Federalismo: il no della Consulta
Bocciato il referendum veneto, reazioni dal Polo. Ma sulla legge
dice no Smuraglia (ds), e la Cgil
"L'Italia va avanti, la Consulta va indietro", riassume il presidente
del Veneto Giancarlo Galan commentando la sentenza della Corte costituzionale
che ha bocciato per illegittimità il referendum regionale proposto
nel 1998. Respinto dal governo, riapprovato dalla regione Veneto e impugnato
presso la Consulta, vi si proponevano alcune forme di autonomia: una iniziativa
propedeutica all'ultimo referendum deciso dal Veneto - e ugualmente respinto
dal governo - sulla "devoluzione alle regioni dei compiti per sanità,
istruzione, sicurezza".
Si sprecano le accuse di "centralismo e arretratezza", contro centrosinistra
e Corte, che rinfocolano le polemiche tra i due poli sulla legge sul federalismo
in discussione al senato. Gongola il ministro per gli Affari regionali
Agazio Loriero, sottolineando la "sconfessione", confermata dalla Consulta,
delle posizioni di Galan "volte a trasferire materie di rilevanza costituzionale
dallo Stato alle Regioni per mezzo di un illegittimo strumento di consultazione
popolare preventiva".
Contro il presidente del Polo Loriero insiste attaccando lo "strumento",
ma dissensi e contrasti si aprono dentro lo stesso centrosinistra sul "contenuto"
della proposta di legge della maggioranza in discussione in parlamento.
Il senatore Carlo Smuraglia (Ds), presidente della commissione lavoro del
senato, ha già annunciato il suo voto contrario sulla legge di riforma
federale, denunciando il punto sulla "legislazione concorrente" tra stato
e regioni dell'art.3 in particolare "sulla tutela e sicurezza del lavoro".
Smuraglia ha ricordato il percorso che ha portato al moderno diritto
del lavoro: "non diritto dei rapporti tra due parti soltanto, ma diritto
di tutela". Vi si intende difesa dai licenziamenti, diritti su orari, riposi,
sulla maternità: una tutela "che oggi dovrebbe semmai compiere passi
avanti comprendendo anche i lavori che ne sono esclusi", "unificando" i
diritti. Quanto poi alla "sicurezza sul lavoro è ancora peggio",
e Smuraglia ricorda il bilancio di morti e infortuni: impossibile consentire
qui a una frammentazione regionale, al rischio di dumping sociale
fra imprese per aree geografiche, letteralmente "sulla pelle dei lavoratori".
Al senato altri hanno avanzato dubbi - Carpi, Vertone Grimaldi - pur
assicurando il voto a favore "a malincuore". Ma critiche decise al "federalismo
sociale", al potere legislativo alle regioni sul mercato del lavoro, su
istruzione e sanità, e sulla sussidiarietà "orizzontale"
che fa ritrarre la garanzia (e la copertura finanziaria) pubblica dei diritti
per sostituirla con la gestione privata, vengono dalla Cgil. Che organizza
per il 30 novembre un convengo nazionale di due giorni a Torino.
Dalla segreteria di corso Italia si pronunciano all'unisono contro
questo "germe disgregativo", sia Cofferati che Patta, il quale sottolinea
il pericolo che lo stato si riduca a garantire solo "diritti minimi". E
non a caso ieri Sergio Cofferati si è trovato a fronteggiare il
federalismo padronale, per l'occasione sostenuto da Padoa Schioppa (Bce)
con la proposta di eliminare il contratto nazionale in favore di quelli
"territoriali", differenti per salari e diritti. Al no della Cgil, si è
unita la dura replica del ministro del lavoro Salvi.
di Andrea Manzella
NELLA spensierata tendenza di certi "governatori" a fare delle loro
regioni tante piccole "repubbliche delle banane", la Corte costituzionale
ha segnato un punto insuperabile di contraddizione. La bocciatura del referendum
consultivo veneto è, innanzitutto, una bocciatura del populismo.
L'unzione popolare come arma assoluta contro gli ordinamenti vigenti è
condannata dalla Corte. Essa è vista come radicalmente opposta allo
stesso concetto di sovranità popolare accolto e precisato dalla
Costituzione, fin dal primo articolo. "La sovranità appartiene al
popolo", dice l'articolo 1, ma è esercitata "nelle forme e nei limiti
della Costituzione". Cercare un voto popolare per cambiare gli assetti
costituzionali significa andare oltre questi limiti.
