Riforme Istituzionali
L'editoriale
 
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     22 settembre 2004
 
Se la riforma è truccata
 
In un editoriale non si dovrebbe, ma in considerazione dell’importanza dell’argomento supponiamo lo stesso che un bel giorno arrivino i marziani in Italia e che decidano, bontà loro, di occuparsi di “riforme istituzionali”.
Secondo logica, anche se “marziana”, il primo approccio alla questione potrebbe rivelarsi di tipo esplorativo. E sì, dagli abitanti del pianeta rosso ci si può aspettare di tutto. Addirittura: prima un’indagine a tutto campo per individuare gli eventuali problemi; e poi, soltanto dopo (perditempo?), le eventuali soluzioni da adottare.
 
E pur vero, però, che non basta scendere da Marte per pensare di poter ignorare i buoni propositi dei novelli costituzionalisti che siedono in Parlamento. Risulterebbe quanto mai oltraggioso, infatti, un atteggiamento di tipo scientifico che osasse trascurare la smania riformatrice che in questi ultimi anni ha attraversato gran parte delle forze politiche.
Per altro, nonostante le cronache si ostinino a dipingere un quadro riformatore dagli scarsi risultati, citando a sproposito i fallimenti delle bicamerali per le riforme istituzionali che si sono via via succedute (l’ultima quella presieduta dall’On. D’Alema nella scorsa legislatura), la realtà che i nostri amici marziani si ritroverebbero di fronte è quella di un Parlamento che, con sin troppa facilità, negli ultimi anni è riuscito ad approvare ampi progetti di modifica costituzionale; e se andrà a buon fine la revisione di ben 40 articoli che l’attuale maggioranza di Governo ha già votato in prima lettura lo scorso 24 marzo al Senato, il passaggio ad una “diversa” Repubblica potrà considerarsi completato senza che da Marte ci sia stato il tempo per far arrivare un pur minimo cenno critico.
 
Dovendo quindi dare un nome ai problemi più urgenti, guardando ai lavori parlamentari di questi ultimi anni e lasciando da parte i marziani, l’elenco è sin troppo semplice da individuare:
   federalismo, con tutto quanto ne consegue in ordine alla divisione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, il Senato federale, e questo soltanto per citare alcuni aspetti;
   sul versante della forma di Governo, invece, l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni, il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro, l’eventuale sua elezione diretta.
 
Il tutto, nella più assoluta indifferenza del legislatore di fronte all’esigenza di garantire che i processi avviati possano svolgersi nel rispetto di regole democratiche condivise; ma anche e soprattutto di regole democratiche “vere”.
Sono all’attenzione di tutti, ad esempio, i continui moniti che giungono dal Capo dello Stato sulla necessità di modificare la Costituzione con il più ampio consenso delle forze politiche; evitando, cioè, di approvare riforme che non siano condivise anche da buona parte delle forze di opposizione.
 
Ma dopo l'approvazione del nuovo Titolo V, nella scorsa legislatura, con soli 4 voti di scarto, perché mai l'attuale maggioranza non dovrebbe poter fare lo stesso?
 
Ciò non significa, chiaramente, che la questione non sia fondata. Anzi, lo è!
 
Ma proprio per questo, è bene chiedersi come mai venga sollevata soltanto ora e, soprattutto, in un modo che non può portare da nessuna parte… perché i richiami e i moniti non servono a nulla, come del resto non sono già serviti a nulla in occasione dello scandaloso uso delle liste civetta alle ultime elezioni. Anche in quella circostanza, il Capo dello Stato ebbe modo di lanciare un appello che cadde nel vuoto.
 
Per risolvere il problema delle larghe maggioranze per approvare le riforme costituzionali non può quindi che esservi altra strada che l’imposizione per legge.
E non a caso, di questo si occupano le Costituzioni. Come non a caso, di questo si occupava ANCHE la nostra Costituzione prima che venisse introdotto il sistema elettorale di tipo maggioritario.
 
