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Iraq: occupazione legittima o resistenza legittima?
 
     15 aprile 2004
 
Come già visto in passato, il sequestro di 4 italiani in Iraq e la drammatica morte di uno di loro hanno messo in evidenza la scarsa affidabilità di gran parte del ceto politico italiano.
Improvvisamente, maggioranza e gran parte dell'opposizione, tutti insieme, accomunati dal comune sentimento patriottico e a difesa della dignità dello Stato: nessun cedimento di fronte ai ricatti delle "bande" armate, dei terroristi.
Cosicché, anziché interrogarsi su cosa stia avvenendo, proprio prendendo spunto da una vicenda che, possa piacere o no ai nostri politici, svela alcuni aspetti inquietanti della presenza straniera in Iraq (spartizione degli appalti; eserciti privati, con quali poteri e conferiti da chi?)  i Rutelli, i Fassino e, ovviamente, tutto il coro dei sostenitori del Governo Berlusconi, hanno preferito concentrare la loro attenzione, o meglio, dirottare la nostra attenzione sul solito alibi della lotta al terrorismo.
Di fatto, anche con il contributo di gran parte delle forze di opposizione, da ieri sono cadute in secondo piano tutte le questioni riguardanti:
   la legittimità della guerra;
   la legittimità di una presenza militare agli ordini esclusivi dell'amministrazione americana;
   la legittimità di un processo di ricostruzione e pacificazione secondo criteri, anch'essi, di esclusiva competenza americana;
   il ruolo di fatto assolto dalle uniche imprese, dei paesi amici la "coalizione dei volenterosi", ammesse alla ricostruzione.

A ben vedere, tutte questioni attinenti la sfera del diritto e rispetto alle quali si deve però ammettere l'assenza di istituzioni internazionali in grado di dare risposte che valgano per tutti e con principi non contrattabili, come invece è stato per le ultime guerre, dove è stata applicata la logica, questa sì ben collaudata, dei due pesi e due misure a seconda delle convenienze del più forte: alcuni paesi meritano la guerra; altri, con gli stessi comportamenti, comprensione.
Nulla di cui  sorprendersi, quindi, se è proprio in ambito internazionale che si debbono registrare le ingiustizie più odiose.
Ma nonostante ciò, e nonostante le resistenze statunitensi, sulla questione irachena sta divenendo sempre più pressante la richiesta di una nuova risoluzione che sostanzialmente trasferisca all'ONU il controllo della transizione irachena oggi nelle mani dall'amministrazione USA.
Per questo, sorprende non poco che il dibattito sulle questioni sopra elencate possa in qualche modo essere stato messo in sordina anche se in presenza della drammatica vicenda che ha coinvolto 4 nostri connazionali.
Anche perché, dare un nome ed un cognome alla presenza straniera in Iraq, e quindi decidere del futuro della missione dei militari italiani, non rappresenterebbe certo un cedimento a chissà quale ricatto, ma la naturale conseguenza della scelta di far assumere all'ONU quel ruolo che oggi è delle forze militari che unilateralmente hanno deciso, in assenza delle armi di distruzione di massa e di legami del vecchio regime con Al Qaeda, di fare "il bene" degli iracheni.
Delle due l'una, infatti: o si riconosce la piena legittimità alla coalizione dei volenterosi, per cui in Iraq vi sono soltanto terroristi che si ostinano ad interferire con il processo di transizione democratica; o si riconosce che in Iraq vi è una situazione d'illegalità internazionale tale da richiedere una nuova risoluzione dell'ONU.
Non si tratta di semplici dettagli.
Riconoscere o meno la legittimità dell'attuale presenza militare straniera in Iraq, per di più nei termini sopra evidenziati, cambia, sostanzialmente, l'approccio nei confronti di tutte le "violenze" compiute a danno della coalizione.
Combattere contro un'occupazione illegale, utilizzando i soli mezzi di cui si può disporre di fronte alla forza militare più forte al mondo, è un diritto inalienabile che non può essere negato in alcun modo.
Altresì, nel caso iracheno, visto il tipo di occupazione, questo diritto non può essere negato neanche quando rivolto contro la presenza civile.
Chi e come, infatti, può oggi disporre delle risorse irachene? Chi e come decide della ricostruzione? Chi e come decide degli appalti? Chi e come assegna questi appalti? Chi e come partecipa a questi appalti?
In tal senso, le responsabilità americane e del Governo italiano per i tragici fatti che vedono coinvolti i nostri connazionali sono enormi e come tali vanno denunziate.
Chi oggi va in Iraq convinto di fare la cosa più naturale del mondo, lavorare in regime di piena legalità, dovrebbe invece essere informato dell'esatto contrario, ed è curioso che non sia l'opposizione a porre il problema.
Agli occhi degli iracheni il ruolo dei civili coinvolti nella ricostruzione è fin troppo confondibile con quello svolto dai militari. Le due attività sono strettamente legate una all'altra ed entrambe contribuiscono a gettare le basi per uno status-quo deciso altrove. Entrambe fanno parte dello stesso piano d'occupazione.

Per altro, la morte di civili non direttamente coinvolti con le operazioni belliche non è certo un'esclusiva delle "bande" irachene, ed è soltanto per l'evidente impossibilità di avere informazioni da un Governo indipendente che s'ignora il numero delle vittime civili irachene.
Del resto, uccidere un civile con un colpo alla nuca o bombardarlo quando è nel proprio letto o svolge il proprio lavoro di giornalista non fa molta differenza (abbattere un condominio per uccidere Saddam Hussein è forse da considerare lecito? E il bombardamento delle TV serba nel 1999, nel quale morirono numerosi civili, poteva forse essere giustificato da necessità belliche?)

Ha ben poco senso, quindi, operare dei distinguo e regolare i tempi dell'iniziativa politica sulla base di circostanze specifiche.
O c'è una guerra in atto, o non c'è. O c'è una violazione del diritto che rende illegale l'occupazione dell'Iraq, o non c'è nessuna illegalità.
Non si tratta di semplificazioni, ma della situazione che si è determinata con la scelta della guerra, giusta o sbagliata che fosse.
Tutto il resto, che piaccia o no, sono soltanto le conseguenze di tale scelta.
Per questo, oggi più di ieri, è necessario un intervento della comunità internazionale che faccia chiarezza su tutte le questioni inerenti la legittimità dell'intervento militare anglo-americano e della presenza straniera in Iraq.
Prendere atto che la guerra c'è stata e che oggi vi è la necessità di non abbandonare l'Iraq al proprio destino non può infatti significare anche la cancellazione delle eventuali colpe e dei gravi danni oggettivamente arrecati alla popolazione irachena.
 
 Franco Ragusa



 
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