A ben vedere, tutte questioni attinenti la sfera del diritto e rispetto
alle quali si deve però ammettere l'assenza di istituzioni internazionali
in grado di dare risposte che valgano per tutti e con principi non contrattabili,
come invece è stato per le ultime guerre, dove è stata applicata
la logica, questa sì ben collaudata, dei due pesi e due misure a
seconda delle convenienze del più forte: alcuni paesi meritano la
guerra; altri, con gli stessi comportamenti, comprensione.
Nulla di cui sorprendersi, quindi, se è proprio in ambito
internazionale che si debbono registrare le ingiustizie più odiose.
Ma nonostante ciò, e nonostante le resistenze statunitensi,
sulla questione irachena sta divenendo sempre più pressante la richiesta
di una nuova risoluzione che sostanzialmente trasferisca all'ONU il controllo
della transizione irachena oggi nelle mani dall'amministrazione USA.
Per questo, sorprende non poco che il dibattito sulle questioni sopra
elencate possa in qualche modo essere stato messo in sordina anche se in
presenza della drammatica vicenda che ha coinvolto 4 nostri connazionali.
Anche perché, dare un nome ed un cognome alla presenza straniera
in Iraq, e quindi decidere del futuro della missione dei militari italiani,
non rappresenterebbe certo un cedimento a chissà quale ricatto,
ma la naturale conseguenza della scelta di far assumere all'ONU quel ruolo
che oggi è delle forze militari che unilateralmente hanno deciso,
in assenza delle armi di distruzione di massa e di legami del vecchio regime
con Al Qaeda, di fare "il bene" degli iracheni.
Delle due l'una, infatti: o si riconosce la piena legittimità
alla coalizione dei volenterosi, per cui in Iraq vi sono soltanto terroristi
che si ostinano ad interferire con il processo di transizione democratica;
o si riconosce che in Iraq vi è una situazione d'illegalità
internazionale tale da richiedere una nuova risoluzione dell'ONU.
Non si tratta di semplici dettagli.
Riconoscere o meno la legittimità dell'attuale presenza militare
straniera in Iraq, per di più nei termini sopra evidenziati, cambia,
sostanzialmente, l'approccio nei confronti di tutte le "violenze" compiute
a danno della coalizione.
Combattere contro un'occupazione illegale, utilizzando i soli
mezzi di cui si può disporre di fronte alla forza militare più
forte al mondo, è un diritto inalienabile che non può essere
negato in alcun modo.
Altresì, nel caso iracheno, visto il tipo di occupazione, questo
diritto non può essere negato neanche quando rivolto contro la presenza
civile.
Chi e come, infatti, può oggi disporre delle risorse irachene?
Chi e come decide della ricostruzione? Chi e come decide degli appalti?
Chi e come assegna questi appalti? Chi e come partecipa a questi appalti?
In tal senso, le responsabilità americane e del Governo italiano
per i tragici fatti che vedono coinvolti i nostri connazionali sono enormi
e come tali vanno denunziate.
Chi oggi va in Iraq convinto di fare la cosa più naturale del
mondo, lavorare in regime di piena legalità, dovrebbe invece essere
informato dell'esatto contrario, ed è curioso che non sia l'opposizione
a porre il problema.
Agli occhi degli iracheni il ruolo dei civili coinvolti nella ricostruzione
è fin troppo confondibile con quello svolto dai militari. Le due
attività sono strettamente legate una all'altra ed entrambe contribuiscono
a gettare le basi per uno status-quo deciso altrove. Entrambe fanno parte
dello stesso piano d'occupazione.
Per altro, la morte di civili non direttamente coinvolti con le operazioni
belliche non è certo un'esclusiva delle "bande" irachene, ed è
soltanto per l'evidente impossibilità di avere informazioni da un
Governo indipendente che s'ignora il numero delle vittime civili irachene.
Del resto, uccidere un civile con un colpo alla nuca o bombardarlo
quando è nel proprio letto o svolge il proprio lavoro di giornalista
non fa molta differenza (abbattere un condominio per uccidere Saddam Hussein
è forse da considerare lecito? E il bombardamento delle TV serba
nel 1999, nel quale morirono numerosi civili, poteva forse essere giustificato
da necessità belliche?)
Ha ben poco senso, quindi, operare dei distinguo e regolare i tempi
dell'iniziativa politica sulla base di circostanze specifiche.
O c'è una guerra in atto, o non c'è. O c'è una
violazione del diritto che rende illegale l'occupazione dell'Iraq, o non
c'è nessuna illegalità.
Non si tratta di semplificazioni, ma della situazione che si è
determinata con la scelta della guerra, giusta o sbagliata che fosse.
Tutto il resto, che piaccia o no, sono soltanto le conseguenze di tale
scelta.
Per questo, oggi più di ieri, è necessario un intervento
della comunità internazionale che faccia chiarezza su tutte le questioni
inerenti la legittimità dell'intervento militare anglo-americano
e della presenza straniera in Iraq.
Prendere atto che la guerra c'è stata e che oggi vi è
la necessità di non abbandonare l'Iraq al proprio destino non può
infatti significare anche la cancellazione delle eventuali colpe e dei
gravi danni oggettivamente arrecati alla popolazione irachena.
Franco Ragusa