Luigi Ferrajoli indaga il nuovo culto del capo.
Se assolutismo fa rima con maggioritario

Da LIBERAZIONE sabato 19 ottobre 1996

Un segno e insieme un prodotto della crisi che sta attraversando nostra democrazia è il mutamento di senso subito, nell'uso corrente, da molti termini del linguaggio politico: sovranità popolare, rappresentanza, democrazia politica, liberal-democrazia, stato di diritto, garantismo.

Alterazioni semantiche

Si è innanzitutto alterato, nella cultura politica dei maggiori partiti e, purtroppo, anche nel senso comune, l'idea stessa di democrazia. La democrazia - secondo l'immagine semplificata propagandata dalla destra, ma penetrata ormai anche in una parte della sinistra - consisterebbe essenzialmente nell'onnipotenza della maggioranza impersonata da un leader quale rappresentante diretto della sovranità popolare.
Si tratta di un'idea nuova nella cultura politica del nostro paese, affermatasi in questi anni insieme a quella che ben possiamo chiamare l'"ideologia del maggioritario". Ma è un'idea vecchissima nella storia del pensiero politico: è l'idea del governo degli uomini contrapposta al governo delle leggi è criticata già da Platone ed Aristotele.

Schmitt e Kelsen

 Un'illusione che sempre si ripropone nei momenti di crisi della democrazia. Basti ricordare la polemica, all'inizio degli anni Trenta, tra Hans Kelsen, il più grande giurista del nostro secolo e Carl Schmitt, che poi finì per aderire al nazismo. Alla tesi antiparlamentari e presidenzialistiche di Schmitt - il quale contrapponeva allo "smembramento partitico" del corpo sociale espresso dal parlamento il carattere unitario ed organico della rappresentanza ad opera di un Presidente eletto del popolo - Kelsen replicava che un organo monocratico, per di più svincolato da un rapporto permanente di fiducia con la sua base elettorale, non può, per sua natura, rappresentare al pari di un parlamento la pluralità delle forze e degli interessi in conflitto nella società, ma solo la parte vincente nelle elezioni. E aggiungeva: L'idea di democrazia implica assenza di capi. Interamente nel suo spirito sono le parole che Platone, nella sua Repubblica (III, 6) fa dire a Socrate, in risposta alla domanda su come dovrebbe essere trattato, nello Stato ideale, un uomo dotato di qualità superiori, un genio insomma: Noi lo onoreremmo come essere degno d'adorazione, meraviglioso ed amabile; ma dopo avergli fatto notare che non c'è uomo di tal genere nel nostro Stato, e che non deve esserci, untogli il capo ed incoronatolo, lo scorteremmo fino alla frontiera.

Un'idea corrotta

Ebbene: oggi, nel nostro paese, è questa idea corrotta della democrazia come delega a un capo che viene demagogicamente agitata e rischia di affermarsi. E rischia di affermarsi insieme a una lunga serie di corollari: la squalificazione delle regole e dei limiti al potere di maggioranza, e quindi della divisione dei poteri e delle funzioni di controllo e garanzia della magistratura e dello stesso parlamento; l'idea che il consenso della maggioranza legittimi ogni abuso; la pretesa, avanzata apertamente dalla destra alla vigilia delle elezioni, che la stessa Costituzione sia proprietà della maggioranza che potrebbe ogni volta riscriverla a suo piacimento; il rifiuto infine di quel sistema di mediazioni, di limiti, di contrappesi e di controlli che formano la sostanza di quella che, nel documento elaborato nello scorso aprile da oltre cento giuristi, abbiamo chiamato "democrazia costituzionale".

Deriva plebiscitaria

Ne consegue una connotazione plebiscitaria della democrazia, con inevitabili tendenze assolutistiche che ben si accordano, del resto, con le culture politiche della nuova destra: da un lato la concezione antiparlamentare della democrazia come adesione passiva ad un capo carismatico, dall'altro l'idea della liberal-democrazia come assenza di limiti così alla libertà di mercato come ai poteri di maggioranza.
Giacché un mutamento di senso è intervenuto, in questi anni, anche nell'uso delle parole libertà e liberalismo, che parimenti, nel senso comune, si sono sempre più venute identificando con l'assenza di regole e di limiti alla libertà d'impresa.
Ne è risultato un capovolgimento di senso dell'espressione "liberal-democrazia".

