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Riforme.net  -  5 aprile 2012

Nuovo art. 18: Anche quando c'è, il reintegro non conviene


di Franco Ragusa

Durante la conferenza stampa di presentazione del Ddl per la “riforma del mercato del lavoro”, rispondendo alle domande dei giornalisti circa alcuni aspetti delle modifiche sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il Ministro Fornero ha premesso di non essere una giurista.
Si tratta di una notizia bomba, che avrebbe dovuto riempire le prime pagine dei maggiori giornali, considerato che è proprio al Ministro Fornero, una che ha appena confessato di non masticare molto di questioni giuridiche, che il Governo Monti ha affidato il delicato compito di rivedere la norma sul reintegro nel posto di lavoro. È come se, per riparare il motore di una Ferrari, fosse stato scelto l’idraulico sotto casa.
Non tutte le Ferrari, è vero, contano allo stesso modo, specie se sono degli altri. Per cui, se l'obiettivo è sempre e solo stato quello di trovare le soluzioni per riuscire a neutralizzare la tutela dell'art. 18 contro i licenziamenti illegittimi, la scelta del tecnico Fornero non è stata né casuale e né tecnica.  Solo una volontà politica ben precisa e fortemente schierata poteva infatti partorire una modifica che di tecnicamente buono non ha praticamente nulla.
Il nuovo articolo 18 della Fornero è un tale volume di parole, illeggibile e di difficile comprensione, da lasciare senza fiato.
Ma forse, agli occhi del Ministro è proprio questo il pregio maggiore della nuova norma: dal reintegro per legge si passa, infatti, sempre per legge, al reintegro incomprensibile.
Una sorta di “percorso minato” che, c’è da scommetterci, nessun lavoratore oserà affrontare, visto che dal semplificatore di turno sono solo arrivate delle nuove e più confuse complicazioni, con il solo scopo di creare delle zone franche di giudizio nelle quali poter far precipitare i licenziamenti disciplinari ed economici.
Per affermare ciò non serve essere faziosi o aver letto attentamente i commi 5 e 7 del nuovo articolo 18, ma è sufficiente riprendere le parole pronunciate dal Presidente del Consiglio Monti: “Le imprese sono insoddisfatte perché avrebbero voluto la sparizione della parola reintegro, ma col tempo capiranno che ciò avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”.

Ma ciò che con ogni probabilità indurrà i lavoratori a non percorrere la strada del reintegro nel posto di lavoro, non sarà tanto il timore di rimanere beffati da un meccanismo di tutela reso nebuloso, quanto l’altra trovata che consiste nell’aver introdotto un ulteriore elemento di incertezza e danno per i lavoratori anche per le cause che potrebbero concludersi favorevolmente.
In fase di calcolo dell’indennità risarcitoria per i lavoratori che riusciranno ad ottenere il reintegro per i licenziamenti senza giustificato motivo soggettivo o per manifesta insussistenza del motivo oggettivo, si stabilisce che questa sarà “commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non potrà essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”.

Considerati i tempi della giustizia italiana, e in tal senso le promesse di interventi finalizzati ad accelerare i tempi non possono essere sufficienti, ottenere il reintegro dopo anni e vedersi risarcire con 12 mensilità al massimo, dovendo altresì tenere conto delle deduzioni previste, addirittura, per non essere riusciti a trovare un nuovo lavoro, non è certo la migliore delle prospettive per un lavoratore licenziato ingiustamente.

Nel complesso, sui licenziamenti facili non si può certo affermare che il Governo abbia fatto passi indietro. A ben vedere, il già pessimo testo di partenza risulta ulteriormente peggiorato nella versione del Ddl ora all’esame del Parlamento.
C’è da registrare, infatti, anche una minore severità per i casi nei quali il giudice potrebbe optare per il non reintegro. Dal testo presentato a marzo, l’entità degli indennizzi si riduce, passando dalle 15-27 mensilità alle 12-24 mensilità infine stabilite nel Ddl, raccogliendo così le richieste della Confindustria che chiedeva modifiche in tal senso.
Una conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che per il Governo Monti non tutte le parti sociali sono uguali.


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