Corriere
della sera 21-09-2003
Conflitti Stato-Regioni, nessuna crescita dopo la riforma ulivista
Contrordine, compagni federalisti o pseudo tali: su quali basi e su
quali dati si continua a sostenere che la riforma del Titolo V della Costituzione
- che ha accresciuto e ridisegnato i poteri delle Regioni rispetto allo
Stato, riforma voluta dall’Ulivo nel 2001 e confermata da un referendum
- ha aumentato la litigiosità del potere periferico rispetto a quello
centrale, subissando la Corte Costituzionale di ricorsi e contenziosi e
duelli all’arma bianca sul filo di comma e codicilli? E siamo davvero sicuri
che la cosiddetta competenza legislativa concorrente - materie cioè
nelle quali sia lo Stato che le Regioni hanno facoltà di emanare
norme - sia la principale fonte di litigi davanti alla Consulta? No, non
che lo siano, almeno stando a sentire Luciano Vandelli, assessore all’Innovazione
nella giunta di centrosinistra dell’Emilia-Romagna e coordinatore per conto
di tutte le Regioni dell’area Affari Istituzionali: «Sono solo luoghi
comuni, falsità. Basta consultare i dati della Corte Costituzionale
per rendersi conto che la realtà è molto diversa e che la
riforma del Titolo V, che non a caso è la base di partenza del progetto
di riforma istituzionale del centrodestra, non è affatto causa di
confusione o sovrapposizione di competenze tra Stato e periferia».
Primo quesito: Regioni più litigiose che in passato? Parola ai numeri
della Corte. Risulta che a partire dal novembre del 2001, quando fu approvata
la riforma del Titolo V della Costituzione, alla fine di aprile 2003, sui
tavoli della Consulta sono planati 120 ricorsi. Di questi, 70 sono stati
presentati da ministri del governo Berlusconi nei confronti di leggi regionali
ritenute illegittime, mentre 50 sono quelle che portano la firma dei «governatori».
«Da sottolineare - precisa Vandelli - che i contenziosi innescati
dalle Regioni si concentrano per la maggior parte su pochi, ma rilevanti
interventi statali: la Finanziaria, la legge Obiettivo e i decreti a essa
collegati». Un confronto con il passato? Nel 1981, stando al rapporto
dell’allora ministro per gli Affari regionali, Aldo Aniasi, «i ricorsi
depositati dalle Regioni contro leggi statali ammontavano a 52».
Per non parlare poi degli anni Novanta: 73 contenziosi nel ’93, altrettanti
nel ’94, fino ad arrivare a 77 nel ’97. Il tutto, per una media che registra
56,8 ricorsi regionali annui tra il ’90 e il ’99 contro il 49 del periodo
post-riforma. Secondo quesito: perché il governo Berlusconi si serve
dello strumento del ricorso in misura maggiore di quanto sia mai stato
fatto in passato (una media del 15,2 negli anni Novanta contro l’attuale
46,6)? Soprattutto per una ragione tecnica, secondo Vandelli: «La
riforma del Titolo V ha soppresso il potere governativo di rinviare le
leggi regionali ritenute illegittime, bloccandone l’approvazione e condizionando
così le successive scelte del consiglio regionale». Privati
di tale strumento, «considerato sin dai tempi della Bicamerale intrusivo
e incompatibile con lo Stato delle autonomie», ai ministri non è
rimasta che l’opposizione davanti ai giudici costituzionali. Un’opposizione,
va riconosciuto, in parte anche alimentata dalle accelerazioni federaliste
o pseudo tali che hanno segnato, a volte anche in chiave demagogica, il
rapporto tra i «governatori» e il potere centrale. Terzo quesito:
da dove nasce la convinzione che siano le cosiddette competenze concorrenti
la fonte dei maggiori contrasti tra Stato e periferia? Le carte della Consulta
segnalano al contrario che il 35% dei ricorsi del governo e il 27% di quelli
regionali vertono su materie di competenza esclusiva, mentre i contenziosi
sulle competenze concorrenti si limitano al 17% per l’esecutivo e al 16%
per la periferia. Conclusione vandelliana: il federalismo è ancora
forse da costruire, ma la riforma del Titolo V non è quel diavolo
che molti hanno dipinto.
F. Alb.
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