La liberal-democrazia

Fino a pochi anni fa "liberal-democrazia" era una nobile parola che designava un sistema democratico informato alla tutela delle libertà individuali, al rispetto del dissenso e delle minoranze, alla difesa dello stato di diritto e della divisione dei poteri, nonché alla rigida separazione tra la sfera pubblica dello stato e quella privata del mercato. L'esatto contrario, insomma, della parola "assolutismo". Nell'uso fattone in Italia dal "Polo delle libertà" e penetrato ormai nel linguaggio corrente, essa ha finito invece per designare la convergenza di due assolutismi: l'assolutismo della politica e l'assolutismo del mercato; l'onnipotenza della maggioranza e l'assenza di limiti alla libertà d'impresa; l'insofferenza per le regole e per i controlli così nella sfera pubblica come nella sfera economica.

La concezione del garantismo

Si capisce, su questa base, un altro mutamento di senso prodottosi nel linguaggio della destra e che ritarda la concezione del garantismo e dello stato di diritto. Io non ho dubbi sul difetto di garanzie che affligge - e non da oggi - la giustizia penale: sul fatto che il nostro processo penale, a pochi anni dalla sua riforma, si è trasformato in una macchina da guerra fondata sull'assoluto primato della fase delle indagini, sul predominio del pubblico ministero, sull'irrilevanza della difesa e sugli abusi della custodia cautelare.
Così come non ho dubbi sull'involuzione culturale che è in atto nella magistratura e che si manifesta nell'intolleranza per la critica dei suoi provvedimenti e nella difesa corporativa - ottusa ed autolesionistica giacché rischia, essa sì, di compromettere la credibilità della giurisdizione - di tutta la legislazione esistente nonché delle prassi antigarantiste da essa alimentate. E tuttavia "garantismo" e "stato di diritto" sono paradigmi teorici di carattere generale, che significano sistema di limiti e vincoli a tutti i poteri - non solo al potere giudiziario ma anche al potere legislativo e a quello esecutivo, e non solo ai poteri pubblici ma anche a quelli privati - a garanzia dei diritti fondamentali di tutti: dei diritti di libertà ma anche dei diritti sociali.

Insofferenza per la legalità

Al contrario, il garantismo recentemente scoperto dalla destra - e che è stata colpa imperdonabile della sinistra l'averlo ad essa consegnato - riguarda unicamente il potere giudiziario e si coniuga quindi, presso le forze del Polo, con l'insofferenza per la legalità e per la giurisdizione: un'insofferenza dettata non tanto dalla volontà di limitare il potere giudiziario, quanto piuttosto da quella di liberare da ogni limite e controllo legale il potere politico e quello economico. Significa perciò esattamente il contrario di "garantismo" quale paradigma teorico generale: che vuol dire invece soggezione alla legge di qualunque potere a garanzia dei diritti di tutti e sistema di vincoli e di controlli giurisdizionali idonei a impedire il formarsi di poteri assoluti, sia pubblici che privati. Così come sono incompatibili con l'idea stessa di "costituzione", ancor prima che con la Costituzione del '48, i due assolutismi - dei poteri politici di maggioranza come dei poteri economici di mercato - che formano la sostanza del nuovo credo "liberal-democratico".

Limiti e vincoli

Giacché l'essenza del costituzionalismo e del garantismo risiede precisamente nell'insieme dei limiti e dei vincoli imposti dalle costituzioni a tutti i poteri. E postula conseguentemente una concezione della democrazia come sistema fragile e complesso di separazioni ed equilibri tra poteri, di limiti di forma e di sostanza al loro esercizio, di garanzie dei diritti fondamentali, di tecniche di controllo e riparazione contro le loro violazioni. Un sistema nel quale la regola della maggioranza e quella del mercato valgono solamente per quella che possiamo chiamare la sfera di ciò che è discrezionale, circoscritta e condizionata dalla sfera di ciò che è vincolato e che è appunto formata dai diritti fondamentali di tutti: i diritti di libertà, che nessuna maggioranza può violare, e i diritti sociali - alla salute, alla scuola, alla previdenza e alla sussistenza - che qualunque maggioranza è obbligata a soddisfare. E' questa la sostanza della democrazia - il patto di convivenza basato sull'uguaglianza en droits, lo stato sociale, oltre che liberale, di diritto - garantita dalle costituzioni: la dichiarazione dei diritti affermò la costituzione francese del 1795, contiene gli obblighi dei legislatori dalla cui osservanza dipende la loro legittimazione. Ma è precisamente questa sostanza della democrazia costituzionale quale sistema complesso di regole, di vincoli e di equilibri - il parlamentarismo e insieme lo stato sociale, la divisione dei poteri e insieme le garanzie dei diritti - il principale bersaglio della destra ormai da un quindicennio: di Craxi prima, poi di Forza Italia e di Alleanza Nazionale.

