Riforme Istituzionali
Osservatorio sulla devolution
 
Rassegna stampa
 
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Lombardia: Referendum "devolution" - rassegna stampa da il manifesto 19 settembre 2000
 

 Le nebbie della devolution
 
 Nel programma di Formigoni, tappa dopo tappa, nascita e evoluzione della  "devolution". La lenta, inesorabile strada dell'egoismo, dell'abbandono della solidarietà  del pluralismo e perfino della democrazia, verso una malintesa "lombardità". Che  sostituisce ai diritti del lavoro il diritto d'impresa, che spinge sul mercato lo stato  sociale: salute, scuola, polizia. Dopo il successo elettorale del centro destra ecco i  referendum anticostituzionali
 
MARIO AGOSTINELLI (segretario generale Cgil Lombardia )
 
 L' intensità provocatoria con la quale il presidente Formigoni aggredisce l'opinione pubblica sulla portata nazionale, esemplare, di rottura delle iniziative della sua giunta, ha alle spalle un lavoro intenso ed un impianto culturale che erano già annunciati nel suo programma di legislatura, corroborato da un vasto retroterra di alleanze e di accordi di potere, dei quali quello tra Berlusconi e Bossi è solo il più impressionante sul terreno squisitamente politico.
 II programma della VII legislatura presentato da Formigoni il 16 giugno scorso, discusso in consiglio e nemmeno portato in approvazione, è un testo di forte coerenza interna, ispirato a principi molto riconoscibili, frutto di una elaborazione organica, saldamente ancorato all'ideologia, in continuità con alcuni annunci della passata legislatura contrastati dal sindacato unitariamente e, anche per questa ragione, non compiutamente fin qui realizzati sul terreno amministrativo. Un programma inteso come contratto stipulato tra i cittadini della Lombardia ed il loro presidente, con un rapporto fiduciario diretto, in  base al quale le elezioni con il loro risultato dovrebbero già aver chiuso, una volta per tutte la partita politico-amministrativa. Al punto che i cittadini lombardi, la cui sovranità e partecipazione arretrano paurosamente, sarebbero ridotti a spettatori di una recita dalla quale è estromessa ogni rappresentanza politica, istituzionale, sociale. Nessuna dialettica viene aperta con governo e parlamento nazionale, opposizione in consiglio, enti locali, sindacato. Tutto cioè, tranne che quell'autogoverno dei cittadini lombardi, che era l'orizzonte propagandato nella campagna elettorale.

 Così l'indizione di un referendum sulla devolution non deve sorprendere: è un colpo di maglio annunciato dentro una strategia che incontra ancora sottovalutazioni e tatticismi e che invece va colta per le sue pericolosissime implicazioni sul terreno della convivenza e della rimessa in discussione dello stesso patto sociale entro cui opera. Ha ragione Amato a sollevare dubbi di costituzionalità, e Gianni Ferrara a mettere in guardia sui pericoli che corrono i diritti sociali e
 l'eguaglianza tra i cittadini. Anche perché non va dimenticato quanto già la funzione redistributiva dello stato si stia spostando dal centro verso le regioni e quanto questo processo assume caratteri di iniquità sotto la spinta della giunta di centrodestra.
 Riprendo qui alcune considerazioni sul programma di Formigoni già sottoposte all'attenzione del direttivo della Cgil lombarda del 21 giugno scorso e che rischiano di non emergere a sufficienza se le questioni interne al sindacato prevalgono sui contenuti.

