Riforme Istituzionali
Osservatorio sulla devolution
 
Rassegna stampa
 
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La Stampa - 06/04/2001
 
Ma è solo un sondaggio

Massimo Luciani

Il referendum consultivo lombardo sulla devoluzione, dunque, si farà. La Corte Costituzionale, infatti, nella camera di consiglio di ieri, oltre a prendere atto della rinuncia dello Stato alla domanda di sospensione del referendum piemontese, ha rigettato la domanda di sospensione nei confronti di quello promosso dalla Lombardia. Non c’è dubbio che sul piano politico questa decisione è destinata a fare molto rumore.
Se la si analizza, pacatamente, però, sul piano giuridico, non sembra proprio che ci siano grandi novità rispetto al passato. Il passato, per la verità, è molto recente, ed è rappresentato dalla sentenza n. 496 del 2000, che aveva bocciato un referendum promosso dalla Regione Veneto, che intendeva chiamare i propri cittadini a pronunciarsi sull’ipotesi di un’iniziativa regionale di revisione della Costituzione in senso autonomista.
In quella occasione, gli argomenti principali furono due: il referendum non è un atto a schema libero, ma ha forme tipiche dalle quali non ci si può discostare; un referendum consultivo sull’iniziativa legislativa regionale di revisione della Costituzione presupporrebbe «più popoli», poiché consentirebbe alla frazione regionale del corpo elettorale di pronunciarsi due volte, prima sull’iniziativa referendaria della Regione, e poi sulla legge costituzionale che, eventualmente, ne scaturisse. In altri termini: le Regioni possono sì promuovere referendum consultivi, ma non quando essi attengono al procedimento di revisione della Costituzione.
Le cose, oggi, non sembrano cambiate. E’ vero che la pronuncia definitiva della Corte arriverà più tardi, a referendum già tenuto, quando si esaminerà approfonditamente il merito della questione e non più il solo tema della sospensione. Sin da ora, però, sembra ragionevole dire che la Corte ha interpretato il quesito lombardo come se non coinvolgesse la revisione della Costituzione e solo per questo non ha imposto la sospensione delle operazioni.
In effetti, il quesito non parla affatto di revisione, visto che si limita ad auspicare la «promozione» del «trasferimento» di funzioni statali alle Regioni, e che il trasferimento può ben avvenire (anzi, tipicamente è avvenuto) con semplici leggi ordinarie o decreti legislativi. La prudenza del quesito, insomma, ha permesso il primo via libera al referendum e, probabilmente, permetterà la sua promozione definitiva quando la Corte si pronuncerà sul merito. E la precedente (e recentissima) giurisprudenza costituzionale non sembra essere stata smentita.


La Repubblica - 06/04/2001
 
QUELL'INUTILE SCORCIATOIA

Andrea Manzella

IL REFERENDUM a cui la Regione Lombardia vuole chiamare i suoi elettori non è eversivo ma è inutile. Quando la Corte Costituzionale il 5 giugno lo esaminerà nel merito, dovrà farlo in un quadro complessivo che ricomprende anche la legge costituzionale sul "federalismo" approvata dal Parlamento ma ora "sospesa" in attesa, a sua volta, di referendum costituzionale.
E, allora, la Corte potrà ben dire che quel quesito è assorbito dalle norme che già prevedono per sanità, istruzione, polizia locale la competenza regionale.

O comunque dovrà considerare quel referendum parziale come «assorbito» dal referendum costituzionale nazionale che dovrà farsi sulla nuova legge.
A quel punto però il referendum «inutile» dei lombardi potrebbe essere stato celebrato il 13 di maggio. Soldi e voti buttati via. Un bel pasticcio (anche per il presidente lombardo che dovrebbe invitare a votare sì per il referendum regionale e a votare no per il referendum costituzionale...).
E tuttavia la Corte Costituzionale non poteva non decidere così come ha deciso. Per sospendere un referendum regionale occorrono infatti «ragioni gravi». Così fu per quel referendum veneto di natura eversiva della Costituzione e del ruolo delle Regioni in essa, respinto perciò, nel merito, con la sentenza del 14 novembre 2000.
Il referendum lombardo è invece passato indenne proprio perché indetto per «futili motivi» propagandistici, su un impianto concettuale ripetitivo di quello della legge approvata dal Parlamento (ma non ancora entrata in vigore) e perciò rispettoso della logica costituzionale.
Questo non vuol dire che il referendum lombardo si farà veramente il 13 maggio. Siamo nella novità assoluta, infatti. Il 13 maggio ci sono elezioni nazionali e questo referendum è di marca regionale. Dove si collocherà l'urna referendaria regionale? Come si concilieranno le differenti norme legislative sulla composizione dei seggi, sugli orari, sulle cadenze di scrutinio? Ad occhio e croce per fare celebrare questo referendum «inutile», il governo e il Parlamento nazionale dovrebbero approvare, subito subito (con questi chiari di Luna), un decreto legge.
Perché non è ovviamente una unilaterale iniziativa regionale.
Comunque vadano le cose, è ben triste però questa via giudiziaria e formalistica al federalismo. Un grande progetto repubblicano è affidato così al gioco delle carte bollate e all'inevitabile intrico di ricorsi sospensivi e di ricorsi nel merito. Questo incrocio delle storiche ragioni delle autonomie territoriali - quelle che la Repubblica non crea ma «riconosce» come dice la Costituzione (perché erano già là quando la Repubblica è nata) - con le contingenti motivazioni di una campagna elettorale senza quartiere, è un brutto e pericoloso incrocio. Devono farvi attenzione sia quelli che vengono da destra, sia quelli che vengono da sinistra.