Tiro al bersaglio

Il bersaglio è non solo la Costituzione del '48 e il suo carattere antifascista. Esso è ancor prima l'idea stessa di costituzione quale sistema di vincoli e garanzie: è il costituzionalismo in quanto tale. Ciò che gran parte della sinistra non ha capito, in tutti questi anni, è che dietro l'aggressione della destra alla costituzione repubblicana, cui essa stessa del resto ha ampiamente contribuito, si celava un attacco all'idea stessa della democrazia costituzionale; e che l'alternativa tra presidenzialismo e democrazia parlamentare - non in astratto, sul piano della modellistica istituzionale, ma in concreto, con questa destra demagogica e qualunquista e con questa anomalia tutta italiana del partito-azienda e televisivo - equivale all'alternativa tra i due modelli di democrazia fin qui illustrati: la democrazia plebiscitaria impersonata da un leader e la democrazia costituzionale fondata sulle garanzie del cittadino contro la legge del più forte.

Subalternità a sinistra

Questa incomprensione della sinistra è evidentemente il segno della sua subalternità culturale e politica alla destra. Da anni la sinistra, su questi temi., insegue la destra tentando ogni volta di appropriarsi delle sue parole d'ordine - la riforma elettorale, poi il governo del premier, poi ancora l'assemblea costituente, infine l'accordo sul cosiddetto "semi-presidenzialismo francese" - senza mai capire che ogni suo cedimento era la premessa di un cedimento successivo e un nuovo alimento al qualunquismo e al rafforzamento delle pretese avversarie.
Dopo la recente vittoria elettorale era ragionevole sperare in un mutamento di linea. E invece si è tornati a parlare di presidenzialismo e di riscrittura integrale della costituzione, fino ad escogitare quell'ennesimo strappo alla medesima che è stata l'istituzione della Commissione bicamerale con annesso plebiscito, tramite una legge di revisione della stessa norma sulla revisione costituzionale. Già in passato, in occasione di un'altra Bicamerale, l'art. 138 fu riformato, ed anche allora "una tantum".
Non era possibile, almeno una volta tanto, rispettare l'art. 138, risparmiando tra l'altro i tempi di approvazione della legge sulla sua revisione e mettendosi al riparo dal referendum abrogativo oggi minacciato su di essa dalla destra?

La bicamerale

Resta aperto il problema della portata dei poteri della Commissione bicamerale, In questi anni abbiamo a lungo discusso di "potere costituente" e di "potere di revisione costituzionale" , e almeno su un punto la cultura giuridica è stata consenziente: il solo potere ammesso dalla costituzione è appunto il potere di revisione, che è un potere costituito cui non è consentita la riscrittura dell'intero testo costituzionale ma solo emendamenti di sue singole norme; laddove il potere costituente - quello evocato con la proposta di un'assemblea costituente, non prevista dalla costituzione - è un potere non costituito, alternativo e contrapposto alla costituzione vigente e quindi eversivo.

La corsa alla revisione

E tuttavia la scelta della Bicamerale in luogo dell'assemblea costituente non è stata affatto dettata da ragioni di fedeltà costituzionale, ma unicamente dall'argomento che essa era la via più rapida e sbrigativa. Sicché lo stesso Potere di revisione rischia di configurarsi come un potere formalmente costituito ma sostanzialmente costituente, Il pericolo, in altre parole, è che si pensi che tramite la Commissione bicamerale si possano attuare le stesse riforme che sarebbero state possibili tramite di un'(illegittima) assemblea costituente. Di qui la necessità di ribadire i limiti sostanziali del potere di . revisione: la necessità che qualunque riforma si muova nel solco della costituzione vigente, senza stravolgerne l'assetto parlamentare e la divisione dei poteri. Basterebbe questo a precludere come illegittimo l'abbandono del sistema parlamentare e la scelta di quello presidenziale, In ordine al quale mi limiterò qui a registrare due fallacie presenti nell'attuale dibattito politico.

