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Franco Ragusa
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Appendice
REFERENDUM ABROGATIVO Si è molto parlato, negli ultimi tempi, di un uso eccessivo e
distorto del referendum di tipo abrogativo previsto dall'art. 75 della
nostra Costituzione.
Uno dei maggiori limiti del referendum di tipo abrogativo è quello
di non poter permettere la definizione, nel momento stesso dell'abrogazione,
di un'eventuale dottrina integrativa laddove questa si potrebbe rendere
necessaria o comunque possibile. Non esiste infatti nessuna possibilità,
da parte dei comitati promotori, o del cittadino chiamato a rispondere
"Sì o No" riguardo all'abrogazione di una Legge o di una parte di
essa, di poter indicare le linee guida dei successivi passaggi idonei a
perfezionare o a dare un determinato significato normativo all'eventuale
vittoria dei Sì.
Questa prima considerazione, credo che debba farci riflettere riguardo alle reali intenzioni con le quali l'Assemblea Costituente si accinse ad istituire e regolamentare questo strumento di democrazia diretta. È evidente, infatti, che il poter intervenire soltanto su quello che già vige, dovrebbe porre un limite tecnico insuperabile, non casuale, a tutti coloro che, invece, tendessero ad abrogare non per chiudere una questione, ma per aprirla in un altro modo. Ma di questo limite tecnico non se ne è mai curato nessuno, né nel senso di eliminarlo e né nel senso di tenerne conto fino in fondo, tant'è che è divenuto pacifico ritenere che con l'atto abrogativo non ci si limiti a chiedere soltanto di esprimere una volontà meramente affermativa oppure negativa – del tipo: "Vuoi il divorzio oppure no? Vuoi depenalizzare l'uso di droghe oppure no?" – ma che con questo si tenda anche ad innescare un processo di tipo propositivo. Questo salto in avanti è stato reso possibile dall'instaurarsi di una prassi, in base alla quale si è ritenuto di dover adottare degli interventi legislativi ogni qual volta si è posta "l'esigenza" di dover perfezionare determinati risultati referendari: o al fine di poter rendere le nuove normative di perfetta attuazione, o al fine di non lasciare scoperte determinate materie per le quali si riteneva essenziale che ci fosse un'adeguata copertura normativa. Appare allora logico, in tal senso, che per questo tipo d'interventi si debba far ricorso ad un'attività interpretativa che faccia riferimento ad una presunta volontà normativa implicitamente espressa con l'atto abrogativo. Ma i problemi, accettando questo tipo di logica, anziché ridursi tendono ad aumentare, e non potrebbe essere altrimenti, visto che ci si viene a trovare in un terreno dove non vigono più regole certe. Infatti, è proprio a partire dalla fine di ogni tornata referendaria che s'innescano le inevitabili polemiche riguardo al come interpretare la volontà di chi sembrerebbe si sia espresso in modo univoco: se è infatti pacifico che con l'abrogazione si sia detto un chiaro NO riguardo ad un qualcosa che si vuole non debba più esistere, o che non debba più esistere in un dato modo; nessuna certezza può però esserci riguardo a quello che in sua sostituzione i cittadini potrebbero volere. Insomma, tra il Sì ed il No potrebbero tranquillamente collocarsi una variegata categoria intermedia di "Sì al cambiamento, ma a queste condizioni"; ma come già accennato, l'esclusione di ogni attività propositiva, imposta allo strumento referendario, nulla permette riguardo al modo di come individuare con certezza la posizione intermedia che meglio riesca a rappresentare la volontà dei cittadini. Uno dei casi più clamorosi di presunto tradimento del risultato referendario ci fu in occasione dell'abrogazione delle norme che delimitavano in pochi casi circoscritti la responsabilità civile dei giudici. Ben presto, infatti, il Parlamento approvò una nuova legge che, secondo la parte del Comitato promotore rappresentato dai radicali, altro non era che un ritorno camuffato alle norme abrogate, tanto da far ritenere a Mauro Mellini che ci fossero dei margini d'intervento giuridico tali da poterne decretare l'annullamento:
L'accenno qui fatto ad un'eventuale approvazione della “Legge 13/4/88 Nº
117”, prima che si svolgesse il referendum, fa riferimento ad una sentenza
della Corte (Nº 68 del 16/5/78) che, accogliendo un ricorso dei radicali,
determinava che si potevano sospendere le operazioni referendarie già
avviate soltanto in quei casi nei quali con degli interventi legislativi
fossero state nel frattempo cambiate nella sostanza la norme che
con il referendum si volevano abrogare.