Corriere della sera - 06/04/2001

RETORICA E DEMOCRAZIA

Sergio Romano
 
Quando il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, decise d’interpellare i suoi concittadini con un referendum consultivo sulla «devolution», l’iniziativa mi sembrò poco utile ma perfettamente comprensibile. Era poco utile perché non aggiungeva nulla al dibattito sul federalismo e non dava alcun contributo alla soluzione dei problemi che dovremo risolvere nei prossimi anni. Non basta dichiararsi federalisti. Occorre dividere le competenze fra nuovi soggetti istituzionali e soprattutto decidere quanto denaro le Regioni possano trattenere per le proprie esigenze, quanto debbano darne allo Stato per i suoi servizi, quanto debba essere versato in un fondo di solidarietà per le zone meno fortunate del Paese. Un referendum consultivo diventa, in questa prospettiva, una iniziativa puramente retorica e declamatoria. All’espressione di un auspicio, anche se espresso da milioni di elettori, è preferibile una dura discussione alla luce del sole fra poteri contrapposti su problemi concreti. Soltanto così sapremo sino a che punto l’Italia possa e voglia essere federalista.
Ma l’iniziativa del presidente lombardo rispondeva a una esigenza politica e psicologica. Come i suoi colleghi eletti un anno fa, Formigoni ha un mandato personale che è inevitabilmente destinato a modificare lo stile della carica e l’esercizio delle sue funzioni.
Non è eletto da un’assemblea o designato da un partito. E’ l’uomo a cui alcuni milioni di elettori hanno deciso di dare i loro voti. Per esercitare questo mandato deve stabilire un filo diretto con il «popolo lombardo», rinnovare periodicamente la sua autorità, dimostrare ai suoi interlocutori del governo centrale o regionale che le sue iniziative sono in sintonia con i sentimenti e le richieste dell’opinione pubblica. Può darsi che a molti ciò sembri demagogico e plebiscitario. E’ effettivamente così, per certi aspetti, ma queste iniziative appartengono alla logica della elezione diretta e presentano un vantaggio a cui dovremmo essere tutti sensibili: spingono l’uomo politico a mettersi in gioco esponendosi ai rischi di un voto che potrebbe dargli torto. Nessuna norma costituzionale, per esempio, imponeva al presidente della Repubblica francese, nel 1992, di sottoporre il trattato di Maastricht all’approvazione dei suoi connazionali. Ma François Mitterrand volle indire un referendum e ottenne, contrariamen te alle sue aspettative, un «sì» modesto e avaro. Desiderava rafforzare la sua immagine europea con il crisma di un voto nazionale e ne uscì indebolito. Anche la politica delle consultazioni popolari comporta qualche rischio. Anche questa è democrazia. Piuttosto che chiudere un occhio e lasciar fare, il governo di Giuliano Amato ha preferito assumere una posizione difensiva e ricorrere alla Corte Costituzionale. Forse ha visto nella iniziativa di Formigoni una minaccia all’integrità dello Stato, forse non ha voluto dare soddisfazione a un governo regionale di centrodestra. La Corte, per il momento, non ha tagliato il nodo giuridico, ha rinviato ogni decisione sul merito a una udienza che si terrà il 5 giugno e si è limitata a rigettare l’istanza di sospe nsione presentata dalla presidenza del Consiglio. Ma certe decisioni procedurali hanno un valore sostanziale. Con quella di ieri la Consulta ha permesso di fatto che i referendum di Formigoni abbiano luogo, come egli desiderava, nel giorno stesso delle elezioni politiche. Qualsiasi cosa accada il 5 giugno, molti sosterranno con ragione che il governo e la maggioranza hanno perduto una battaglia. E’ giusto quindi che l’opposizione se ne compiaccia e consideri la decisione di ieri come una propria vittoria. Ma il compiacimento sarebbe ancora più legittimo se il suo leader riconoscesse che certe dichiarazioni sulla Corte Costituzionale, pronunciate negli scorsi giorni, erano inopportune. Come ogni istituzione della «Prima Repubblica», la Consulta ha bisogno di essere riformata. Ma i suoi componenti, anche se designati da una parte politica, sanno che la loro credibilità e il loro prestigio dipendono in ultima analisi dalla qualità dei loro atti. Ieri ne hanno dato una prova.

 
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