Regimi globalitari
 di Ignacio Ramonet
 da Le Monde diplomatique supplemento a "il manifesto" del 16/01/97

Si definivano totalitari quei regimi che non ammettevano nessun tipo di opposizione organizzata, che subordinavano i diritti della persona alla ragion di stato e nei quali il potere politico dirigeva sovranamente la totalità delle attività della società dominata.

In questo fine secolo, un altro tipo di totalitarismo succede a quei sistemi: quello dei "regimi globalitari", fondati sui dogmi della globalizzazione (1) e del pensiero unico, che non ammettono nessun'altra politica economica, subordinano i diritti sociali dei cittadini alla ragione competitiva e cedono ai mercati finanziari la direzione totale della società dominata.

Nelle nostre società frastornate nessuno ignora la potenza di questo nuovo totalitarismo. Secondo un recente Sondaggio d'opinione, il 64% degli intervistati ritiene che "sono i mercati finanziari ad avere il maggior potere oggi in Francia (2)." Dopo il dominio dell'economia agraria, che si è protratto per millenni, e quello dell'economia industriale che ha segnato il XIX e il XX secolo, siamo entrati nell'era dell'economia finanziaria globale. La mondializzazione ha ucciso il mercato nazionale, che costituiva uno dei fondamenti del potere dello stato-nazione. Annullandolo, ha reso largamente obsoleto il capitalismo nazionale e sminuito il ruolo dei poteri pubblici. Gli stati non hanno ormai più la capacità di opporsi ai mercati. Il volume delle riserve delle banche centrali è irrisorio a fronte della forza d'urto degli speculatori.

Gli stati non dispongono più dei mezzi per frenare i formidabili flussi dei capitali, né per contrastare l'azione dei mercati contro i loro interessi e quelli dei cittadini. I governanti si piegano alle consegne generali di Politica economica definite da organismi mondiali quali il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale o l'OCSE. In Europa, i celebri criteri di convergenza stabiliti dal Trattato di Maastricht (deficit di bilancio e indebitamento pubblico ridotti, inflazione contenuta) esercitano una vera e propria dittatura sulla politica degli stati , rendono fragile il fondamento della democrazia e aggravano la sofferenza sociale.

Se i dirigenti affermano di credere nell'autonomia politica - "Noi non siamo legati mani e piedi in un mondo che ci imporrebbe la sua volontà" dichiara qualcuno (3) - la loro volontà di resistenza ha tutta l'aria di un bluff, dato che aggiungono immediatamente, in guisa di constatazione: "La situazione internazionale è caratterizzata dal libero movimento dei capitali e dei prodotti - ciò che si chiama mondializzazione". E reclamano con insistenza "sforzi di adattamento" a questa situazione. Ora, in circostanze del genere, cosa significa adattarsi.? Semplicemente, ammettere la supremazia dei mercati e l'impotenza dei politici.

E' questa la logica dei regimi globalitari. Favorendo, nel corso degli ultimi due decenni, il monetarismo, la deregulation, il libero scambio commerciale, il libero flusso dei capitali e le privatizzazioni massicce, alcuni responsabili politici hanno consentito il trasferimento di decisioni cruciali (in materia di investimenti, di occupazione, di sanità, di educazione, di cultura, di difesa dell'ambiente) dalla sfera pubblica a quella privata. Di conseguenza, attualmente oltre la metà delle 200 maggiori economie del mondo non appartengono a paesi, bensì a imprese . Il fenomeno della multinazionalizzazione dell'economia si è sviluppato in maniera spettacolare. Negli anni 70, le società multinazionali era appena alcune centinaia, mentre oggi il loro numero ammonta a oltre 40.000...
Se poi si considera il fatturato globale delle 200 principali imprese del pianeta, la sua somma rappresenta oltre un quarto dell'attività economica mondiale; e tuttavia queste 200 società danno lavoro soltanto a 18,8 milioni di dipendenti, vale a dire meno dello 0.75% della manodopera planetaria. .. Il fatturato della General Motors è più elevato del prodotto interno lordo (Pil) della Danimarca; quello della Ford è maggiore del Pil del Sudafrica, e quello della Toyota supera il Pil della Norvegia. E ci troviamo qui nel campo dell'economia reale, che produce e scambia beni e servizi concreti. Se vi si aggiungono i maggiori attori dell'economia finanziaria (il cui volume è 50 volte superiore a quello dell'economia reale), cioè i principali fondi pensione americani e giapponesi che dominano i mercati finanziari, il peso degli stati appare trascurabile.

Un numero sempre maggiore di paesi, che hanno massicciamente venduto le loro imprese pubbliche al settore privato e deregolamentato il loro mercato, sono ormai proprietà di grandi gruppi multinazionali. Questi ultimi dominano interi settori dell'economia del Sud, e si servono degli stati locali per esercitare pressioni in seno agli organismi internazionali e ottenere le decisioni politiche più favorevoli alla prosecuzione del loro dominio globale.

Questi fenomeni di mondializzazione dell'economia e di concentrazione del capitale, al Sud come al Nord, frantumano la coesione sociale, aggravando dovunque le disuguaglianze economiche, che progressivamente si accentuano con la crescente supremazia dei mercati. Perciò l'obbligo della rivolta, il diritto alla sommossa ridivengono imperativi di valore civile, per rifiutare questi inaccettabili regimi globalitari. Non è forse ora di rivendicare un nuovo contratto sociale su scala planetaria? (1) Leggere "Scénarios de la mondialisation". Manière de voir, n° 32. novembre 1996. (2) La Vie, 21 novembre 1996. (3) "Entretien avec Edouard Balladur", Le Monde, 18 dicembre 1996.

 


Indice Documenti e Links