Per Mellini era evidente che la nuova legge varata dal Parlamento fosse molto simile, nella sostanza, alle norme abrogate dai cittadini, per cui pose la questione del come comportarsi anche per il dopo referendum: se si accettava il principio che il varo di quella legge non avrebbe potuto avere l'effetto di far sospendere le operazioni referendarie, era chiaro che gli effetti abrogativi si sarebbero trasferiti su quella nuova normativa e che quindi, visti i risultati, anche se promulgata soltanto successivamente al risultato referendario, andava ritenuta come abrogata. A parte il fatto che un eventuale giudizio di merito avrebbe potuto dare torto a Mellini, nel caso cioè che si fosse giudicato che quella legge poteva ben ritenersi soddisfacente al fine di poter decretare sospese le operazioni referendarie, va comunque evidenziato che quella di Mellini non poteva essere una strada percorribile, avendo comunque il Parlamento la legittimità, nel tempo, di poter legiferare senza nessun limite di competenza, e non essendoci nessun elemento probante che potesse permettere di poter determinare con precisione la presunta volontà dei cittadini che si era espressa nel voto referendario; laddove era invece lecito ritenere che questa volontà non aveva avuto modo di potersi esprimere con chiarezza. Anche nel caso specifico, infatti, come poter determinare quale livello di responsabilità civile, per i giudici, i cittadini avrebbero voluto instaurare? Oppure, erano veramente interessati, i cittadini, al referendum in quanto tale, in riferimento ai contenuti che poteva esprimere, o piuttosto, non avendo altre opzioni a disposizione, lo avevano votato pur non condividendolo in quanto possibile mezzo per poter mettere in discussione il sistema di garanzie a tutela dei diritti dei cittadini? Paradossalmente, aveva in precedenza già risposto, al tipo di rilievo mosso da Mellini, proprio Marco Pannella:
Così, il “referendum abrogativo” che presuppone alla sua base non già una volontà positiva univoca di legiferare ma un “cartello dei no” per l'abrogazione della norma esistente (che può dunque vedere convergere anche forze con ispirazioni e motivazioni e obiettivi mediati diversi o contrapposti) viene abusivamente inchiodato a presupporre ed assumere obiettivi, idee, proposte, tendenze di diritto positivo implicite ma chiare e determinate. Si impone, insomma, una ratio, una economia da “referendum propositivo”, non a caso rifiutato dai costituenti e comunque estraneo alla nostra Costituzione.” (Pannella Marco - AGORA': ARCHIVIO PARTITO RADICALE Nº 2120)
Come si vede, timoroso di vedere sospesa la consultazione referendaria,
il primo a rifiutare qualsiasi logica propositiva, nel senso di poter ritenere
di sapere a priori la volontà degli italiani, fu proprio Pannella;
e questo perché, laddove si fosse accettato il principio che fosse
stato chiaro il risultato finale al quale tendevano i comitati promotori
del referendum, si sarebbe pure potuta mettere in discussione la necessità
giuridica di dover mantenere la scadenza referendaria in tutti quei casi
nei quali ci si poteva trovare in presenza di un intervento legislativo
che andava nella stessa direzione. E giustamente, Pannella rileva come
sia impossibile poter leggere in modo univoco le intenzioni di “forze
con ispirazioni e motivazioni e obiettivi mediati diversi o contrapposti”,
per non parlare, poi, di quello che avrebbero comunque potuto pensare i
singoli cittadini chiamati ad esprimersi.
