Riforme Istituzionali
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il manifesto - 15/11/2000

Federalismo: il no della Consulta
Bocciato il referendum veneto, reazioni dal Polo. Ma sulla legge dice no Smuraglia (ds), e la Cgil

"L'Italia va avanti, la Consulta va indietro", riassume il presidente del Veneto Giancarlo Galan commentando la sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato per illegittimità il referendum regionale proposto nel 1998. Respinto dal governo, riapprovato dalla regione Veneto e impugnato presso la Consulta, vi si proponevano alcune forme di autonomia: una iniziativa propedeutica all'ultimo referendum deciso dal Veneto - e ugualmente respinto dal governo - sulla "devoluzione alle regioni dei compiti per sanità, istruzione, sicurezza".
Si sprecano le accuse di "centralismo e arretratezza", contro centrosinistra e Corte, che rinfocolano le polemiche tra i due poli sulla legge sul federalismo in discussione al senato. Gongola il ministro per gli Affari regionali Agazio Loriero, sottolineando la "sconfessione", confermata dalla Consulta, delle posizioni di Galan "volte a trasferire materie di rilevanza costituzionale dallo Stato alle Regioni per mezzo di un illegittimo strumento di consultazione popolare preventiva".
Contro il presidente del Polo Loriero insiste attaccando lo "strumento", ma dissensi e contrasti si aprono dentro lo stesso centrosinistra sul "contenuto" della proposta di legge della maggioranza in discussione in parlamento. Il senatore Carlo Smuraglia (Ds), presidente della commissione lavoro del senato, ha già annunciato il suo voto contrario sulla legge di riforma federale, denunciando il punto sulla "legislazione concorrente" tra stato e regioni dell'art.3 in particolare "sulla tutela e sicurezza del lavoro".
Smuraglia ha ricordato il percorso che ha portato al moderno diritto del lavoro: "non diritto dei rapporti tra due parti soltanto, ma diritto di tutela". Vi si intende difesa dai licenziamenti, diritti su orari, riposi, sulla maternità: una tutela "che oggi dovrebbe semmai compiere passi avanti comprendendo anche i lavori che ne sono esclusi", "unificando" i diritti. Quanto poi alla "sicurezza sul lavoro è ancora peggio", e Smuraglia ricorda il bilancio di morti e infortuni: impossibile consentire qui a una frammentazione regionale, al rischio di dumping sociale fra imprese per aree geografiche, letteralmente "sulla pelle dei lavoratori".
Al senato altri hanno avanzato dubbi - Carpi, Vertone Grimaldi - pur assicurando il voto a favore "a malincuore". Ma critiche decise al "federalismo sociale", al potere legislativo alle regioni sul mercato del lavoro, su istruzione e sanità, e sulla sussidiarietà "orizzontale" che fa ritrarre la garanzia (e la copertura finanziaria) pubblica dei diritti per sostituirla con la gestione privata, vengono dalla Cgil. Che organizza per il 30 novembre un convengo nazionale di due giorni a Torino.
Dalla segreteria di corso Italia si pronunciano all'unisono contro questo "germe disgregativo", sia Cofferati che Patta, il quale sottolinea il pericolo che lo stato si riduca a garantire solo "diritti minimi". E non a caso ieri Sergio Cofferati si è trovato a fronteggiare il federalismo padronale, per l'occasione sostenuto da Padoa Schioppa (Bce) con la proposta di eliminare il contratto nazionale in favore di quelli "territoriali", differenti per salari e diritti. Al no della Cgil, si è unita la dura replica del ministro del lavoro Salvi.



 
La Repubblica - 15/11/2000
 
PARLAMENTO SOVRANO CONTRO IL POPULISMO

di Andrea Manzella
 
NELLA spensierata tendenza di certi "governatori" a fare delle loro regioni tante piccole "repubbliche delle banane", la Corte costituzionale ha segnato un punto insuperabile di contraddizione. La bocciatura del referendum consultivo veneto è, innanzitutto, una bocciatura del populismo. L'unzione popolare come arma assoluta contro gli ordinamenti vigenti è condannata dalla Corte. Essa è vista come radicalmente opposta allo stesso concetto di sovranità popolare accolto e precisato dalla Costituzione, fin dal primo articolo. "La sovranità appartiene al popolo", dice l'articolo 1, ma è esercitata "nelle forme e nei limiti della Costituzione". Cercare un voto popolare per cambiare gli assetti costituzionali significa andare oltre questi limiti.

