Così l'indizione di un referendum sulla devolution non
deve sorprendere: è un colpo di maglio annunciato dentro una strategia
che incontra ancora sottovalutazioni e tatticismi e che invece va colta
per le sue pericolosissime implicazioni sul terreno della convivenza e
della rimessa in discussione dello stesso patto sociale entro cui opera.
Ha ragione Amato a sollevare dubbi di costituzionalità, e Gianni
Ferrara a mettere in guardia sui pericoli che corrono i diritti sociali
e
l'eguaglianza tra i cittadini. Anche perché non va dimenticato
quanto già la funzione redistributiva dello stato si stia spostando
dal centro verso le regioni e quanto questo processo assume caratteri di
iniquità sotto la spinta della giunta di centrodestra.
Riprendo qui alcune considerazioni sul programma di Formigoni
già sottoposte all'attenzione del direttivo della Cgil lombarda
del 21 giugno scorso e che rischiano di non emergere a sufficienza se le
questioni interne al sindacato prevalgono sui contenuti.
L'azione della giunta pretende di identificarsi con una "lombardità"
che è "una visione del mondo". Si parla di "storia peculiare della
Lombardia, cerniera tra Occidente, Centro Europa, Mediterraneo". Ci si
lamenta di quanto le energie della Lombardia, "che ha anticipato le linee
di sviluppo politico, sociale ed economico del paese", siano state compresse
da uno stato centralista e burocratico. Si arriva addirittura all'insolenza
quando si afferma che la giunta vuole che la Lombardia continui ad essere
la "locomotiva che trascina il peso di tutti gli altri "vagoni" del treno
nazionale". Una Lombardia che, quindi, eccelle se sta fuori dall'Italia
e che, se benevolmente ne trascina il fardello, necessita di sgravarsi
di zavorre improprie con il trucco della devolution.
Le regioni sono definite "soggetti politici", prima ancora che
amministrativi. Soggetti cui si vogliono trasferire responsabilità
oggi in capo al governo della Repubblica, come frutto di una elaborazione
nazionale con una base culturale, sociale e politica che non si può
impunemente frammentare. Lo schema individuato è quello di un centralismo
delle regioni, di una collaborazione con ridotta autonomia di comuni e
provincie e di un autodissolvimento dello stato. A livello centrale per
Formigoni c'è solo il governo, mai il parlamento o la Repubblica.
E mentre la regione sarebbe legittimata dal voto del popolo lombardo, il
governo nazionale, in questa vulgata, risulta a stento sopportato come
se non avesse autorità di emanazione popolare.
In effetti, i diritti del popolo sono, "in analogia con gli Svizzeri"
- così è scritto - esigibili soprattutto o solo tramite referendum.
Non si capisce, in realtà, di cosa i lombardi siano sovrani, se
non nel trasferimento di poteri all'atto delle elezioni dei loro governanti,
e nemmeno come tutto ciò possa convivere con i poteri che emanano
dalla costituzione repubblicana. La devoluzione allora - intesa come trasferimento
di poteri politici ed economici dal governo alle regioni - funzionerebbe
come leva nel passaggio di fase storico-politica attuale e richiederebbe,
per realizzare i suoi obiettivi finali, una completa autonomia di imposizione
fiscale da parte della regione sulle materie devolute: sanità, scuola,
formazione professionale, polizia locale e sicurezza.
Si può ritenere non anticostituzionale questo progetto?
E, per dirla con Rusconi, il voto referendario non è semplicemente
una carta bianca per Formigoni e Bossi? In questo quadro, l'alleanza programmatica
ed il coordinamento tra gli autoproclamatosi "governatori" di Lombardia,
Veneto, Piemonte, Liguria e Friuli, agirebbe come un contropotere del Nord
contro la politica economica e sociale del governo nazionale e le linee
di riforma che il parlamento, nella sua sovranità, potrebbe adottare
in tema di federalismo. Cosa avverrebbe, allora, del federalismo solidale
che Cgil-Cisl-Uil hanno posto al centro della loro manifestazione del 20
settembre 1997 contro il secessionismo?
Solo apparentemente la centralità attribuita nel programma
della giunta lombarda al lavoro può rassicurare. In effetti, lì,
non c'è alcun cenno al lavoro come diritto od ai diritti del lavoro;
si apparenta invece il lavoro alla libertà d'impresa ed alla libertà
di cultura e d'innovazione, in ragione delle quali si chiede alle parti
sociali di operare per il massimo di flessibilizzazione nell'organizzazione
del lavoro. L'idea che sia pubblico tutto quanto offre un servizio "accessibile
e valido per tutti", chiarisce verso quale profilo di welfare locale ci
si stia muovendo in Lombardia.
