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Corriere della sera - 24/11/2001

EFFETTI PARADOSSALI DI UNA RIFORMA

Arriva il federalismo ma non c’è l’arbitro

di Sergio Romano
 

Ancora prima di nascere il federalismo italiano sta producendo effetti paradossali e indesiderati. Anziché dividere il Paese tra governo e opposizione, sembra destinato a spaccare la maggioranza. Formigoni, «governatore» della Lombardia, chiede che il governo trasferisca alle Regioni il denaro per l’esercizio delle nuove competenze previste dalla legge dell’Ulivo, approvata con referendum popolare. Ma Bossi, ministro delle Riforme, sostiene che quello del denaro non è un problema urgente e preme per l’approvazione della sua legge. Maroni, ministro del Welfare, intende correggere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e garantire al mercato del lavoro una maggiore flessibilità. Ma Storace, «governatore» del Lazio, respinge questa riforma, vuole continuare ad applicare le vecchie norme e minaccia che andrà, se necessario, alla Corte costituzionale. Ghigo, «governatore» del Piemonte, propone una «cabina di regia», con la partecipazione di Province e Comuni, per l’applicazione della legge sul federalismo. Ma Bossi e Galan, «governatore» del Veneto sostengono che occorre anzitutto passare dal «cattivo» federalismo dell’Ulivo a quello «buono» della maggioranza di governo. Non tutto ciò che sta accadendo è male. Quando è reale, e non fittizio, il federalismo crea interessi locali che rompono l’unità di un partito o di una coalizione.

Nessuno negli Stati Uniti si sorprende se un governatore democratico preferisce, in alcuni casi, la linea politica dell’amministrazione repubblicana a quella del suo partito. E nessuno si scandalizza se gli Stati si fanno concorrenza e se un governatore (come Storace nel Lazio) considera i propri elettori più importanti della coerenza programmatica della formazione a cui appartiene.
Ma le condizioni dell’Italia non sono quelle dell’America. Gli Stati Uniti sono nati federalisti e da allora, senza rinunciare alla loro filosofia originaria, hanno gradualmente esteso le aree di interesse nazionale e rafforzato i poteri del governo centrale. Noi siamo nati centralisti e stiamo facendo, senza utili precedenti storici, il cammino inverso. Lo abbiamo fatto con una specie di «big bang» (la legge dell’Ulivo, approvata con un referendum) che sconvolge i vecchi principi dello Stato centralizzatore, ma non dice come dovremmo risolvere gli inevitabili conflitti di competenza che sorgeranno tra il centro e la periferia. Chi vuole avere un’idea dei molti granelli di sabbia che sono stati sparsi a piene mani nell’ingranaggio della Repubblica italiana può leggere una bella analisi di Peppino Calderisi e Marco Taradash pubblicata dal «Foglio» di ieri. Constaterà tra l’altro che ci siamo imbarcati a cuor leggero in una fase di inevitabile turbolenza costituzionale senza un arbitro (la Camera delle Regioni, al posto del Senato) a cui attribuire il compito di segnare, volta per volta, il confine tra poteri statali e poteri regionali. I conflitti, in queste condizioni, finiranno tutti sul tavolo della Corte costituzionale e l’Italia rischia di diventare il Paese più litigioso d’Europa. Non basta. Il buon senso suggeriva che la classe politica, prima di approvare una legge sul federalismo, mettesse il governo centrale al riparo dalla sua storica instabilità e rafforzasse il mandato nazionale del presidente del Consiglio. Ha fatto, come è noto, esattamente il contrario: ha creato i governatori prima di creare il premier, ha legittimato le ambizioni della periferia prima di garantire al capo del governo l’esercizio delle responsabilità nazionali.
Tutto ciò accade, è bene ricordarlo, nel mezzo di una crisi mondiale che sta mettendo a dura prova la credibilità dell’Italia e in un momento in cui il governo sta aprendo, a sua volta, un conflitto con l’ordine giudiziario. Personalmente non credo che il Paese debba abbandonare la prospettiva federalista, rinviarne l’applicazione o rinunciare alla riforma della magistratura. Ma dobbiamo evitare che il processo divenga rissoso e trasmetta al mondo l’immagine di un’Italia interamente assorbita dalle proprie beghe politiche e istituzionali. Forse la migliore soluzione per il momento, in mancanza di una nuova Camera alta, è la «cabina di regia» proposta dal presidente della Regione Piemonte. Dovrà essere tuttavia seriamente e credibilmente bipartisan. Quando impose la propria legge federale il governo dell’Ulivo commise un errore. Ma quell’errore non autorizza il governo ad agire da solo e a commetterne ora un secondo, altrettanto grave.

 
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