Ma allora, alla luce di quanto affermato poi in seguito da Mellini, dobbiamo ritenere di trovarci di fronte a tante logiche, tutte buone, a seconda del risultato che si vuole raggiungere? Una logica da seguire prima dello svolgimento del referendum, che tende ad escludere ogni intervento teso a sospenderlo, anche nel caso venisse individuato nell'intervenuta attività del legislatore il recepimento delle intenzioni dei proponenti, in quanto si ritiene che non esista una volontà univoca a cui far riferimento per poter esprimere dei giudizi di merito. Un'altra logica, invece, buona per contestare tutti gli interventi successivi del legislatore, laddove si giudichi che questi non facciano riferimento alla chiara espressione di volontà, questa volta presunta univoca, avutasi con il risultato referendario. Detto questo, è opinione diffusa e ben giustificata che, come
lamentato dai radicali, con la nuova legge sulla responsabilità
civile dei giudici si sia in gran parte tradita la volontà dei cittadini
che si espresse con la vittoria referendaria.
Ma per meglio chiarire questo punto, è opportuno fare un accenno ad uno dei tanti referendum promossi dalla Lista Pannella: quello che riguardava la sanità e che per il quale la Corte Costituzionale ha sentenziato, nel gennaio del 1995, la non ammissibilità. Anche in questo caso, non è tanto la questione giuridica che è interessante prendere in esame, ma quella squisitamente politica che si desume leggendo quanto sintetizzato direttamente dai proponenti:
... Il referendum punta a “mettere in concorrenza” sanità pubblica e intervento privato; questo sistema “porterebbe ad una drastica riduzione dei costi”” (Lista Pannella - AGORA': ARCHIVIO PARTITO RADICALE Nº 5796)
Ora, anche ammettendo di essere d'accordo con questo tipo d'impostazione,
riguardo al come far evolvere il sistema della Sanità in Italia,
viene da chiedersi: ma quale sarebbe stato il risultato normativo effettivamente
raggiunto in seguito all'affermazione del referendum proposto?
In altre parole, cosa avremmo potuto effettivamente determinare, noi cittadini, con la vittoria dei Sì? È evidente che il risultato di un voto favorevole a questo quesito avrebbe poi comportato, da parte della classe politica, il dover elaborare un progetto di riforma ancora tutto da definire. Tanto per fare un esempio: allo stato attuale le assicurazioni private si rifiutano di assicurare i malati cronici e le persone anziane, praticamente il grosso della spesa sanitaria; grosso della spesa che rimarrebbe, quindi, sempre a carico dello Stato, mentre i privati potrebbero tranquillamente garantire un buon servizio a chi sta praticamente bene. Ma allora, come regolamentare questo rapporto anomalo che sposta le risorse economiche in maniera assurda e diseguale nell'ambito di un discorso concorrenziale? Per non parlare, poi, di tutti i problemi relativi ai contenziosi che si aprono con i privati: se ti dimentichi di pagare la polizza, sei immediatamente perseguito e non hai più diritto a nulla; se devi invece farti rimborsare mille Lire, passano anni fra avvocati e tribunali, alle prese con cartelle cliniche contestate e perizie di ogni tipo. E vista questa situazione, sarebbe quanto meno auspicabile che ci si preoccupi di creare delle corsie giudiziarie preferenziali proprio per questo tipo di problemi; che già adesso sono all'ordine del giorno e che tanto contribuiscono a far sentire il cittadino indifeso e che, se presi seriamente di petto, si risolverebbero velocemente. E di queste banalità da risolvere, si potrebbe andare avanti per ore. Quindi, un voto referendario che non avrebbe prodotto risultati normativi concreti, ma che avrebbe assegnato un ampio mandato legislativo al Parlamento contenente soltanto una mera indicazione di massima; e come già scritto in precedenza, la cosa somiglia pochissimo alla democrazia diretta, ma tanto ad una democrazia “eccessivamente” delegata. Si potrebbe subito obiettare: ma lo scopo di alcuni referendum è proprio quello di costringere il Parlamento