In conseguenza dei meccanismi della legge elettorale maggioritaria, infatti, è divenuto oggi possibile modificare la Costituzione a colpi di minoranza.
Il Polo può oggi governare e riscrivere la legge fondamentale (come in precedenza ha avuto la stessa opportunità l’Ulivo) forte di una larga maggioranza parlamentare pur non rappresentando il 50% più 1 dei cittadini che si sono recati alle urne.
Si tratta di una grave lesione dell’equilibrio costituzionale, per altro realizzata senza neanche aver fatto lo sforzo di modificare la Costituzione.
Per essere chiari: si cambia la legge elettorale con legge ordinaria, e dove prima servivano forze politiche con alle spalle il 50% più 1 degli elettori per poter modificare la Carta costituzionale, ora sono sufficienti un tot di collegi maggioritari, con il 50% o il 30% dei consensi elettorali non fa differenza. Senza cioè aver modificato una riga della Costituzione, il senso di una delle più importanti garanzie poste a tutela della legalità costituzionale è stata stravolta dall’introduzione di una banalissima legge ordinaria.
 
Ma che fine fa, a questo punto, la smania riformatrice di fronte all’ovvia necessità di affermare, quanto meno, che non si possono cambiare delicati meccanismi costituzionali agendo per vie traverse?
Improvvisamente, su un tema così delicato per il funzionamento dell’intero impianto costituzionale, è sceso un inquietante silenzio bipartisan.
 
Nessuna forza politica, ieri l’Ulivo, oggi il Polo, ha sentito l’esigenza di un intervento in grado di ripristinare, per l’approvazione delle leggi di revisione costituzionale, il quorum della maggioranza effettiva degli ELETTORI rappresentati in Parlamento.
Ma non solo. Visto il rischio, per un numero significativo di elettori, di essere espulsi dal Parlamento in conseguenza del meccanismo di conta di tipo maggioritario, sarebbe stato quanto mai opportuno studiare meccanismi in grado di garantire anche a questi elettori forme d’intervento per tutte le fasi dei processi di revisione costituzionale.
La possibilità di proporre e di emendare non può e non dovrebbe, infatti, essere di esclusivo dominio delle minoranze meglio organizzate. E l’attuale maggioranza di governo non è altro che una minoranza tra le minoranze.
Una minoranza meglio organizzata, certamente, e per questo premiata dal sistema elettorale maggioritario.
Ma se tutto ciò potrebbe avere un senso al fine di garantire la governabilità; non ne ha alcuno quando questi stessi numeri, minoritari e con l’esclusione di ampi settori della società, potrebbero venire usati come una clava per imporre importanti modifiche della Costituzione.
 
Per altro, non ci s’illuda circa le garanzie offerte dal referendum confermativo previsto dall’art. 138.
A tal riguardo, è bene ricordare che il 7 ottobre del 2001 si è svolto il primo referendum confermativo della storia repubblicana nel più totale silenzio e indifferenza delle istituzioni.
Come pochi ricorderanno, la commissione di vigilanza RAI non si costituì per chiara volontà politica della nuova maggioranza parlamentare e non venne quindi emanata la delibera per disciplinare le tribune politiche.
E senza che nessuno sia intervenuto per denunziare con forza questa forma di sabotaggio, il primo referendum costituzionale nella storia dell’Italia repubblicana si è svolto nel più totale silenzio del servizio pubblico e, cosa altrettanto grave, con il tacito accordo dell’opposizione.
La nuova maggioranza di Governo, del resto, non era interessata a fare da cassa di risonanza ad una riforma che non aveva votato ma che, nella sostanza, le stava bene, come i fatti hanno per altro ampiamente dimostrato: siamo ancora tutti in attesa del famoso progetto che in pochi mesi avrebbe dovuto stravolgere il nuovo Titolo V dell’Ulivo (il progetto di riforma già votato in prima lettura al Senato non prevede sostanziali modifiche del nuovo Titolo V).
 