Con un linguaggio sessantottino riscoperto ed aggiornato si distingue
la "libertà da" dalla "libertà di". Ma, al contrario della
polemica che allora contraddistingueva Don Giussani nell'attacco alle posizioni
marxiste, non c'è più l'ombra delle aspirazioni di Gioventù
Studentesca, ma una incredibile deriva verso l'antistatalismo e l'antipartitismo
di maniera. E' la burocrazia il fardello da cui ci si deve liberare e la
mobilità e l'imprenditorialità l'obiettivo cui anelare se
cadono lacci e lacciuoli. La sussidiarietà è il metodo per
raggiungere gli obiettivi proposti e la libertà di scelta è
la molla che spinge sul mercato diritti costituzionali, pezzi decisivi
dello stato sociale, come quello alla salute e all'istruzione che si vorrebbero
"devoluti". Perché mai ferite così profonde alla cultura
ed alla tradizione politica e sociale della nostra regione dovrebbero passare
nel silenzio? Si direbbe che l'accelerazione seguita al successo elettorale
del centro destra sia dirompente e che le mediazioni ricercate nella passata
legislatura siano infrante dall'assunzione di un ruolo politico nazionale
del leader lombardo.
Credo che la stagione delle riforme dei primi anni '70, conseguente
ad uno straordinario ruolo assunto dal mondo del lavoro, siano sotto attacco
da due versanti, tra loro forse convergenti, ma oggi ancora non coincidenti:
1) - lo spirito ultra liberista sostenuto direttamente dalla Confindustria
di D'Amato, che ha trovato un coagulo nel programma, per ora respinto ma
non abbandonato, dei referendum radicali; 2) - la fertilità legislativa
che ha il suo motore in Lombardia ed unisce matrice liberale e tradizione
religiosa conservatrice, libertà di impresa, reti di associazionismo
privato e confessionale, e che persegue una destrutturazione del pubblico
ed una sua riduzione a rete minima, indirizzando così, con "mano
leggera" le enormi risorse liberate dai processi conseguenti alla metamorfosi
del mondo del lavoro soprattutto al Nord.
Occorre, a mio parere, essere avvisati di un nuovo modo, non
meno pericoloso, di mettere ai margini la rappresentanza del mondo del
lavoro, almeno come la Cgil l'ha fin qui intesa e come la sinistra ha cercato
di rappresentarla per un lungo periodo. Deve preoccupare una linea organica
ed aggressiva all'idea di stato democratico che subisce l'influenza di
Bossi e - lo dico senza timore a segnalarne il pericolo - mette in relazione
per la prima volta dentro i meccanismi istituzionali e di potere l'integralismo
confessionale più pragmatico con l'integralismo etnico della destra,
il cui connubio è guardato con interesse sicuro dall'esperienza
austriaca che il Nord continua a blandire.
La diminuzione della democrazia, l'affidamento dello sviluppo
soltanto all'impresa, il ripiegamento pubblico nello stato sociale sono
segnali già sviluppati dalla giunta lombarda, ma fino a qualche
mese fa ancora interni ad un tratto soltanto "conservatore". C'è
invece nell'ultimo Formigoni un tratto di discontinuità che consiste
nel mettere al centro dell'agire politico l'idea di un territorio e del
popolo che vi si identifica come organismo autonomo e come forma primaria
ed esclusiva di socializzazione umana. Un'idea che inquieta, se si riflette
sulla contemporaneità del voto sulla devolution e sulla visita di
Roberto Formigoni negli Stati Uniti come ambasciatore di un modello economico
e sociale lombardo in costruzione.
Sono la solidarietà e il pluralismo sociale che vengono
intaccati. E' il mondo multiculturale che viene messo in discussione. E'
la cultura del lavoro, pur così forte in Lombardia, che va in sottotono.
E' la concorrenza con gli stranieri che esige vere e proprie barriere ed
è perciò che si deve liberare lo "stato lombardo" da doveri
di accoglienza, fissare quote alle frontiere e perfino depotenziare una
scuola pubblica pluralista. Così, però, si possono aprire
conflitti molto seri, mentre si feriscono la cultura e la tradizione politico-sociale
della Lombardia: perciò le risorse per una risposta civile e determinata
all'altezza del disegno regressivo non devono più esitare.
Per Silvio Berlusconi i referendum consultivi sul federalismo
sono prima di tutto una abile mossa propagandistica. In queste cose, il
partito di Arcore sa il fatto suo. Nel nord, i referendum della Casa delle
libertà avranno probabilmente il loro effetto trainante sulle elezioni,
e per re Silvio questo è l'importante. Di fronte a una simile considerazione
perde ovviamente ogni significato l'accusa di procedere per via plebiscitaria
quando si sarebbero tranquillamente potuti presentare alcuni ddl.
La tentazione di un colpo di mano per forzare le scelte del parlamento,
almeno per ora occupa una postazione di secondo piano nei calcoli della
destra. La Casa delle libertà prevede di vincere le prossime elezioni.
In tal caso, si può star certi che il disegno referendario imboccherebbe
la più classica tra le vie parlamentari.
