Corriere
della sera 06-07-2004
«Noi abbiamo sbagliato, però questo regionalismo non
va»
«Troppi poteri alle Regioni»
La riforma in senso federalista che vuole questa maggioranza, sotto
il ricatto di un partito che rappresenta il 5 per cento degli italiani,
minaccia l'unità del Paese, produce un mostruoso ibrido di spinte
secessioniste e di rivincite centraliste, e innesca un processo di allontanamento
delle zone ricche del nostro Paese da quelle più povere.
di Walter Veltroni (sindaco di Roma)
I risultati dell'indagine del Censis sulle motivazioni del voto del
12 e 13 giugno non mi hanno sorpreso. Ciò che noi sindaci sperimentiamo
ogni giorno è esattamente quello che viene fuori dai dati: le risposte
alle esigenze della propria vita i cittadini le cercano negli ambiti comunitari
di cui riconoscono in modo concreto l'esistenza, che vedono accanto a sé,
dei quali percepiscono, sedimentata nel sentire collettivo, la legittimità
storica. Appare sempre più evidente, in ogni società urbanizzata,
che il livello di governo meglio adatto ad affrontare i problemi dei cittadini
è quello locale e che il modello sociale in cui esso si esprime
è quello della comunità. E' da qui che vorrei partire per
riflettere su una riforma dello Stato cui s'è dovuto dare il nome
inglese di «devolution», tanto era poco chiaro quali fossero
le sue radici nella nostra storia, tradizione e cultura. Siamo chiari:
le Regioni sono un portato della nostra storia, politica, culturale e istituzionale,
il risultato di un processo di articolazione del potere voluto e necessario.
Ciò da cui dobbiamo guardarci è il regionalismo come fine,
la concezione di un organismo dotato del più grande dei poteri,
quello legislativo, con cui però invade il campo dell'amministrazione,
che arriva non di rado ad interferire con gli interventi specifici più
essenziali e propri dei Comuni in settori cruciali: dall'urbanistica ai
parcheggi al commercio ai trasporti. E' un rapporto, quello tra Regioni
ed Enti locali, che la riforma costituzionale della maggioranza può
alterare ancora più profondamente dando alle Regioni il potere di
legislazione esclusiva in settori determinanti: sanità, scuola,
polizia locale.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che la riforma costituzionale di uno
Stato non si fa né a colpi di maggioranza né legandola ad
una quotidianità della politica troppo spesso fatta di scambi, manovre
e furberie, che la Costituzione della Repubblica non è «proprietà»
di chi è al governo, che non rientra nello spoils system né
può stare sul piatto della politique d'abord come merce per assicurarsi
la tenuta della coalizione.
Va detto con onestà che il centrosinistra sbagliò nella
revisione del Titolo V pensando a una sorta dì autosufficienza.
Ma la posta in gioco oggi è incomparabile. Oggi, con la riforma
che vuole questa maggioranza - sotto il ricatto di un partito che rappresenta
il 5 per cento degli italiani - viene imposto un cambiamento profondo e
totale delle fondamenta della casa costituzionale in cui l’Italia repubblicana
è cresciuta.
I pericoli che da tutto questo possono derivare sono quelli indicati
dai sessantatré costituzionalisti che hanno dato il loro contributo
allo studio curato da Franco Bassanini per l'associazione Astrid: la «riforma
federalista» già votata dal Senato apre una grande questione
democratica, minaccia l'unità del Paese, produce un mostruoso ibrido
di spinte secessioniste e di rivincite centraliste, innesca un processo
di allontanamento delle zone ricche del nostro Paese da quelle più
povere. Insomma, proprio quel «pasticcio» di cui ha parlato
Luca Cordero di Montezemolo nel suo discorso di investitura alla presidenza
della Confindustria.
Vedremo dove approderà l'affannoso confronto in atto nella maggioranza
e nel governo. Quello che, come sindaco della Capitale, sento di dover
richiamare, è la necessità che sulla riforma dello Stato
si torni alle ragioni del buon senso e della correttezza istituzionale.
Ci si fermi, si apra un confronto che abbracci tutte le espressioni politiche
del Paese, si considerino insieme le riforme necessarie. In ogni Stato
la Costituzione nasce per durare, perché non vi è Stato che
possa reggere al continuo e casuale sommovimento dei pilastri su cui si
sostiene. E' proprio il confronto che si deve aprire tra le forze più
responsabili della maggioranza e dell'opposizione. E né l'una né
l'altra devono sfuggire alle proprie responsabilità.
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