Il 7 ottobre 2001 si è quindi votato, per uno strano intreccio d’interessi, in un clima di disinformazione generale: da chi non sapeva della scadenza a chi non ha avuto i mezzi per poter comprendere un quesito quanto mai complesso. Un quesito che, dal niente, ha introdotto il federalismo in Italia.
E cosa volete che sia votare su queste questioni senza essere informati e senza aver avuto modo di partecipare ad un dibattito nato dal nulla e conclusosi nel giro di pochi mesi?
Sicuramente, se un analogo referendum, nei modi sopra ricordati, si fosse svolto nell’Iraq di Saddam Hussein, tutte le forze politiche italiane non avrebbero perso l’occasione per indignarsi e per denunziare l’inutilità di una simile consultazione referendaria.
Tutto ciò è invece successo in Italia e, a tutt’oggi, non risultano interventi del legislatore atti ad impedire che ciò possa ripetersi.
 
Per altro, l’assenza d’interventi per ripristinare i preesistenti equilibri costituzionali, prima dell’introduzione del maggioritario, che logicamente avrebbero dovuto appunto anticipare tutte le modifiche costituzionali che nel frattempo sono state invece realizzate, la si deve purtroppo registrare anche nell’ambito del delicato sistema dei “pesi e contrappesi”.
Anche i poteri di nomina di natura parlamentare, infatti, hanno acquisito una diversa valenza, potendo divenire di esclusivo dominio della maggioranza parlamentare uscita vincitrice dalle elezioni.
Anche in questo caso, si vota per il Governo, ma di fatto questi voti potranno essere utilizzati dalla maggioranza parlamentare per disporre della più completa libertà d’azione su questioni che nulla hanno a che vedere con la necessità di garantire la stabilità.
 
Basti pensare all'elezione del Presidente della Repubblica che potrebbe facilmente essere eletto da coalizioni di governo ben più omogenee che nel passato ma molto meno rappresentative dell'effettiva maggioranza degli elettori. Non più un Presidente di garanzia espressione di un ampio arco di forze politiche e di un variegato insieme di interessi, ma la diretta espressione del programma di governo uscito premiato dal meccanismo elettorale.
A ciò dobbiamo poi aggiungere che questo “Presidente di parte” gode di poteri di nomina e presiede il Consiglio superiore della magistratura.
Come non sono da trascurare gli altri poteri di nomina parlamentare, tra i quali l’elezione dei Presidenti delle due Camere.

Per riassumere, con il passaggio dal proporzionale al maggioritario è divenuta concreta la possibilità, per il Governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene, di poter definire, in via pressoché esclusiva, la composizione degli organi preposti al controllo della legalità costituzionale: il controllato che nomina chi dovrebbe controllarlo.

Una situazione estremamente esplosiva di fronte alla quale è divenuto quanto mai urgente chiamare le cose con il loro vero nome ed intervenire di conseguenza.
Non più moniti presidenziali, quindi, e neanche più inutili alzate di scudi da parte dell’opposizione.
La questione oggi da porre è e deve essere una soltanto: i processi di riforma costituzionale, quali che siano e quali che siano i proponenti, debbono svolgersi in un ambito tale da offrire reali garanzie contro i colpi di mano e le vocazioni plebiscitarie delle maggioranze del momento.
In tal senso, però, è proprio all’opposizione di centro sinistra, maggioranza nella scorsa legislatura, che spetta l’onere dell’autocritica.
Senza l’ammissione degli errori compiuti (nessun intervento di riassetto degli equilibri costituzionali; per poi, appunto, approfittare dei favorevoli rapporti di forza maggioritari per varare con estrema facilità profonde modifiche alla Costituzione), non può esservi alcuna possibilità di mettere con le spalle al muro, di fronte al Paese, chi oggi intende usare gli stessi strumenti utilizzati dal centro sinistra per mutare fondamentali equilibri istituzionali.
E visto il guazzabuglio che rischia di essere approvato dall’attuale maggioranza di Governo, uno sforzo per il bene comune, in tal senso, sarebbe quanto mai apprezzato.
 
Franco Ragusa


 

 
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