Vero e falso federalismo
finale con sorpresa
Se si vanno a sfogliare gli atti parlamentari alla ricerca del «vero»
federalismo secondo la CdL (tutta la CdL: da FI, alle formazioni della
diaspora dc, ad AN fino alla Lega), non si fa fatica a scoprire che, se
c’è una e una sola discriminante assoluta, questa è costituita
dalla definizione del principio di sussidiarietà orizzontale data
dal quarto e ultimo comma del (nuovo) art. 118 Cost.: «Stato, Regioni,
Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa
dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività
di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.»
Questa è pure una profonda discriminante verso sinistra. Il prof.
Giuseppe Rescigno scriveva sul n. 16 della «Rivista del Manifesto»:
«Questo articolo (art. 118 ndr) non solo rende legittima (senza apparenti
limitazioni: vedremo dopo che almeno qualche limitazione, in base ad altri
articoli della Costituzione, rimane) la devoluzione ai privati di attività
di interesse generale, ma addirittura obbliga gli enti pubblici a giustificare,
in base al principio di sussidiarietà, l'assunzione in proprio di
tali attività, giacché esse in principio, se i cittadini
singoli e associati sono in grado di svolgerle, spettano a loro e non agli
enti pubblici. Scuola, sanità, assistenza, previdenza, cultura e
in generale tutti i servizi sociali vanno svolti anzitutto dai privati,
e poi, solo se questi si dimostrano incapaci di assicurarli, possono essere
assunti dagli enti pubblici. Le sole attività di interesse generale
che non possono essere attribuite ai privati sono quelle che comportano
poteri autoritativi, e cioè poteri di imposizione di obblighi e
divieti: è da ritenere che, in forza della restante parte della
Costituzione, solo atti dei poteri pubblici possano imporre obblighi e
divieti. Tutta la prima parte della vigente Costituzione, per quanto riguarda
i servizi sociali, diventa ufficialmente carta straccia (si pensi, per
contrasto, alla formulazione dell'Art. 33, secondo comma: “La Repubblica…
istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi», con cui,
esattamente all'opposto di quanto dice il principio di sussidiarietà,
lo Stato ha comunque l'obbligo di istituire scuole per tutti gli ordini
e gradi)”. Nel migliore dei casi si assisterà a lotte furibonde
nelle diverse sedi sulla opportunità o meno di affidare ai privati
questo o quel servizio pubblico.»
Tornando alla CdL, occorre richiamare noti precedenti. A metà
novembre dell’anno scorso, in base a una strategia volta ad ottenere elezioni
anticipate e per la quale fu pure impedito di cambiare la legge elettorale,
la Cdl rivolse pollice verso alla legge costituzionale relativa alla modifica
del titolo V della parte seconda della costituzione (volgarizzata come
legge sul federalismo). L’annuncio definitivo, nella seduta pomeridiana
del 13 novembre dell’anno scorso, fu dato dal sen. D’Onofrio all’Aula di
Palazzo Madama. D’Onofrio parlava a nome di tutta la CdL, annunciando di
poter utilizzare tutto il tempo di cui disponevano i parlamentari dei gruppi
che ne facevano parte. Pronunciò quindi un discorso adatto alla
solennità del momento, d’intonazione vagamente biblica, che, partendo
dalle decine e decine di emendamenti presentati, tendeva a dimostrare che
la CdL aveva raggiunto sul federalismo una intesa unanime, incontrandosi
tutta sul punto che distingue nettamente il federalismo vero (della CdL)
da un centralismo più o meno mitigato da operazioni di decentramento
(dell’Ulivo). Questo punto di incontro faceva sì che le decine e
decine di emendamenti presentati, e che esprimevano le vecchie differenze
all’interno del Polo, essendo superati dall’accordo realizzatosi nella
CdL, si concentravano in soli dieci emendamenti. E tuttavia il senatore
D’Onofrio dichiarava di rendersi ben conto che questi 10 emendamenti non
potevano essere imposti come un «prendere o lasciare», anche
se, certamente, la quantità di emendamenti che la maggioranza dell’Ulivo
avrebbe accolto o respinto, avrebbe influito sulle determinazioni dell’opposizione.
L’interesse della quale alla realizzazione del “vero federalismo” era però
tale che, in definitiva, un emendamento e un solo emendamento, quello relativo
al principio di sussidiarietà, costituiva conditio sine qua non.
Solo introducendo il «vero» principio di sussidiarietà,
l’impostazione centralistica che ancora connotava la riforma costituzionale
già approvata in prima lettura avrebbe ceduto il passo a una «vera»
impostazione federalista.
Per il sen. D’Onofrio la sconfitta del federalismo si era realizzata
con la versione del principio di sussidiarietà approvata in Bicamerale
il 4 novembre del 1997, modificando la versione che era stata approvata
il 30 giugno. Queste due opposte maggioranze separavano gli «amici»
del federalismo dai suoi «nemici», il «federalismo»
dal «centralismo». Bisognava dunque tornare alla maggioranza
del 30 giugno.
Qual è, infine, la sorpresa? Il progetto della «devolution»
bossiana, nell’ultimo comma del suo articolo 118 (bozza preparatoria del
disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri del 13 dicembre),
ci dà finalmente la definizione del principio di sussidiarietà,
che dall’angosciante paesaggio del centralismo ci trasporterà nelle
verdi praterie del federalismo. Parola per parola, punto per punto, virgola
per virgola, è la stessa definizione data dal nuovo ultimo comma
dell’art. 118. Ma vogliamo mettere se è scritta con la biro del
ministro Bossi!