In un contesto così confuso, occorre domandarsi se non sia opportuno, ed anzi necessario, tornare a ridefinire i capisaldi di una riforma in senso federale della Repubblica italiana, cercando di costruire su questi quell'idem sentire che ora manca del tutto, e che tuttavia costituisce la condizione imprescindibile per riforme costituzionali.
Perché dunque, da almeno un decennio, anche nella sinistra, si
è avanzata l'ipotesi di una riforma in senso federale? Di cosa stiamo
parlando in effetti? Credo che tutto ciò sia finalizzato a un obiettivo
essenziale: governare e amministrare meglio il paese, attrezzarlo a reggere
con più efficacia la doppia sfida della competizione globale e della
integrazione europea. A questo fine deve essere ricondotto un complesso
di innovazioni istituzionali e politiche, fondate su un principio di fondo:
occorre valorizzare l'autogoverno territoriale e, al contempo, rafforzare
i meccanismi della cooperazione e coesione nazionale. Quindi si tratta
di ridefinire gli ambiti di competenza tra stato nazionale e poteri territoriali,
di stabilire i meccanismi cogenti della cooperazione interistituzionale,
a partire da una riforma in senso federale del Parlamento, infine di riformare
le regioni, trasformandole in uno strumento di integrazione dei poteri
locali. Si tratta, in altri termini, di realizzare una riforma al tempo
stesso istituzionale e politica. Per un verso il federalismo utile all'Italia
va concepito come federalismo essenzialmente amministrativo e non legislativo:
non c'è bisogno di moltiplicare le leggi e differenziare a scala
territoriale gli ordinamenti, ma di dare efficace esecuzione alle leggi
esistenti, impegnando i governi regionali e locali nella individuazione
degli strumenti più utili di applicazione sul territorio delle normative
nazionali e comunitarie. Dall'altro lato si tratta di riformare, in coerenza,
il sistema politico e della rappresentanza politica, essendo evidente l'incompatibilità
tra un serio assetto federale e l'attuale pletorica articolazione della
rappresentanza politica, espressa in mille parlamentari, distribuiti su
due camere con competenze paritarie, in oltre 8000 consigli comunali, in
108 consigli provinciali e in 20 consigli regionali, per di più
in un contesto di crisi radicale del rapporto tra politica e cittadini.
Questa sovrabbondanza della rappresentanza politica, coesistente con una
caduta vertiginosa della sua rappresentatività sostanziale, va evidentemente
ripensata in radice.
Su questo disegno di fondo va riaperto il confronto, con pazienza,
fidando sul fatto che le buone idee, se perseguite con tenacia e accortezza,
alla fine possono avere qualche possibilità di applicazione.
Nell'immediato si tratta di chiedersi se il disegno di riforma del titolo V della costituzione, già approvato in prima lettura da Camera e Senato, e ora all'esame della Camera per la terza lettura, risponde ai requisiti sopra descritti. In merito è legittimo dubitare. Infatti quel disegno di riforma costituzionale contiene certamente diversi aspetti positivi e rappresenta un apprezzabile sforzo del centrosinistra di uscire dalla presente legislatura, dopo il fallimento della bicamerale-D'Alema, con un primo risultato concreto. Tuttavia quel disegno di legge apre il fianco ad almeno due critiche.
La prima riguarda una questione definitoria. Siamo proprio sicuri di voler sostituire all'art.114 della costituzione, secondo la quale "la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni", con la formula secondo cui "la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato"? La strutturale diversità tra le due definizioni è evidente. Secondo la prima la Repubblica intanto esiste e poi "si riparte". Nella seconda la Repubblica sarebbe invece "costituita" da un serie di soggetti, tra cui le "città metropolitane" che, come sanno gli addetti ai lavori, probabilmente non si costituiranno mai. A me questa non pare una solida base di partenza per definire l'identità di una nuova e seria Repubblica federale italiana.
Il secondo dubbio è più di fondo. Non introducendo alcuna innovazione sul piano della definizione dei soggetti decisionali, attraverso una riforma federale del Parlamento in cui a una delle due camere venga assegnata la funzione essenziale di monitoraggio e validazione del processo di trasformazione in senso federale della repubblica, il disegno di legge introduce infatti la figura della "legislazione concorrente" tra stato e regioni su un insieme rilevante di materie, da subordinare ai "principi fondamentali" fissati dalle leggi dello stato.
Ritengo che nelle condizioni attuali, di incertezza non solo politica ma, per così dire, concettuale, tale norma abbia un incalcolabile potenziale centrifugo. Basti un esempio. Tra le materie della legislazione concorrente è inserita quella della "tutela e sicurezza del lavoro". Allo stato i giuslavoristi italiani non sono in grado di decifrare gli effetti di tale disposizione. L'effetto più probabile è che si deduca, ad esempio, che in materia di disciplina del licenziamento sul piano nazionale si fissi il principio di tutela e, sul piano territoriale, si differenzino le forme della tutela (reintegra ovvero risarcimento). Insomma, nel caso che venisse introdotta la figura della "legislazione concorrente" nessuno oggi è in grado di dire quale debba essere il confine tra competenze dello stato e delle regioni e chi e come debba fissare i "principi fondamentali". Se ne deduce che se passa quella norma si attiverà una straordinaria conflittualità interistituzionale, che dovrà essere amministrata dalla Corte costituzionale, dato che quel progetto di riforma abroga il controllo ex ufficio del governo sulle leggi regionali, lasciando al governo solo la possibilità di impugnare le leggi regionali davanti alla corte costituzionale.
In conclusione, vi sono molti e buoni motivi per evitare che sulla approvazione di quel testo si svolga un braccio di ferro tra i due schieramenti motivato da esigenze tattiche ed elettorali del tutto contingenti e opinabili. Meglio è, sulla materia, ricorrere a un salutare time-out, tenendo ferma l'antica regola secondo cui, in caso di dubbio, deve comunque prevalere il principio Salus Rei Publicae Suprema Lex.