LA COSTITUZIONE, per la propria revisione, ammette una sola via: quella parlamentare. Solo se la maggioranza parlamentare è esigua, il popolo può essere chiamato al referendum, per confermare o smentire la decisione delle Camere. Altrimenti "la volontà del corpo elettorale viene raccolta e orientata contro la Costituzione, ponendone in discussione le stesse basi di consenso".
La sentenza è, poi, un forte richiamo al concetto di unità nazionale fondata su una base popolare indivisibile. Contro i tentativi di immaginare "popoli parziali", "frazioni autonome" insediate in porzioni del territorio nazionale, la Corte ricorda che, di fronte alla Costituzione, esiste "un solo popolo, che dà forma all'unità politica della nazione".
La sentenza è, infine, una riaffermazione della necessità di un quadro istituzionale unitario, anche in un ordinamento a tendenza federale. Il Parlamento repubblicano è la chiave di volta di questo quadro che comprende il presidente della Repubblica, il governo e la stessa Corte. È alla rappresentanza politico- parlamentare che è perciò rimessa ogni decisione sulle modifiche costituzionali.
E questa "riserva" di decisione parlamentare significa anche "riserva" di decisione dei consigli regionali nelle loro legittime iniziative di revisione. Senza aggravamenti però di appelli al popolo come "propulsore della innovazione costituzionale"...
Una sentenza, dunque, che si ricorderà: per molte e buone ragioni.
Perché è contro il diffondersi della convinzione che l' Italia "a pezze d'Arlecchino" sia la scelta migliore per il bene del Paese. E che dunque competere, non le opere civili e di cultura, ma nell'arraffare a colpi di referendum maggiori poteri e attribuzioni giuridiche, sia una gara vitale per le nostre regioni.
Perché è contro il veleno dell'antiparlamentarismo che anima sempre più vistosamente certa cultura di massa della nuova destra. Dall'ostruzionismo sistematico e onnivoro nelle aule parlamentari alla ricerca di "involucri", come dice la Corte, in cui raccogliere spinte populiste, "piccoli plebisciti" sostitutivi di tutto quello che è lo spirito dei Parlamenti.
Perché, dimostrando con la sua stessa portata la necessità di indipendenza della Corte costituzionale, si pone contro i ripetuti tentativi di regionalizzare la Corte stessa con nomine di parte, come se si trattasse di trasformarla in un collegio arbitrale tra Stato e Regioni.
Perché, infine, giunge tempestivamente a spiegare come e perché, contro l'anarchia e i dissesti dell'attuale non-ordinamento regionale, sia divenuto un "atto dovuto" il varo, in questo scorcio di legislatura, di un nuovo sistema delle autonomie territoriali.
A ben vedere, la sentenza della Corte, con la sua stessa gravità, rivolge oggettivamente un monito a quanti pervicacemente si oppongono a quel riordino. Non può giovare a nessuno il vuoto di regole.



 
La Repubblica - 15/11/2000
 
Formigoni e Maroni: "Avanti lo stesso"
Franceschini: "Visto? Il governo aveva ragione"

di Guido Passalacqua
 
MILANO - "Questa sentenza della Consulta mi sembra dimostrare in modo chiarissimo come sia necessario quello che vado chiedendo da tempo: all'interno della Corte Costituzionale ci devono essere giudici di nomina regionale". Roberto Formigoni, presidente polista della Regione Lombardia non è preoccupato per il referendum consultivo votato a luglio dal Consiglio regionale lombardo: "direi proprio che la decisione della Corte Costituzionale non ci tocca". A differenza del Veneto la Lombardia (e con lei il Piemonte) non ha proceduto attraverso una legge regionale ma usando un atto amministrativo.
Decisione che può essere impugnata da ogni cittadino lombardo di fronte al Tar regionale o dal Governo di fronte alla Corte Costituzionale. "Cosa che non mi risulta sia stata fatta e che mi auguro non sia fatta", spiega Formigoni, "visto che il nostro modo di procedere è corretto e che prima di partire abbiamo consultato dei costituzionalisti". Il presidente lombardo è scandalizzato: "Se mi permette il bisticcio qui non si tiene conto delle ragioni delle Regioni e si continua a dare una lettura minimalista e restrittiva della Carta costituzionale, non si tiene conto di come le cose sono cambiate a questo riguardo".
Una lettura non condivisa dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il popolare Dario Franceschini che esulta: "La sentenza della Corte spazza via in un colpo solo tutte le polemiche e le strumentalizzazioni seguite alla decisione del Governo di rinviare a nuovo esame del Veneto la proposta di referendum consultivo". Franceschini parla di "strumenti palesemente anticostituzionali solo per fare un po' di propaganda".
Gli risponde Roberto Maroni, numero due della Lega: "Quella della Corte è una interpretazione cavillosa che lascia perplessi". Maroni propone di modificare lo Statuto veneto uniformandolo a quello lombardo. Infatti secondo la Casa delle libertà le decisioni del Consiglio regionale lombardo non sono sindacabili: "La Lombardia ha nel suo statuto originario la possibilità di fare referendum", dice Formigoni, "e questa è una legge dello Stato dal '72-'73 mai messa in discussione da nessuno". Inoltre, spiega il presidente lombardo, "la nostra formulazione non cade nella fattispecie impugnata presso la Corte. Noi chiediamo preventivamente ai cittadini se vogliono che si presenti in Parlamento, a norma della Costituzione, una proposta di legge modificativa della Carta. Siamo sicuri della bontà del nostro impianto referendario".
Detto questo, Formigoni non lesina le critiche alla sentenza. Non gli piace per nulla il passaggio in cui il giudice Carlo Mezzanotte parlando del referendum dice: "Quasi che nella nostra Costituzione ai fini della revisione non esistesse un solo popolo che dà forma all'unità politica della Nazione e vi fossero invece più popoli". "Una lettura ideologica e non giuridica", attacca Formigoni, "quasi che le Regioni fossero elemento di frattura, una lettura che tende a escludere i referendum regionali a qualsiasi titolo". Leopoldo Elia, presidente emerito della Consulta e senatore ppi, non ci sta: "Questa sentenza ha chiuso qualsiasi scorciatoia per il populismo plebiscitario".