Nessi fallaci

La prima fallacia riguarda il nesso da più parti istituito tra federalismo e presidenzialismo. Che il nostro ordinamento abbia bisogno di una riforma che dia effettività al sistema delle autonomie è oggi un'esigenza urgente di democrazia. Ma molti commentatori - penso alla rivista Liberal - pretenderebbero di agganciare il presidenzialismo al federalismo quasi ne fosse un corollario: nel momento in cui l'Italia si divide in stati federali, si dice, sarebbe necessario un organo, il presidente eletto dal popolo appunto, che assicuri visibilmente l'unità nazionale.
La migliore confutazione di questo non sequitur resta tuttora quella svolta da Kelsen nella polemica con Schmitt che ho all'inizio ricordato. Schmitt sosteneva allora la stessa tesi sostenuta oggi da Ferdinando Adornato: il presidente elettivo vale ad assicurare l'unità nazionale, incarnando la sovranità popolare. In termini pseudo-democratici, obiettava Kelsen, la formula suona press'a poco così: il popolo è un collettivo unitario omogeneo e ha quindi un interesse collettivo unitario che si esprime in una volontà collettiva unitaria di cui è artefice e strumento il capo dello stato.
Ebbene, osservava Kelsen, il carattere ideologico di questa interpretazione è palese, dato che siffatta volontà collettiva non esiste e proprio l'elezione di un presidente - rappresentativo di una maggioranza e talvolta di una minoranza - vale a occultare il contrasto d'interessi che si esprime nei partiti politici e nel conflitto di classe e insieme ad escluderne qualunque composizione o mediazione.
Si può sostenere il presidenzialismo con molti argomenti, tutti a mio parere irragionevoli. Ma un argomento così palesemente organicista e illiberale come è quello dell'unità del popolo realizzata dalla persona del capo dello stato segnala un immaginario qualunquista che, se è del tutto coerente con le tradizioni della nostra destra estrema e post-fascista, è decisamente inammissibile per quanti si richiamano alla tradizione liberale.
La seconda fallacia riguarda il nesso tra presidenzialismo ed efficienza. Per un antico riflesso reazionario si è soliti identificare l'efficienza del sistema politico unicamente con l'efficienza dell'esecutivo, e non anche con quella del parlamento.
Anche questa è un'opzione ideologica smentita dall'esperienza. Basti pensare alla stabilità di governo del sistema parlamentare tedesco e all'instabilità del . bizzarro "semi-presidenzialismo" francese, che sembra congegnato, a causa del suo carattere bicefalo e del virtuale conflitto tra presidente e maggioranza del primo ministro, per generare la massima ingovernabilità.
Per quanto fallaci, questi argomenti hanno tuttavia la forza dei luoghi comuni, oggi accresciuta dallo stato comatoso nel quale versano le nostre istituzioni parlamentari, nonché dalla strategia della destra che punta ormai, a sostegno dell'alternativa presidenzialista, alla loro paralisi definitiva.

Alcuni obiettivi

Per questo oggi è essenziale che la Commissione bicamerale non fallisca il suo obiettivo: quello di una riforma costituzionale alternativa al presidenzialismo ma in grado di meglio soddisfare le istanze di efficienza e rappresentatività ad esso illusoriamente associate. E' in questa direzione che si muovono le proposte indicate nel nostro documento di aprile per una democrazia costituzionale: la differenziazione del sistema bicamerale tramite la riserva a una sola delle camere delle funzioni legislative e di controllo e la trasformazione dell'altra in una Camera delle autonomie sul modello del Bundesrat tedesco; la definizione delle materie di competenza del parlamento e quindi una chiara distinzione di ruoli tra legislazione e amministrazione, nonché tra Stato e Regioni; una drastica riduzione del numero dei parlamentari; l'introduzione infine, come in Germania, dell'elezione parlamentare del presidente del consiglio e della sfiducia costruttiva.
Ma il presupposto di questa difficile battaglia deve essere oggi la riparazione dei guasti prodotti in questi anni dal logoramento del costituzionalismo e la riaffermazione nel senso comune dei valori della democrazia costituzionale, parlamentare e pluralistica. La lotta per il diritto e per la democrazia è infatti soprattutto una battaglia culturale, volta a una rifondazione di senso del patto costituzionale come garanzia dell'uguaglianza e dei diritti vitali della persona: i quali altro non sono che le leggi del più debole, contro la legge del più forte che prende il sopravvento, insieme ai mutamenti istituzionali che ne sono espressione, quando il loro senso si smarrisce.


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