, cosa possibilissima in presenza di schede bianche e nulle in numero particolarmente elevato. Il sistema qui proposto sull’esempio di un modello straniero favorisce al contrario la partecipazione di tutti gli interessati all’esito del referendum, favorevole o contrario alla proposta che esso sia.

Silvio Basile



Indice "Rassegna Stampa e Opinioni" - 2007
 

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