LA COSTITUZIONE, per la propria revisione, ammette una sola via: quella
parlamentare. Solo se la maggioranza parlamentare è esigua, il popolo
può essere chiamato al referendum, per confermare o smentire la
decisione delle Camere. Altrimenti "la volontà del corpo elettorale
viene raccolta e orientata contro la Costituzione, ponendone in discussione
le stesse basi di consenso".
La sentenza è, poi, un forte richiamo al concetto di unità
nazionale fondata su una base popolare indivisibile. Contro i tentativi
di immaginare "popoli parziali", "frazioni autonome" insediate in porzioni
del territorio nazionale, la Corte ricorda che, di fronte alla Costituzione,
esiste "un solo popolo, che dà forma all'unità politica della
nazione".
La sentenza è, infine, una riaffermazione della necessità
di un quadro istituzionale unitario, anche in un ordinamento a tendenza
federale. Il Parlamento repubblicano è la chiave di volta di questo
quadro che comprende il presidente della Repubblica, il governo e la stessa
Corte. È alla rappresentanza politico- parlamentare che è
perciò rimessa ogni decisione sulle modifiche costituzionali.
E questa "riserva" di decisione parlamentare significa anche "riserva"
di decisione dei consigli regionali nelle loro legittime iniziative di
revisione. Senza aggravamenti però di appelli al popolo come "propulsore
della innovazione costituzionale"...
Una sentenza, dunque, che si ricorderà: per molte e buone ragioni.
Perché è contro il diffondersi della convinzione che
l' Italia "a pezze d'Arlecchino" sia la scelta migliore per il bene del
Paese. E che dunque competere, non le opere civili e di cultura, ma nell'arraffare
a colpi di referendum maggiori poteri e attribuzioni giuridiche, sia una
gara vitale per le nostre regioni.
Perché è contro il veleno dell'antiparlamentarismo che
anima sempre più vistosamente certa cultura di massa della nuova
destra. Dall'ostruzionismo sistematico e onnivoro nelle aule parlamentari
alla ricerca di "involucri", come dice la Corte, in cui raccogliere spinte
populiste, "piccoli plebisciti" sostitutivi di tutto quello che è
lo spirito dei Parlamenti.
Perché, dimostrando con la sua stessa portata la necessità
di indipendenza della Corte costituzionale, si pone contro i ripetuti tentativi
di regionalizzare la Corte stessa con nomine di parte, come se si trattasse
di trasformarla in un collegio arbitrale tra Stato e Regioni.
Perché, infine, giunge tempestivamente a spiegare come e perché,
contro l'anarchia e i dissesti dell'attuale non-ordinamento regionale,
sia divenuto un "atto dovuto" il varo, in questo scorcio di legislatura,
di un nuovo sistema delle autonomie territoriali.
A ben vedere, la sentenza della Corte, con la sua stessa gravità,
rivolge oggettivamente un monito a quanti pervicacemente si oppongono a
quel riordino. Non può giovare a nessuno il vuoto di regole.
di Guido Passalacqua
MILANO - "Questa sentenza della Consulta mi sembra dimostrare in modo
chiarissimo come sia necessario quello che vado chiedendo da tempo: all'interno
della Corte Costituzionale ci devono essere giudici di nomina regionale".
Roberto Formigoni, presidente polista della Regione Lombardia non è
preoccupato per il referendum consultivo votato a luglio dal Consiglio
regionale lombardo: "direi proprio che la decisione della Corte Costituzionale
non ci tocca". A differenza del Veneto la Lombardia (e con lei il Piemonte)
non ha proceduto attraverso una legge regionale ma usando un atto amministrativo.
Decisione che può essere impugnata da ogni cittadino lombardo
di fronte al Tar regionale o dal Governo di fronte alla Corte Costituzionale.
"Cosa che non mi risulta sia stata fatta e che mi auguro non sia fatta",
spiega Formigoni, "visto che il nostro modo di procedere è corretto
e che prima di partire abbiamo consultato dei costituzionalisti". Il presidente
lombardo è scandalizzato: "Se mi permette il bisticcio qui non si
tiene conto delle ragioni delle Regioni e si continua a dare una lettura
minimalista e restrittiva della Carta costituzionale, non si tiene conto
di come le cose sono cambiate a questo riguardo".
