Riforme Istituzionali
Osservatorio sulla devolution
Rassegna stampa
www.riforme.net
Corriere della
sera - 13/06/2001
Bossi al Cavaliere: ferma la consultazione, altrimenti siamo finiti
Francesco Verderami
ROMA - «Un appiglio, bisogna trovare un appiglio».
Berlusconi avverte l’inquietudine che accompagna quell’appello, l’ansia
di chi cerca una presa per non precipitare, perché a Bossi il referendum
sul federalismo appare come una fenditura profonda e maligna, l’anticamera
dell’inferno dove teme di finire inghiottito insieme al suo progetto sulla
devolution. Perciò ha bisogno di un appiglio, «e ci sarà
pure un appiglio nella legge, così da rinviare il più a lungo
possibile quel voto», impreca al termine del Consiglio dei ministri.
Sebbene Ciampi gli abbia affidato il dicastero delle Riforme, Bossi è
costretto a confidare nell’aiuto altrui, di chi è abituato a scovare
vie di fuga nel dedalo delle norme. Ma non sarà facile. E soprattutto,
non è detto che l’aiuto arriverà... Ecco cosa tormentava
il Senatùr lunedì sera, ecco cos’era quell’ombra che velava
il sorriso del premier. E mentre nei saloni di palazzo Chigi si brindava
all’avvento del governo, Berlusconi ritornava con la mente alle parole
del capo della Lega, alla sua richiesta di evitare quel voto in autunno,
che galvanizzerebbe il popolo dell’Ulivo e consentirebbe alle forze dell’opposizione
di prendersi una rivincita. Senza contare che nel centrodestra sono in
molti a essere tentati, in molti vorrebbero appoggiare quel referendum:
dai presidenti delle Regioni - desiderosi di conquistarsi subito un pezzo
di autonomia - allo stesso Berlusconi che in passato ha ragionato attorno
all’idea di depotenziare la riforma varata dal centrosinistra.
Ma Bossi non vuole precipitare all’inferno, è
disposto a sacrificare il referendum sulla devolution in Lombardia pur
di impedire quel voto sul federalismo, «perché se in autunno
si votasse, quasi certamente il federalismo passerebbe. E noi, caro Silvio,
ci troveremmo stretti in una morsa, tra la Corte Costituzionale e l’Europa
di Prodi». Interpretare lo slogan coniato dal leader del Carroccio
è difficile, molto più facile è decifrare quel «noi»
usato nel suo ragionamento. Berlusconi ne aveva già afferrato il
senso, anche se il Senatùr ha voluto essere ancora più esplicito:
«Se passasse il federalismo, tanto varebbe andarcene tutti a casa,
subito». Bossi non sarà un esperto costituzionalista, ma ha
una qualche esperienza del Palazzo, «perciò bisogna trovare
un appiglio, ci sarà pure un appiglio nella legge».
Fosse per il ministro delle Riforme, lui procederebbe
con il machete per farsi largo nell’intricata foresta legislativa, marciando
a tappe forzate in Parlamento per fare approvare la devolution «entro
l’estate». Ma c’è di mezzo un referendum costituzionale, il
delicato equilibrio dei rapporti con l’opposizione e soprattutto con il
Quirinale. Può Berlusconi permettersi un simile strappo con Ciampi?
Può annunciare che il referendum verrà spostato oltre l’autunno,
senza scatenare un pericolosissimo contenzioso? E mentre Bossi delega al
premier e ai suoi esperti la soluzione tecnica del caso, chiede intanto
che il Consiglio di gabinetto sigli un’intesa politica sul caso. Niente
scherzi insomma, o «ce ne andremmo tutti a casa». «Tutti»,
appunto.
E dire che nel centrodestra «tutti»
si sentivano sollevati dopo il 13 maggio, «tutti» avevano pronosticato
un periodo di sostanziale tranquillità, c’era l’idea che si potesse
lavorare senza l’assillo di un qualsiasi voto, «visto che per tre
anni, fino alle Europee, non ci saranno elezioni». Invece il referendum
sul federalismo rovina i piani, costringe subito Berlusconi ad affrontare
un primo, difficile tornante, che saggerà il grado di coesione con
la Lega. Perché è vero che su altri temi di riforma, come
la legge elettorale, c’è già una sorta d’intesa nel centrodestra,
propenso a trasformare il «Tatarellum» nel sistema di voto
nazionale: proporzionale con sbarramento e premio di maggioranza per la
coalizione vincente. Ma la riforma elettorale è l’ultimo tassello,
Bossi vuole subito la devolution.
Il Cavaliere avrebbe preferito un approccio più
morbido nel giorno del ritorno a palazzo Chigi, invece è stato costretto
ad assaporare immediatamente il gusto aspro del potere. Sui sottosegretari,
ad esempio, aveva confidato in Frattini per non far torto a nessuno, e
il ministro della Funzione pubblica aveva cercato di assecondarlo allargando
a dismisura la lista delle seconde linee. Per creare spazio ai forzisti,
aveva usato un sistema già noto ai tempi della prima Repubblica:
si era messo a elargire posti in più anche agli alleati. «Troppi
Silvio, sono troppi», si era lamentato Fini appena gettato lo sguardo
sulla lista: «Se vogliamo evitare di sottoporci agli attacchi dell’opposizione,
dobbiamo ridurre i sottosegretari. Dammi retta, devono essere numericamente
inferiori a quelli dei governi dell’Ulivo. Almeno di uno».
Raccontano che Berlusconi abbia provato a usare
il bianchetto, ma ogni volta gemeva e si lamentava, «perché
mi si spezza il cuore a lasciare fuori tanti amici». «Taglia,
Silvio, taglia», gli sussurrava all’orecchio il vice premier. Così
cadevano, uno a uno, i reduci di passate campagne: prima Rosso, già
candidato a sindaco di Torino; poi Michelini, già candidato a presidente
della Regione Lazio; quindi Bruno, già compagno di battaglia sul
fronte antigiustizialista... E più tentava di trattenersi, più
Fini lo invitava a cancellare, «anche perché, se non tagli,
rischi comunque di scontentare tutti. Quelli che stanno dentro, perché
avrebbero incarichi pletorici. E quelli che stanno fuori, perché
esclusi nonostante i molti posti».
«Taglia, Silvio, taglia». Finché
Berlusconi decideva di porre fine al tormento, «ora basta, me ne
vado», e con un gesto di disappunto abbandonava la sala per appartarsi
con Frattini. Dicono sia stato Fini a impossessarsi dell’operazione, lo
avrebbero visto togliersi la giacca e procedere a un’ulteriore e dolorosa
incisione. L’intervento però non sarebbe piaciuto a Miccichè,
di cui si narra una tumultuosa telefonata serale a Consiglio dei ministri
concluso. Il plenipotenziario siciliano di Forza Italia deve aver usato
argomenti convincenti se - a nomine ormai votate - è stato promosso
da sottosegretario a ministro junior dell’Economia. Come se non bastasse,
Miccichè avrebbe chiesto un altro posto di sottosegretario per un
altro forzista isolano. Se ne parlerà tra qualche settimana, come
ha pubblicamente preannunciato Berlusconi. Il premier non sa dire di no
agli amici. Anche Bossi si considera un suo amico, basta trovargli «un
appiglio».
Indice "Rassegna Stampa"
Indice Referendum 7 ottobre