 L'azione della giunta pretende di identificarsi con una "lombardità" che è "una visione del mondo". Si parla di "storia peculiare della Lombardia, cerniera tra Occidente, Centro Europa, Mediterraneo". Ci si lamenta di quanto le energie della Lombardia, "che ha anticipato le linee di sviluppo politico, sociale ed economico del paese", siano state compresse da uno stato centralista e burocratico. Si arriva addirittura all'insolenza quando si afferma che la giunta vuole che la Lombardia continui ad essere la "locomotiva che trascina il peso di tutti gli altri "vagoni" del treno nazionale". Una Lombardia che, quindi, eccelle se sta fuori dall'Italia e che, se benevolmente ne trascina il fardello, necessita di sgravarsi di zavorre improprie con il trucco della devolution.
 Le regioni sono definite "soggetti politici", prima ancora che amministrativi. Soggetti cui si vogliono trasferire responsabilità oggi in capo al governo della Repubblica, come frutto di una elaborazione nazionale con una base culturale, sociale e politica che non si può impunemente frammentare. Lo schema individuato è quello di un centralismo delle regioni, di una collaborazione con ridotta autonomia di comuni e provincie e di un autodissolvimento dello stato. A livello centrale per Formigoni c'è solo il governo, mai il parlamento o la Repubblica. E mentre la regione sarebbe legittimata dal voto del popolo lombardo, il governo nazionale, in questa vulgata, risulta a stento sopportato come se non avesse autorità di emanazione popolare.
 In effetti, i diritti del popolo sono, "in analogia con gli Svizzeri" - così è scritto - esigibili soprattutto o solo tramite referendum. Non si capisce, in realtà, di cosa i lombardi siano sovrani, se non nel trasferimento di poteri all'atto delle elezioni dei loro governanti, e nemmeno come tutto ciò possa convivere con i poteri che emanano dalla costituzione repubblicana. La devoluzione allora - intesa come trasferimento di poteri politici ed economici dal governo alle regioni - funzionerebbe come leva nel passaggio di fase storico-politica attuale e richiederebbe, per realizzare i suoi obiettivi finali, una completa autonomia di imposizione fiscale da parte della regione sulle materie devolute: sanità, scuola, formazione professionale, polizia locale e sicurezza.
 Si può ritenere non anticostituzionale questo progetto? E, per dirla con Rusconi, il voto referendario non è semplicemente una carta bianca per Formigoni e Bossi? In questo quadro, l'alleanza programmatica ed il coordinamento tra gli autoproclamatosi "governatori" di Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria e Friuli, agirebbe come un contropotere del Nord contro la politica economica e sociale del governo nazionale e le linee di riforma che il parlamento, nella sua sovranità, potrebbe adottare in tema di federalismo. Cosa avverrebbe, allora, del federalismo solidale che Cgil-Cisl-Uil hanno posto al centro della loro manifestazione del 20 settembre 1997 contro il secessionismo?

 Solo apparentemente la centralità attribuita nel programma della giunta lombarda al lavoro può rassicurare. In effetti, lì, non c'è alcun cenno al lavoro come diritto od ai diritti del lavoro; si apparenta invece il lavoro alla libertà d'impresa ed alla libertà di cultura e d'innovazione, in ragione delle quali si chiede alle parti sociali di operare per il massimo di flessibilizzazione nell'organizzazione del lavoro. L'idea che sia pubblico tutto quanto offre un servizio "accessibile e valido per tutti", chiarisce verso quale profilo di welfare locale ci si stia muovendo in Lombardia.
 Con un linguaggio sessantottino riscoperto ed aggiornato si distingue la "libertà da" dalla "libertà di". Ma, al contrario della polemica che allora contraddistingueva Don Giussani nell'attacco alle posizioni marxiste, non c'è più l'ombra delle aspirazioni di Gioventù Studentesca, ma una incredibile deriva verso l'antistatalismo e l'antipartitismo di maniera. E' la burocrazia il fardello da cui ci si deve liberare e la mobilità e l'imprenditorialità l'obiettivo cui anelare se cadono lacci e lacciuoli. La sussidiarietà è il metodo per raggiungere gli obiettivi proposti e la libertà di scelta è la molla che spinge sul mercato diritti costituzionali, pezzi decisivi dello stato sociale, come quello alla salute e all'istruzione che si vorrebbero "devoluti". Perché mai ferite così profonde alla cultura ed alla tradizione politica e sociale della nostra regione dovrebbero passare nel silenzio? Si direbbe che l'accelerazione seguita al successo elettorale del centro destra sia dirompente e che le mediazioni ricercate nella passata legislatura siano infrante dall'assunzione di un ruolo politico nazionale del leader lombardo.
 Credo che la stagione delle riforme dei primi anni '70, conseguente ad uno straordinario ruolo assunto dal mondo del lavoro, siano sotto attacco da due versanti, tra loro forse convergenti, ma oggi ancora non coincidenti: 1) - lo spirito ultra liberista sostenuto direttamente dalla Confindustria di D'Amato, che ha trovato un coagulo nel programma, per ora respinto ma non abbandonato, dei referendum radicali; 2) - la fertilità legislativa che ha il suo motore in Lombardia ed unisce matrice liberale e tradizione religiosa conservatrice, libertà di impresa, reti di associazionismo privato e confessionale, e che persegue una destrutturazione del pubblico ed una sua riduzione a rete minima, indirizzando così, con "mano leggera" le enormi risorse liberate dai processi conseguenti alla metamorfosi del mondo del lavoro soprattutto al Nord.
 Occorre, a mio parere, essere avvisati di un nuovo modo, non meno pericoloso, di mettere ai margini la rappresentanza del mondo del lavoro, almeno come la Cgil l'ha fin qui intesa e come la sinistra ha cercato di rappresentarla per un lungo periodo. Deve preoccupare una linea organica ed aggressiva all'idea di stato democratico che subisce l'influenza di Bossi e - lo dico senza timore a segnalarne il pericolo - mette in relazione per la prima volta dentro i meccanismi istituzionali e di potere l'integralismo confessionale più pragmatico con l'integralismo etnico della destra, il cui connubio è guardato con interesse sicuro dall'esperienza austriaca che il Nord continua a blandire.

