A palazzo Madama, per difendere la devolution, Umberto Bossi si scaglia
contro la «palude centralista», accusa l'opposizione di «razzismo
contro il Nord». Lo accolgono i fischi dell'Ulivo e pochi applausi
del Polo
Giovanna Pajetta
«Io non volevo neanche toccare questo problema, ma questa mattina
ho sentito interventi intolleranti, razzisti contro il Nord...Come se questo
non avesse dato non due, ma dieci mani al Sud. Fin dal tempo dei Mille,
che erano soprattutto bergamaschi e bresciani». Quando Umberto Bossi,
alle cinque del pomeriggio, prende la parola in senato per la sua replica
sulla devolution ci vuol poco a capire che non parlerà da ministro
per le riforme. Indifferente al crescendo di urla, sfottò, canti
e ben scarsi applausi, il senatur si lancia a testa bassa contro
l'opposizione, la accusa di «catastrofismo strumentale, come quello
dei partiti che, alla fine degli anni'70, non volevano l'istituzione delle
Regioni». Ma, soprattutto, torna ai temi più cari e noti,
dall'attacco alla «palude centralistica», bestia nera di tanti
comizi di Pontida, al «disamore del Nord per quello stato unitario
che aveva contribuito a costruire», fino ad un classico e conclusivo
«chi la dura la vince, indietro non si torna». Così,
dopo aver urlato in aula (provocando scampanelli e richiami a non finire
della presidenza), i senatori dell'opposizione partono al contrattacco.
Uno dopo l'altro, i diessini Angius e Vitali, quelli della Margherita Mancino
e Bordon, protestano per «Un discorso da ministro della repubblica
padana» (Vitali), si indignano perché «è stato
al di sotto del minimo consentito persino a un parlamentare» (Bordon)
o si felicitano e tirano un sospiro di sollievo perché nessuno ha
aperto la porta al dialogo «pensavamo a qualche ripensamento...ora
siamo più sereni» (Angius). Anzi, qualcuno già canta
vittoria, sottolineando come la furia bossiana ha provocato il palese sconcerto
dei suoi alleati.
Pochi, pochissimi applausi a scena aperta, e solo qualche sgranato battimano persino al momento delle conclusioni sono infatti l'unico contraltare allo scatenarsi del centrosinistra. Una così palese freddezza dell'intera Casa delle libertà (leghisti esclusi s'intende) che nemmeno le le dichiarazioni di prammatica dei forzisti Schifani e La Loggia riescono ad attenuare l'impressione di un Bossi lasciato a se stesso. «E' stato un messaggio opportuno e rasserenante - dirà, arrampicandosi sugli specchi, il capogruppo al senato di Forza Italia - In particolare la parte iniziale è stata più che incisiva». «Bossi ha stroncato inutili e dannose strumentalizzazioni sulla prima parte della Costituzione», commenta, con qualche ragione in più, il ministro per gli Affari regionali. Perché in effetti, prima di partire in difesa di «Pontida e il Leone di Venezia», il ministro per le riforme qualche novità l'aveva detta. E su un punto non da poco.
«La devolution non tocca i livelli essenziali dei servizi, che devono essere garantiti sull'intero territorio nazionale - ha tenuto a ribadire infatti Umberto Bossi - E lascia intatta i principi sanciti dalla prima parte della Costituzione, l'uguaglianza, il diritto alla salute e quello all'istruzione». Anzi, ricorda in un momento di pacatezza il senatur, tutto questo era scritto nel testo del progetto di legge sulla devolution. «Ma poi fu suggerito di toglierlo per non mettere cose ultronee, cioè pleonastiche». Un sì insomma al famoso emendamento «salva patria», ma nessuno lo noterà, nè in aula nè dopo.
