Barbara Jerkov
ROMA - Quattro ore e passa di discussione, ventotto punti all'ordine
del giorno perché la settimana prossima si chiude e tutti in vacanza.
Ma in Consiglio dei ministri nemmeno un accenno, niente, neppure per sbaglio,
ai temi caldi di queste ore: sicurezza e dopoG8. Singolare, effettivamente,
anche se Berlusconi ha già convocato i suoi ministri per il 9 agosto
alle 9 e lì sì che Scajola potrebbe proporre il trasferimento
dei prefetti rimossi. Ma ieri il piatto forte di una discussione che spaziava
dalla ratifica del Trattato di Nizza (con Bossi che punta i piedi: «E'
antidemocratico!», protesta, mentre Buttiglione difende gli impegni
europeisti presi dall'Italia: «Sennò io qui che ci sto a fare?...»)
all'assunzione di 35 mila precari nelle scuole, era un altro. Era la devolution.
«Così abbiamo completato le dodici tavole del nostro programma»,
chiosa tutto soddisfatto Berlusconi, chiudendo la riunione. «Resta
ancora la riforma fiscale, ma con quel buco nei conti che abbiamo trovato...».
Della devolution si parla per ultima. Bossi e Tremonti escono a più
riprese insieme dalla sala del Consiglio per appartarsi e limare gli ultimi
dettagli. In realtà, l'altra notte hanno fatto l'alba lavorando
gomito a gomito alla ricerca di una soluzione. Alla fine è proprio
il Senatur a trovarla: le leggi delle Regioni nelle materie in cui la riforma
dovrebbe dare loro competenze assolute saranno sottoposte al vaglio preventivo
della Corte costituzionale. Effettivamente Fini, raggiunto in mattinata,
apprezza. Tutti d'accordo. Si può procedere.
Così, quando in Consiglio dei ministri arriva il momento, è
lo stesso premier a introdurre l'argomento devolution con tutta la solennità
del caso: «Cari colleghi, vorrei ringraziare qui davanti a tutti
voi Bossi e Fini per l'impegno che hanno profuso per trovare una soluzione
di alto profilo». Umberto sorride, Gianfranco annuisce. Magari anche
perché ognuno dei due vede l'escamotage del vaglio costituzionale
da un'altra angolazione. Basta sentire i rispettivi colonnelli per capirlo:
An pensa a una Corte costitiuzionale così com'è oggi, in
grado cioè di frenare le spinte iperfederaliste; i leghisti sono
certi che alla fine anche la Consulta verrà "federalizzata" con
la nomina regionale dei giudici. «Si gioca sull'equivoco, ma in questo
momento fa comodo a tutti», sussurra un alto esponente centrista.
A vivacizzare la riunione, invece, è un'altra riforma costituzionale.
Il ministro Prestigiacomo tenta infatti un vero e proprio blitz, per riscrivere
l'articolo 51 della Costituzione, quello che riconosce la parità
fra uomo e donna, introducendo una disposizione che legittimi «azioni
positive per il riequilibrio della rappresentanza fra i sessi nelle assemblee
elettive e negli uffici pubblici». La ministra illustra e difende
con veemenza la proposta di «parità di accesso». Ma
deve scontrarsi contro il muro opposto soprattutto da tre colleghi: Bossi,
Fini e Giovanardi.
«Fino a prova contraria il ministro delle Riforme sono io»,
sbotta il Senatur, «e io a questa cosa qui non ci sto!». «Se
qualcuno pensa di introdurre le famose "quote" nelle liste elettorali»,
lo spalleggia Giovanardi, «succede che oggi si comincia con le donne,
poi arriveranno le minoranze linguistiche, quelle etniche...». «E'
un precedente pericoloso», conviene il vicepremier. Alla fine i prudenti
hanno la meglio. La proposta di legge di riforma dell'art.51 non parla
più di «parità di accesso». Si accontenta di
indicare «pari opportunità». Il celodurismo ha vinto
ancora una volta.