 La diminuzione della democrazia, l'affidamento dello sviluppo soltanto all'impresa, il ripiegamento pubblico nello stato sociale sono segnali già sviluppati dalla giunta lombarda, ma fino a qualche mese fa ancora interni ad un tratto soltanto "conservatore". C'è invece nell'ultimo Formigoni un tratto di discontinuità che consiste nel mettere al centro dell'agire politico l'idea di un territorio e del popolo che vi si identifica come organismo autonomo e come forma primaria ed esclusiva di socializzazione umana. Un'idea che inquieta, se si riflette sulla contemporaneità del voto sulla devolution e sulla visita di Roberto Formigoni negli Stati Uniti come ambasciatore di un modello economico e sociale lombardo in costruzione.
 Sono la solidarietà e il pluralismo sociale che vengono intaccati. E' il mondo multiculturale che viene messo in discussione. E' la cultura del lavoro, pur così forte in Lombardia, che va in sottotono. E' la concorrenza con gli stranieri che esige vere e proprie barriere ed è perciò che si deve liberare lo "stato lombardo" da doveri di accoglienza, fissare quote alle frontiere e perfino depotenziare una scuola pubblica pluralista. Così, però, si possono aprire conflitti molto seri, mentre si feriscono la cultura e la tradizione politico-sociale della Lombardia: perciò le risorse per una risposta civile e determinata all'altezza del disegno regressivo non devono più esitare.
 



 
 Un finto colpo di mano
 
 ANDREA COLOMBO

 Per Silvio Berlusconi i referendum consultivi sul federalismo sono prima di tutto una abile mossa propagandistica. In queste cose, il partito di Arcore sa il fatto suo. Nel nord, i referendum della Casa delle libertà avranno probabilmente il loro effetto trainante sulle elezioni, e per re Silvio questo è l'importante. Di fronte a una simile considerazione perde ovviamente ogni significato l'accusa di procedere per via plebiscitaria quando si sarebbero tranquillamente potuti presentare alcuni ddl.
 La tentazione di un colpo di mano per forzare le scelte del parlamento, almeno per ora occupa una postazione di secondo piano nei calcoli della destra. La Casa delle libertà prevede di vincere le prossime elezioni. In tal caso, si può star certi che il disegno referendario imboccherebbe la più classica tra le vie parlamentari.
 Va da sé che i referendum consultivi possono rappresentare uno strumento di pressione molto forte: di qui l'accusa di voler imporre al parlamento un progetto di riforma. Ma, almeno sino alle elezioni, la Casa delle libertà certo non mira a premere sulle camere per costringerle ad accettare la sua riforma. Al contrario, l'obiettivo è svuotare sin dai blocchi di partenza la legge sul federalismo che va in discussione oggi, e che il centrosinistra voleva usare come prova della sua efficienza negli ultimi mesi di campagna elettorale. Inoltre, contrapponendo il "vero" federalismo referendario a quello "fasullo" dell'Ulivo, la Casa delle libertà mira ad allargare la frattura che già c'è tra il centrosinistra e la maggioranza degli elettori del nord.
 Proprio per questo risulta un po' stridente una campagna antireferendaria appuntata assai più sull'aspetto formale che su quello sostanziale della faccenda. La trovata di Berlusconi e Bossi è stata messa all'indice più per le modalità attraverso cui si snoda che per i suoi contenuti concreti. Dovrebbe essere il contrario. Forme di pressioni dal basso, in fondo, fanno parte del gioco democratico anche nella più parlamentare delle repubbliche. Una formazione che mantiene nel suo nome la parola "sinistra" dovrebbe tollerarle, sia pure con la dovuta cautela, e stangare invece con il massimo allarme un progetto federalista che aumenterebbe il baratro già largo tra chi ha e chi non ha.
 Il fatto che così non sia spiega molto sulla crisi dell'attuale maggioranza. Sul federalismo versione nordica, la Quercia (a differenza di altre forze dell'Ulivo) non sa cosa dire. Teme di inimicarsi una parte della sua già ridotta base elettorale, ma ha altrettanta paura di apparire in rotta di collisione con le mitiche "fasce produttive e innovative".
 Anche al suo interno è profondamente divisa. Dunque glissa più che può sul merito e appunta gli strali sul metodo. Che poi l'escamotage funzioni, però, è tutto da dimostrare.



