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Franco Ragusa
La “riforma”
truccata
Cimentandosi nello studio delle vicende costituzionali italiane, non può sfuggire l'enorme lentezza
con la quale sono stati via via predisposti i dispositivi normativi atti a realizzare i principi
formalmente enunciati nell'attuale Carta Costituzionale.
Tutto questo è in gran parte imputabile ai costituenti che, per troppe questioni, si sono limitati ad
enunciare delle linee guida, rimettendosi all'attività del Parlamento per tutto quanto riguardava la
fase attuativa vera e propria.
Prendendo ad esempio l'art. 75, che istituisce l'istituto del referendum abrogativo, nell'ultimo
comma può leggersi: “la legge determina le modalità di attuazione del referendum.” Si sono
dovuti attendere “soltanto” 22 anni per veder realizzata questa legge; 22 anni per i quali è così
venuta a mancare la possibilità di ricorrere ad uno strumento formalmente previsto, ma
sostanzialmente negato.
Stessa sorte è toccata all'attuazione delle Regioni ordinarie. Il primo comma dell'art. 128, infatti,
affida ad una legge della Repubblica “il sistema d'elezione, il numero e i casi di ineleggibilità e
di incompatibilità dei consiglieri regionali”. Legge che è arrivata soltanto 20 anni dopo, nel
febbraio del 1968.
Ai costituenti va inoltre imputato un “eccesso di sintesi”, riscontrabile in alcuni articoli, che ha
lasciato libero il campo ad un'ampia attività d'interpretazione.
Nell'art. 138, ad esempio, che tratta delle revisioni costituzionali, non è specificato il tipo di
revisione permessa: se soltanto parziale e non anche di tipo generale.
Altra questione che salta agli occhi, è la mancata predisposizione di un “controllo di legittimità
costituzionale” adeguato.
Si pensi soltanto alla mancata previsione di un qualsiasi controllo preventivo (ammesso soltanto per
le leggi regionali), combinato con le eccessive difficoltà che s'incontrano nel cercare d'investire la
Corte Costituzionale delle questioni di illegittimità, che tanti problemi ha procurato in quanto spesso
si è rivelato arduo porre rimedio a situazioni consolidate che avevano nel frattempo prodotto degli
effetti praticamente irreversibili. In tal senso, ritardare ulteriormente la predisposizione di
meccanismi istituzionali idonei ad impedire abusi di ogni tipo, spesso compiuti da legittime
maggioranze parlamentari, è sicuramente configurabile come un atto doloso teso a mantenere un
certo status quo.
Per essere chiari: di fronte alla possibilità di poter “legalizzare”, anche soltanto provvisoriamente,
dei “fatti compiuti”, non c'è Carta Costituzionale che tenga. 1
Ma per cercare di risolvere il tipo di problemi poc'anzi accennati, tra l'altro individuati già da
decenni, non c'è mai stata una grande mobilitazione, un forte impegno da parte dei politici; neanche
in quest'ultimo periodo nel quale sono divenuti di pressante attualità.
Al contrario, al solo accenno di cambiare la Forma di Governo, si è fatto avanti un tale nugolo di
improvvisati statisti da gettare nello sconcerto anche chi potrebbe trovarsi d'accordo con l'idea di
mettere mano, in profondità, alla nostra Carta Costituzionale. Ed è paradossale, poi, che di fronte a
questa ventata cosiddetta rinnovatrice, portata avanti a colpi di mano e di semplificazioni delle
questioni da legittimare a botte di maggioranze occasionali, a ritrovarsi tra le fila dei conservatori più
ostinati, in un incredibile – quanto poco credibile – difesa dell'esistente, siano proprio coloro che da
anni hanno indicato come prioritario riformare il sistema.
Un paradosso che dovrebbe far riflettere, ma che viene invece usato strumentalmente da parte di
chi intende il confronto democratico come un'inutile formalità che fa perdere soltanto tempo, forte
di un sistema di garanzie rivelatosi inefficace che ha permesso grande facilità d'azione a chi si è
mosso, con fare ostruzionistico e distruttivo, per impedire la naturale evoluzione dell'attuale sistema
costituzionale; mentre per chi ha cercato inutilmente di attuare quanto stabilito dalla Carta, i mezzi
istituzionali messi a disposizione si sono rivelati soltanto degli impedimenti.
L'improvvisa ricerca di un accordo sul presidenzialismo tentata da D'Alema e Berlusconi, e la
vicenda di alcuni referendum – da quello sul finanziamento pubblico ai partiti a quello elettorale –
sono poi episodi che hanno palesato tutta la pericolosità di un approccio alle questioni scollegato
da preventivi approfondimenti all'interno di tutte le espressioni sociali e legato soltanto a degli
interessi da “ceto politico”.
Lo strumento referendario di tipo abrogativo, al quale non si può far altro che aderire o non
aderire, non essendo prevista una qualsiasi forma di referendum alternativo con il quale poter
proporre delle diverse soluzioni per il medesimo problema, è stato di fatto usato per ottenere
deleghe in bianco, legittimazioni di posizioni politiche che andavano ben oltre lo specifico del
contendere.
Ed è stato sin troppo facile, per i cultori della “semplicità”, approfittare di una momentanea
convergenza d'interessi – forti della travolgente spinta emotiva proveniente dai cittadini, desiderosi
di liberarsi e di punire la classe politica che li aveva portati alla rovina – proporre strumentalmente2
un referendum prendere o lasciare che non dava spazio alle sfumature, agli approfondimenti. Per
chi non ha accettato, invece, di dare delle facili ed acritiche adesioni ad un cambiamento che poteva
significare un passo indietro (timori ampiamente confermati dalle cronache politiche dei giorni
nostri), non è rimasto altro da fare, non avendo i mezzi istituzionali per poter proporre qualcos'altro
di concreto, che difendere l'indifendibile, apparendo così come le bestia nera della conservazione.
1 Un riferimento ad un'esplicita circostanza che conferma questo tipo di timore, può essere individuato nelle vicende legate alla legge Mammì: nata apposta per fotografare, quindi legalizzare, una situazione esistente (situazione consolidatasi, per lo più, attraverso una serie di atti al “limite”, per usare un eufemismo, della legalità), dichiarata anticostituzionale in alcuni suoi aspetti soltanto un anno fa, ma che ormai ha prodotto delle conseguenze di fatto insanabili. E questo sia sotto il profilo del consolidamento di un monopolio privato con conseguente mancato sviluppo di un'emittenza televisiva diffusa, e sia sotto quello della lesione grave a degli irrinunciabili principi democratici: par condicio e conflitto d'interessi.
2 “La parola al popolo contro il sistema dei partiti!”
Ma come dimenticare che a sostenere con forza il referendum per il passaggio dal proporzionale al
maggioritario fu proprio la stragrande maggioranza dei partiti? Probabilmente i numeri per cambiare
c'erano già da tempo.
Ma per fregature del genere è meglio evitare di passare attraverso la normale attività legislativa del
Parlamento: varando un sistema d'elezione fortemente premiante si potrebbe infatti incorrere
nell'accusa di truffa.
Molto meglio l'orgia plebiscitaria con la quale il popolo ha aderito di sua “spontanea volontà”!
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