Corriere della sera - 15/11/2000

La Consulta boccia il Veneto
Respinta la richiesta, fatta nel ’98, di indire un referendum sull’autonomia
 
di Francesco Alberti
MILANO - Bocciato e ribocciato. Il presidente del Veneto Giancarlo Galan, che tra strappi e accelerazioni sta conducendo una personale crociata contro «il centralismo di Stato», ha incassato l’ennesimo disco rosso. La Corte costituzionale, sulla falsariga di quanto già sentenziato nel ’92, ha ritenuto illegittimo il referendum consultivo proposto dal Veneto nel ’98, con il quale si voleva sottoporre ai cittadini una legge di modifica costituzionale che conferisse alla Regione forti condizioni di autonomia. Conflitto interminabile, ormai. Dove questioni costituzionali e opportunismi elettorali si intrecciano profondamente. E potrebbe non essere finita: un mese fa, infatti, il governo Amato ha rispedito al «governatore» una recente legge veneta che prevede i referendum sulla devoluzione (più poteri su sanità, scuola e polizia locale). Se Galan, come pare intenzionato, rimandasse al governo lo stesso testo, la questione finirebbe nuovamente davanti alla Corte. Con esiti, visti i precedenti, quasi scontati.

 
 
BOCCIATURA BIS - Fu il governo D’Alema a spedire davanti alla Consulta la proposta di referendum veneto del ’98. Con essa, si sottoponeva ai cittadini una proposta di modifica costituzionale che prevedeva «il conferimento generale alle Regioni della potestà legislativa», la possibilità di «stipulare accordi con Stati» e il potere di «riscuotere tributi, devolvendo allo Stato una quota non superiore ad un terzo». Ma ciò che ha motivato la bocciatura è stato l’uso dello strumento referendario. Secondo i giudici, non è consentito «sollecitare il corpo elettorale regionale a farsi portatore di modifiche costituzionali». Il popolo, secondo la Consulta, può intervenire «come istanza ultima», e cioè con il referendum confermativo previsto dall’articolo 138 della Carta. Non prima e non attraverso una consultazione regionale, anziché nazionale.
 

GALAN NON CI STA - «L’Italia va avanti, ma la Corte costituzionale arretra...». Il presidente se l’aspettava: «Ma non condivido affatto. Anzi, trovo stupefacente che si impedisca al popolo veneto di pronunciarsi su una proposta avanzata dalla Regione per modificare la Costituzione». E quanto alla tesi dei giudici sull’illegittimità di una consultazione regionale, il presidente polista ha affermato: «Forse la Consulta vuole negare l’esistenza del popolo veneto? Allora si vada a leggere l’articolo 2 dell’attuale Statuto, che ha rango costituzionale: parla testualmente di autogoverno del popolo veneto». Conclusione: «È la conferma di quanto ormai sia necessaria la presenza di giudici costituzionali espressi dalle Regioni».
 

Il MINISTRO ESULTA - «Il presidente veneto è stato sconfessato...». Agazio Loiero, ministro per gli Affari regionali, non ha ancora digerito la raffica di critiche (peraltro da lui abbondantemente ricambiate) ricevute di recente da Galan nella polemica sullo Statuto del Veneto. Ovvio che viva la sentenza della Corte quasi come una rivincita: «Cadono le accuse che mi sono state mosse di voler conservare una visione centralistica dello Stato: mi sono limitato a garantire il rispetto della legalità».
 

POLI CONTRO - Toni analoghi dalle parti dell’Ulivo. Per il sottosegretario Dario Franceschini (Ppi), la sentenza della Corte conferma la validità della scelta del governo di impugnare i referendum sulla devoluzione. Il leghista Maroni ha invece invitato Galan ad insistere, riproponendo la consultazione per via amministrativa (come hanno fatto il lombardo Formigoni e il piemontese Ghigo, aggirando il governo).
 

RIFORMA AL SENATO - L’Ulivo andrà avanti da solo. Polo e Lega, ormai, sono sulle barricate. La miniriforma federalista, già passata alla Camera e ora in Senato, affronterà venerdì l’esame del voto. La maggioranza vuole farne una delle sue bandiere in campagna elettorale. Ma per l’opposizione è solo «una riformucola».


 
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