Una lettura non condivisa dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio,
il popolare Dario Franceschini che esulta: "La sentenza della Corte spazza
via in un colpo solo tutte le polemiche e le strumentalizzazioni seguite
alla decisione del Governo di rinviare a nuovo esame del Veneto la proposta
di referendum consultivo". Franceschini parla di "strumenti palesemente
anticostituzionali solo per fare un po' di propaganda".
Gli risponde Roberto Maroni, numero due della Lega: "Quella della Corte
è una interpretazione cavillosa che lascia perplessi". Maroni propone
di modificare lo Statuto veneto uniformandolo a quello lombardo. Infatti
secondo la Casa delle libertà le decisioni del Consiglio regionale
lombardo non sono sindacabili: "La Lombardia ha nel suo statuto originario
la possibilità di fare referendum", dice Formigoni, "e questa è
una legge dello Stato dal '72-'73 mai messa in discussione da nessuno".
Inoltre, spiega il presidente lombardo, "la nostra formulazione non cade
nella fattispecie impugnata presso la Corte. Noi chiediamo preventivamente
ai cittadini se vogliono che si presenti in Parlamento, a norma della Costituzione,
una proposta di legge modificativa della Carta. Siamo sicuri della bontà
del nostro impianto referendario".
Detto questo, Formigoni non lesina le critiche alla sentenza. Non gli
piace per nulla il passaggio in cui il giudice Carlo Mezzanotte parlando
del referendum dice: "Quasi che nella nostra Costituzione ai fini della
revisione non esistesse un solo popolo che dà forma all'unità
politica della Nazione e vi fossero invece più popoli". "Una lettura
ideologica e non giuridica", attacca Formigoni, "quasi che le Regioni fossero
elemento di frattura, una lettura che tende a escludere i referendum regionali
a qualsiasi titolo". Leopoldo Elia, presidente emerito della Consulta e
senatore ppi, non ci sta: "Questa sentenza ha chiuso qualsiasi scorciatoia
per il populismo plebiscitario".
Corriere della sera - 15/11/2000
GALAN NON CI STA - «L’Italia va avanti,
ma la Corte costituzionale arretra...». Il presidente se l’aspettava:
«Ma non condivido affatto. Anzi, trovo stupefacente che si impedisca
al popolo veneto di pronunciarsi su una proposta avanzata dalla Regione
per modificare la Costituzione». E quanto alla tesi dei giudici sull’illegittimità
di una consultazione regionale, il presidente polista ha affermato: «Forse
la Consulta vuole negare l’esistenza del popolo veneto? Allora si vada
a leggere l’articolo 2 dell’attuale Statuto, che ha rango costituzionale:
parla testualmente di autogoverno del popolo veneto». Conclusione:
«È la conferma di quanto ormai sia necessaria la presenza
di giudici costituzionali espressi dalle Regioni».
Il MINISTRO ESULTA - «Il presidente veneto
è stato sconfessato...». Agazio Loiero, ministro per gli Affari
regionali, non ha ancora digerito la raffica di critiche (peraltro da lui
abbondantemente ricambiate) ricevute di recente da Galan nella polemica
sullo Statuto del Veneto. Ovvio che viva la sentenza della Corte quasi
come una rivincita: «Cadono le accuse che mi sono state mosse di
voler conservare una visione centralistica dello Stato: mi sono limitato
a garantire il rispetto della legalità».
POLI CONTRO - Toni analoghi dalle parti dell’Ulivo.
Per il sottosegretario Dario Franceschini (Ppi), la sentenza della Corte
conferma la validità della scelta del governo di impugnare i referendum
sulla devoluzione. Il leghista Maroni ha invece invitato Galan ad insistere,
riproponendo la consultazione per via amministrativa (come hanno fatto
il lombardo Formigoni e il piemontese Ghigo, aggirando il governo).
RIFORMA AL SENATO - L’Ulivo andrà avanti da solo. Polo e Lega, ormai, sono sulle barricate. La miniriforma federalista, già passata alla Camera e ora in Senato, affronterà venerdì l’esame del voto. La maggioranza vuole farne una delle sue bandiere in campagna elettorale. Ma per l’opposizione è solo «una riformucola».