a legiferare su una data materia secondo l'indicazione venuta dai cittadini. Al che si potrebbe subito replicare: sì, va bene, ma visto che ci tenete tanto a sapere il parere dei cittadini su una determinata questione, ma perché non v'informate pure “di che morte vogliono morire?” Uno potrebbe benissimo accettare la logica contenuta nella proposta referendaria, ma a patto che... si verifichino pure tutta un'altra serie di condizioni. Il dover accettare, invece, i principi contenuti nel referendum proposto, senza avere alcun tipo di certezze sul come verrà poi regolamentato il tutto, equivale a firmare una cambiale in bianco. Fatta quest'altra considerazione, viene allora da chiedersi: ma conviene, al cittadino, e in primo luogo ai promotori, far uso di questo strumento di cosiddetta democrazia diretta, quando per veder realizzato lo scopo ultimo al quale si tende è comunque indispensabile un'attività legislativa successiva? Come si è ripetuto più volte, non si rischia, così, di delegare (in forma eccessiva, visto che poi chi dovra' occuparsene sara' doppiamente legittimato: e dal suo specifico ruolo istituzionale, e in virtu' di una richiesta venuta direttamente dalla sovranita' popolare) la questione proprio a quel Potere rispetto al quale si era invece ritenuto indispensabile intervenire? E sì, mentre da un lato si decide che debba essere direttamente il Popolo ad esprimere la propria opinione, dall'altro si dà poi mandato al Parlamento per tutto quanto riguarda il come regolamentare le nuove situazioni determinate dalla vittoria referendaria; insomma, una sorta di autogol! Evidentemente, da parte dei promotori, l'eventuale incongruenza di fondo del loro comportamento, derivante da un determinato uso dello strumento di democrazia diretta, è giustificata dalle considerazioni da fare riguardo ad un uso "positivo" del referendum come strumento di lotta politica. E con questo, il passaggio dal referendum abrogativo come strumento di democrazia diretta, al referendum abrogativo come strumento in mano ai vertici di partito, è praticamente compiuto. Sotto un certo modo d'intendere la politica, infatti, i risultati referendari
tendono ad assumere, sempre più, la forma di un'attribuzione di
un mandato legislativo incondizionato; ed è quanto alcune forze
politiche, Pannella e il suo Movimento in testa, hanno cercato d'imporre
come metodo per la corretta interpretazione della volontà popolare.
Risposta> “Dopo dovremo badare che non si facciano leggi truffa come accadde dopo il referendum sulla giustizia giusta, quando decidemmo a stragrande maggioranza di estendere la responsabilità civile ai magistrati, ma poi la legge Vassalli in pratica la negò. Sicuramente, sarebbe una legge truffa quella che pretendesse, come si è tentato nella Bicamerale con la proposta Mattarella, di creare un sistema maggioritario al sessanta per cento e proporzionale al quaranta per cento poiché questo sistema risulterebbe complessivamente proporzionale e quindi di piena protrazione dell'attuale regime”. Domanda> Ma anche la vittoria del sì nel referendum del Senato ci darebbe una legge elettorale maggioritaria per tre quarti e proporzionale per un quarto. Risposta> “È vero, ma è soltanto per ragioni tecniche, dovute alla configurazione dell'attuale legge elettorale del Senato che il referendum impugna. Ma il nostro indirizzo politico è tutto maggioritario. E quindi ci batteremo perché la nuova legge della Camera sia una legge interamente maggioritaria.” (Pannella Marco - AGORA': ARCHIVIO PARTITO RADICALE Nº 5215) Come si può vedere dalla seconda risposta, Pannella prende finalmente
atto che esistono dei limiti tecnici – riferiti all'unica possibilità
che si ha per poter intervenire attraverso lo strumento referendario, che
può soltanto abrogare e nella sola misura concessa dalla legge che
va ad impugnare – che non permettono ai proponenti di poter esplicitare,
con un solo atto, tutte le loro reali intenzioni di modifica.
Conclusioni
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