Riforme Istituzionali
Osservatorio sulla devolution
Rassegna stampa
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Corriere della sera - 27-06-2002
Sul federalismo leghista pesano tre nodi politici
- Stefano Folli
A un certo punto dell’audizione di Umberto Bossi,
è stato Nicola Mancino a sollevare un punto politico. Si rende conto,
ha detto in sostanza l’ex presidente del Senato rivolto al ministro, che
modificare la natura della Camera alta in senso federale e regionalista
comporta come prima conseguenza la fine della legislatura e il ritorno
alle urne? A questa obiezione Bossi ha replicato che il federalismo va
visto come «un processo». Sottinteso: un processo che richiede
i suoi tempi, di fatto coincidenti con gli anni della legislatura. E qui
si è visto un raggio di chiarezza, forse l’unico in un’esposizione
peraltro nebbiosa. Ci si attendeva che il ministro per le Riforme precisasse
il progetto costituzionale del governo Berlusconi. Ma non si può
dire che la relazione svolta a Palazzo Madama sia stata soddisfacente.
Tra l’altro non si capisce ancora se le tesi esposte da Bossi riflettono,
e fino a che punto, l’opinione di tutta la maggioranza. Si è colta
tuttavia una differenza rispetto ai toni e agli argomenti di Pontida.
Là, in Padania, il ministro «di
lotta e di governo» aveva dato l’impressione di voler procedere in
fretta, attraverso rapide spallate, verso il traguardo della «devoluzione».
Inclusa una Camera federale da distribuire sul territorio, dal Nord al
Centro al Sud. Ora il progetto non è venuto meno, ma Bossi ne parla
come di «un processo». Qualcosa, dunque, che deve essere armonizzato
con altri segmenti di una riforma ambiziosa e di respiro ampio (una riforma
concepita per affossare quella approvata dal solo centrosinistra, con un
pugno di voti di maggioranza, negli ultimi giorni della scorsa legislatura).
Tra i capisaldi, oltre alla «devoluzione» e al Parlamento federale,
la nuova architettura della Corte Costituzionale, con alcuni giudici espressione
delle regioni.
Restano i nodi politici: in sostanza tre. Il
primo riguarda la volontà della maggioranza. Fino a che punto Bossi
è «coperto» dai suoi alleati? Dice Francesco D’Onofrio,
esponente centrista e relatore sulla «devoluzione»: «Non
esiste un federalismo senza la Lega, è inutile che l’opposizione
cerchi di dividerci».
L’Udc di D’Onofrio è il partito più
lontano dalla Lega all’interno della coalizione. Tuttavia su questo punto
concordano tutti: non c’è alternativa all’intesa con Bossi, a meno
di non volere la caduta del governo Berlusconi. Ne deriva che il nuovo
federalismo esige in primo luogo un realistico lavoro di mediazione all’interno
della Casa della Libertà. Bossi non può ottenere tutto. C’è
un problema economico, posto da Berlusconi: fare in modo che il federalismo
non si risolva in un aumento della spesa pubblica e in un danno fiscale
per il cittadino.
C’è poi l’aspetto che sta a cuore a Fini
a ai centristi: proteggere il Mezzogiorno, cioè le regioni più
deboli, attraverso il «fondo di perequazione» e i patti di
solidarietà. C’è infine l’esigenza di rafforzare l’autorità
centrale (con il presidenzialismo?) nel momento in cui si decentrano i
poteri amministrativi.
Il secondo nodo riguarda i tempi dell’eventuale
riforma. Prima del 2004, quando anche l’Europa avrà deciso il proprio
assetto istituzionale, non è verosimile alcuna decisione. Dal 2004
al 2005 si può immaginare l’iter del progetto, così da farlo
coincidere con l’arco della legislatura. Sembra di capire che tale itinerario
sia accettato, tra le righe, anche da Bossi.
Il terzo punto, il più importante, consiste
in un quesito: chi voterà una riforma di questo tipo? Bossi ha chiesto
ieri «collaborazione» tra maggioranza e opposizione. Ma allo
stato delle cose non è realistico prevedere che il centrosinistra
accetti di sedersi intorno a un tavolo per discutere la riforma leghista.
Si tratta però del nocciolo del problema.
Che cosa accadrà se la sinistra porrà
il suo «veto»? E’ plausibile che la Casa delle Libertà
proceda da sola? Al momento non è credibile. In ogni caso non se
ne dovrebbe parlare prima di un paio d’anni.
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