ROMA - A volte ritornano, sotto spoglie talmente nuove da risultare irriconoscibili. Perfino a mamma e papà. E’ la parabola dei referendum: morti ufficialmente il 21 maggio scorso per mancanza di quorum e risorti un paio di giorni fa con la decisione della Regione Lombardia di tornare al popolo per instaurare la "devolution". Terra di paradossi, quella referendaria.
A dimostrarlo c’è lo scontro a ruoli invertiti tra i duellanti dei due poli. Il centrodestra che cinque mesi fa aveva suonato la grancassa, invitando a disertare le urne, adesso cavalca la conquista delle Regioni del Nord governate dalla Casa delle libertà. Il centrosinistra che faceva rullare i tamburi, invitando a salvare il maggioritario, adesso cannoneggia il referedum che porta la firma di Formigoni.
Dimostrazione? Marco Pannella, che sulla carta dovrebbe illuminarsi di gioia referendaria, è in preda ad eloquente sbadiglio: «E che cambia? Quelli annunciati da Berlusconi sono plebisciti e come tali anti-referendum». Prego? «Ma sì, il Cavaliere ci ha spiegato per mesi che i referendum erano comunisti e che bisognava stare a casa per mandarli a casa -incalza il leader radicale- e poi, prima delle Regionali, ha mandato all’aria l’alleanza con noi, che pure gli proponevamo di sposare il federalismo americano e referendum svizzeri, cioè incisivi e legislativi».
Va bene il sano spirito di parte del barricadero Pannella. Il guaio è che fior di esperti, stavolta, dubitano che di risorgimento vero si tratti. Augusto Barbera, diessino d’area e costituzionalista di fede referendaria, smonta l’equivoco del momento con un distinguo: «Quello lombardo non è referendum ma un plebiscito». Pannelleggia anche il professore? «La differenza è semplice: il primo è uno strumento di controllo sul potere da parte degli elettori, il secondo è uno strumento del potere. Nel senso che al plebiscito ricorre un governo che sa di avere già consenso su una determinata materia, ma vuole renderlo esplicito per rafforzarsi». Vendette della storia: quello per sancire l’unità d’Italia fu, in senso tecnico, un plebiscito.
C’era dubbio che l’elettore d’allora - maschio e di ceto medio- magari dopo aver combattuto, votasse per il sì all’unificazione (già compiuta) del Regno?
Ora non si vuole insinuare che il Cavaliere imiti Cavour o Vittorio Emanuele. Anche perché è facile dimostrare come la prima responsabilità dell’enessimo referendum, anche se regionale, sia di fatto dovuta al flop del Parlamento in materia di riforme. Però un timore s’insinua tra i costituzionalisti. «C’è il rischio di prendere in giro gli elettori - denuncia l’ex presidente della Corte Costituzionale, Vincenzo Caianiello- Gli si fa credere che con il loro voto possano modificare di fatto una legislazione, dalla sanità alla polizia. Mentre invece fanno solo da rincalzo al potere politico, che così si sente rassicurato perché ha dietro di sè la forza di popolo». Il distinguo non è da poco. Caianiello chiarisce il punto: «Questi referendum servono a regolare materie sulle quali le Regioni hanno già competenza. Non danno alcun potere di legiferare in contrasto con le leggi- quadro nazionali». In una parola, non ampliano i poteri delle Regioni in materia di federalismo.
Ma sono davvero «referendum distruttivi e non costruttivi», come teme Mariotto Segni, leader oggi sfiduciato? Inutile negare che l’istituto referendum non goda più da tempo di buona salute, lo dimostrano le crepe all’interno dell’ex fronte promotore. «E’ uno strumento che ha forza in sè, solo che Pannella ne ha abusato, andrebbe riservato alle grandi occasioni e somministrato a piccole dosi», attacca Segni che addita lo strano silenzio di An davanti agli strappi dell’alleato Bossi.
Ce n’è abbastanza perché si intoni il de profundis per quarant’anni di battaglie nell’urna. «Certi referendum come quelli sulla devolution hanno ormai il valore di semplici sondaggi», allarga le braccia Caianiello. E aggiunge: «In democrazia il rispetto delle forme è fondamentale. Quindi attenti a sconcertare gli elettori. Sulla premiership del centrosinistra sta accadendo la stessa cosa. A furia di annunciare Rutelli candidato premier, la gente penserà che in caso di vittoria dell’Ulivo nessuno potrà schiodarlo da Palazzo Chigi. E invece nulla, cone le regole di oggi, impedisce alla stessa maggioranza e al Capo dello Stato di sostitutirlo in caso di crisi». Illussioni pericolose.
Per l’armata neo referendaria guidata dal Cavaliere, comunque, l’avversario più temibile rischia di restare il cosiddetto «fattore S». Dove «S» sta per scalogna, a giudicare dagli ultimi tonfi del quorum. L’antidoto lo fornisce, suo malgrado, lo stesso Pannella: «I referendum? Portano sfiga solo a chi vi si oppone...».