Del resto quello che va in scena in senato è un copione già
scritto. Già prima del discorso di Bossi, l'Ulivo aveva dato il
via, come in mattinata, all'«ostruzionismo totale» (interventi
su tutto, dall'aereo dirottato fino ai manifestanti bloccati davanti a
palazzo Madama). E così si andrà avanti fino a martedì
3, la data più papabile per la fine dell'esame dei mille e trecento
emendamenti e il voto finale. Schermaglie che servono ad affilare le armi
per lo scontro vero, quello che ci sarà quando la devolution approderà
alla camera. «Bossi ha dato un insperato aiuto alla nostra battaglia»
dice infatti Willer Bordon, mentre Vitali prevede «un percorso molto
accidentato» a Montecitorio. Si conta sulle resistenze dei centristi
(ieri Tabacci è arrivato ad attaccare frontalemente anche il minifederalismo
della riforma ulivista del titolo V) e sull'insofferenza di An. Ma anche
se le rose non fioriranno nella maggioranza, poco conta. «Noi andremo
al referendum - ribadisce Angius - Anzi direi che prima si fa la legge
e meglio è, perché così si andrà prima al referendum».
Corriere della sera - 28-11-2002
Il ministro: tanti bergamaschi e bresciani tra i Mille. Gelo di
An. D’Alema ed Epifani: referendum anti-devolution
ROMA - Nella battaglia della devolution si celebra la giornata di Umberto
Bossi. E il «padre» della legge costituzionale, che trasferisce
alle Regioni le competenze esclusive su sanità, scuola e polizia
locale, non delude le attese. Perché pronuncia nell’Aula del Senato
un discorso dagli accenti fortemente «padani» che non fa solo
insorgere l’opposizione, ma che mette in imbarazzo anche gli alleati della
maggioranza, a partire da Alleanza nazionale. Assente Silvio Berlusconi,
che in un primo momento aveva espresso l’intenzione di presenziare.
«L’ITALIA L’HA UNITA IL NORD» - Il ministro per le Riforme
può cominciare a parlare solo qualche minuto prima delle 18 perché
fino a quel momento il centrosinistra fa ostruzionismo. Nonostante l’invito
di Massimo D’Alema ad «evitarlo» e «favorire una rapida
approvazione del provvedimento» per poi utilizzare l’articolo 138
«per appellarci al popolo con il referendum». Una soluzione
che trova d’accordo il leader della Cgil Guglielmo Epifani: «Lo sosterremo».
Ma quando Bossi comincia, sui banchi dell’opposizione, che sono più
pieni di quelli della maggioranza, c’è grande attenzione. Prima
si ferma a dire che le obiezioni di chi non vuole la devolution «sono
simili a chi, alla fine degli anni Sessanta, contestava l’introduzione
delle Regioni nel nostro ordinamento». Rassicura quindi che la nuova
legge costituzionale «non vuole distruggere la solidarietà»
e che «ogni catastrofismo è fuori luogo». Spiega, da
ministro, che «si tratta di norme aggiuntive» e non «sostitutive»
della Costituzione. Poi però, da leader del Carroccio, lancia un
attacco a tutto campo contro «gli interventi intolleranti e razzisti
contro il Nord» che a suo giudizio erano stati espressi in mattinata
dall’opposizione: «Come se il Settentrione non avesse dato non dico
una ma dieci mani al Sud del Paese». E qui colloca la sua lettura
del Risorgimento: «È il Nord che ha unito l’Italia. I Mille
erano soprattutto bergamaschi e bresciani». Infine, arriva l’apertura
al Sud: «Oggi, accanto a Pontida e al Leone di San Marco si uniscono
i Vespri Siciliani a chiedere il federalismo». L’opposizione insorge
e rispedisce l’accusa al mittente: «E’ Bossi ad avere usato parole
razziste».
L’IMBARAZZO DI AN - Quando Bossi passa all’esaltazione del ruolo svolto
dal Nord durante il Risorgimento, si avverte il gelo sui banchi di An:
nessun applauso. Anzi, qualcuno scuote la testa. E non solo Domenico Fisichella
che già il giorno prima si era pronunciato contro. Si nota l’uscita
dall’Aula di due senatori. Alla fine il capogruppo Domenico Nania, pur
minimizzando («si tratta di una delle tante letture del Risorgimento»),
non a caso rivendica il ruolo del suo partito nella coalizione: «Non
c’è da preoccuparsi. Finchè c’è la destra non si corre
alcun pericolo per l’unità d’Italia. E poi tutti sanno che il prossimo
passo sarà il presidenzialismo». Riforma che Umberto Bossi
colloca però dopo la nuova Consulta e il Senato delle Regioni. E
sulla devolution arriva anche un avvertimento del ministro dell’Interno
Giuseppe Pisanu: «Il sistema di sicurezza è e rimarrà
unitario e indivisibile».
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