 
Devolution in salsa verde
 
GIANFRANCO BETTIN
 

 Anche a Nordest, e in particolare nel Veneto, la settimana è stata  segnata fortemente dalla questione del referendum sulla "devolution".
 Ieri a Venezia, nel Padania Day , migliaia di leghisti hanno marciato verso il palco di Bossi, in Riva dei Sette Martiri, convintissimi che la convocazione dei referendum ad opera dei consigli regionali di Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria segnerà una svolta radicale. Non è importante, ora, discutere se questo sarà vero: conta invece segnalare lo stato d'animo, la fiducia che contraddistinguevano migliaia di persone.
 E' questo il dato politico di una giornata - e di una settimana - altrimenti solo folkloristica. Bossi ululava, dal palco, le sue oscenità, dava dei nazisti a quelli di sinistra - sulla Riva intitolata ai nostri Martiri antinazisti - e proseguiva con i deliri contro i gay - "giù le mani dai bambini" - proprio mentre metteva le sue addosso a due o tre piccini agghindati in verde, con stemmini e simboli padani esattamente come avveniva sotto Stalin, per guidarli nel versamento dell'acqua del Po.
 Questo ciarpame grottesco e inquietante rischia di nascondere, tuttavia, la sostanza vera della mobilitazione leghista, che si è incentrata, per la prima volta da qualche anno, su un obiettivo e un orizzonte precisi, disegnati appunto dal referendum sulla devolution destinato, nella visione di Bossi, a marcare in modo indelebile l'attesa vittoria alle elezioni politiche. Bossi, imponendo alle Regioni conquistate con l'alleanza col Polo, una prospettiva di mobilitazione pur demagogica e velleitaria sul fronte della devolution, ha riaperto uno spazio politico e di mobilitazione e aggregazione ideologica per le frastornate e spaesate masse padane degli ultimi anni. Bastava vederle domenica a Venezia.
 Bossi ha fatto il contrario di quanto fecero i leaders nazionali dell'Ulivo a suo tempo. Nel 1997 il centrosinistra aveva riconquistato quasi tutte le grandi città d'Italia. L'Ulivo, giunto al governo miracolosamente nel 1996, poteva così contare su una rete di amministrazioni locali con le quali dialogare e costruire la prospettiva sensatamente federalista che tutti, a parole, volevano. Cosa successe invece? I sindaci, che spingevano per il federalismo, vennero invitati a non disturbare il manovratore e carinamente chiamati "cacicchi". Un po' dopo, Amato li definirà il movimento non delle autonomie locali ma delle "cento padelle".
 Incazzature e depressioni, nel nord e soprattutto a nordest, caratterizzeranno così da allora il rapporto tra il governo di centrosinistra e le realtà locali, soprattutto quelle così credibili da riuscire a conquistare spazio e peso e governi locali anche nel nord. Con in mano molto meno, solo qualche "governatore", la Lega, con il Polo, è riuscita invece a rimotivare il proprio popolo, sia pure con contorno di oscenità, risospingendolo al centro di uno spazio ancora molto grande che ha visto il centrosinistra incapace di una proposta efficace e credibile. Non sarà con l'ennesima scomunica - di cui Bossi gode come di un formidabile sport a proprio favore - che si sconfiggerà la trucida rimonta di uno schieramento al cui confronto perfino Haider sembra quasi un moderato.


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