Va da sé che i referendum consultivi possono rappresentare
uno strumento di pressione molto forte: di qui l'accusa di voler imporre
al parlamento un progetto di riforma. Ma, almeno sino alle elezioni, la
Casa delle libertà certo non mira a premere sulle camere per costringerle
ad accettare la sua riforma. Al contrario, l'obiettivo è svuotare
sin dai blocchi di partenza la legge sul federalismo che va in discussione
oggi, e che il centrosinistra voleva usare come prova della sua efficienza
negli ultimi mesi di campagna elettorale. Inoltre, contrapponendo il "vero"
federalismo referendario a quello "fasullo" dell'Ulivo, la Casa delle libertà
mira ad allargare la frattura che già c'è tra il centrosinistra
e la maggioranza degli elettori del nord.
Proprio per questo risulta un po' stridente una campagna antireferendaria
appuntata assai più sull'aspetto formale che su quello sostanziale
della faccenda. La trovata di Berlusconi e Bossi è stata messa all'indice
più per le modalità attraverso cui si snoda che per i suoi
contenuti concreti. Dovrebbe essere il contrario. Forme di pressioni dal
basso, in fondo, fanno parte del gioco democratico anche nella più
parlamentare delle repubbliche. Una formazione che mantiene nel suo nome
la parola "sinistra" dovrebbe tollerarle, sia pure con la dovuta cautela,
e stangare invece con il massimo allarme un progetto federalista che aumenterebbe
il baratro già largo tra chi ha e chi non ha.
Il fatto che così non sia spiega molto sulla crisi dell'attuale
maggioranza. Sul federalismo versione nordica, la Quercia (a differenza
di altre forze dell'Ulivo) non sa cosa dire. Teme di inimicarsi una parte
della sua già ridotta base elettorale, ma ha altrettanta paura di
apparire in rotta di collisione con le mitiche "fasce produttive e innovative".
Anche al suo interno è profondamente divisa. Dunque glissa
più che può sul merito e appunta gli strali sul metodo. Che
poi l'escamotage funzioni, però, è tutto da dimostrare.
Anche a Nordest, e in particolare nel Veneto, la settimana è
stata segnata fortemente dalla questione del referendum sulla "devolution".
Ieri a Venezia, nel Padania Day , migliaia di leghisti hanno
marciato verso il palco di Bossi, in Riva dei Sette Martiri, convintissimi
che la convocazione dei referendum ad opera dei consigli regionali di Veneto,
Lombardia, Piemonte e Liguria segnerà una svolta radicale. Non è
importante, ora, discutere se questo sarà vero: conta invece segnalare
lo stato d'animo, la fiducia che contraddistinguevano migliaia di persone.
E' questo il dato politico di una giornata - e di una settimana
- altrimenti solo folkloristica. Bossi ululava, dal palco, le sue oscenità,
dava dei nazisti a quelli di sinistra - sulla Riva intitolata ai nostri
Martiri antinazisti - e proseguiva con i deliri contro i gay - "giù
le mani dai bambini" - proprio mentre metteva le sue addosso a due o tre
piccini agghindati in verde, con stemmini e simboli padani esattamente
come avveniva sotto Stalin, per guidarli nel versamento dell'acqua del
Po.
Questo ciarpame grottesco e inquietante rischia di nascondere,
tuttavia, la sostanza vera della mobilitazione leghista, che si è
incentrata, per la prima volta da qualche anno, su un obiettivo e un orizzonte
precisi, disegnati appunto dal referendum sulla devolution destinato, nella
visione di Bossi, a marcare in modo indelebile l'attesa vittoria alle elezioni
politiche. Bossi, imponendo alle Regioni conquistate con l'alleanza col
Polo, una prospettiva di mobilitazione pur demagogica e velleitaria sul
fronte della devolution, ha riaperto uno spazio politico e di mobilitazione
e aggregazione ideologica per le frastornate e spaesate masse padane degli
ultimi anni. Bastava vederle domenica a Venezia.
Bossi ha fatto il contrario di quanto fecero i leaders nazionali
dell'Ulivo a suo tempo. Nel 1997 il centrosinistra aveva riconquistato
quasi tutte le grandi città d'Italia. L'Ulivo, giunto al governo
miracolosamente nel 1996, poteva così contare su una rete di amministrazioni
locali con le quali dialogare e costruire la prospettiva sensatamente federalista
che tutti, a parole, volevano. Cosa successe invece? I sindaci, che spingevano
per il federalismo, vennero invitati a non disturbare il manovratore e
carinamente chiamati "cacicchi". Un po' dopo, Amato li definirà
il movimento non delle autonomie locali ma delle "cento padelle".
Incazzature e depressioni, nel nord e soprattutto a nordest,
caratterizzeranno così da allora il rapporto tra il governo di centrosinistra
e le realtà locali, soprattutto quelle così credibili da
riuscire a conquistare spazio e peso e governi locali anche nel nord. Con
in mano molto meno, solo qualche "governatore", la Lega, con il Polo, è
riuscita invece a rimotivare il proprio popolo, sia pure con contorno di
oscenità, risospingendolo al centro di uno spazio ancora molto grande
che ha visto il centrosinistra incapace di una proposta efficace e credibile.
Non sarà con l'ennesima scomunica - di cui Bossi gode come di un
formidabile sport a proprio favore - che si sconfiggerà la trucida
rimonta di uno schieramento al cui confronto perfino Haider sembra quasi
un moderato.