Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 85 - 24/02/97
Da il manifesto del 29-Ottobre-1996: MARCO D'ERAMO

 I ricatti multinazionali per stati all'asta
  


Nota di Franco Ragusa. (24-02-97)
 
Soltanto ora viene inserito tra gli interventi di attualità l'articolo che segue.
La scelta del momento non è casuale: proprio in questi giorni la Bicamerale ha esaurita la discussione generale sui progetti di revisione costituzionale.
Sul federalismo si sono affacciate diverse ipotesi. Ora, sulla base di quanto è stato concretamente proposto, credo si possa finalmente iniziare ad entrare nel merito delle soluzioni.
Devo confessare di non avere mai messo al centro delle mie attenzioni la questione federale, anche perché, sino ad ora, questa questione è stata per lo più portata avanti dai sostenitori della "supremazia del mercato"; c'è chi cioè ha cercato di arrivare per altre vie a quei "risultati utili alle logiche d'impresa" difficilmente ottenibili nell'ambito di una "struttura unitaria di regole".
È anche vero, però, che di fronte ai possibili sbocchi presidenzialisti o comunque "maggioritari", l'opzione del federalismo potrebbe costituire un'efficace valvola di sicurezza.
L'analisi sul federalismo dovrebbe quindi procedere, a mio avviso, tenendo conto di questi due aspetti.
E relativamente al primo aspetto, propongo una prima riflessione partendo dagli spunti offerti dall'articolo di Marco D'Eramo.


 
I ricatti multinazionali per stati all'asta

 FEDERALISMO FISCALE? E' invocato da tutti, come ovvia panacea a ogni male burocratico e indolore rimedio alle spinte secessionistiche. Il federalismo è l'uovo fiscale di Colombo. E se invece, come tutte le ovvietà, si rivelasse un abbaglio, rovinoso per giunta? Sulle devastazioni che il federalismo fiscale provoca, la lezione più tagliente ci viene da dove meno ce l'aspettiamo, dalle foreste dei pini dell'Alabama, uno dei più poveri stati nel sud degli Usa. E' una vicenda esemplare che, se non fosse vera, sarebbe incredibile. Il suo antefatto sta nella possibilità, da parte di ognuno degli Stati uniti (e, in misura più limitata, di ogni città) di stabilire il proprio regime d'imposte e di decidere esenzioni, abbattimenti ed incentivi fiscali a proprio, insindacabile giudizio.
A mezz'ora di macchina a nordest di una cittadina chiamata Tuscaloosa, tra le cime dei pini s'intravede la stella a tre punte racchiusa in un cerchio che sovrasta la fabbrica dove la Mercedes sta per sfornare ogni anno 65.000 fuoristrada per il mercato Usa e l'esportazione. La fabbrica impiega solo 1.500 persone, ma sta per mandare in bancarotta uno degli Stati uniti, della potenza imperiale planetaria.

 Tutto cominciò a Tuscaloosa
Raccontata in gran dettaglio nella rassegna domenicale del New York Times, la storia comincia nel 1993, proprio quando le grandi industrie statunitensi andavano a montare i loro prodotti in stabilimenti di assemblaggio a sud del Rio Grande, il confine messicano, perché lì la mano d'opera non costava niente e gli operai non erano organizzati in sindacati. Questi stabilimenti sono chiamati maquilladoras e i sindacati Usa protestano perché fanno perdere posti in patria. Ma c'è un ma: ormai, quanto a costo del lavoro, gli Stati uniti stanno alla Germania come il Messico sta agli Stati uniti.
Così, poiché rispetto agli Usa in Germania i salari sono più che doppi, gli operai hanno il triplo di ferie pagate, migliore assistenza sanitaria e trattamento pensionistico, e sono organizzati in un potentissimo movimento sindacale (la IGMetal), l'industria di Stoccarda ha deciso tre anni fa di aprire un impianto negli States.
All'inizio i tedeschi individuarono 62 siti possibili. Nessuno di essi era in Alabama. Un semplice ragionamento economico avrebbe dato la preferenza a una delle due Caroline (del Nord o del Sud):
1) avevano un migliore accesso all'Oceano Atlantico, il che avrebbe reso più facile importare i pezzi dalla Germania ed esportare le vetture prodotte;
2) la casa madre della Mercedes, la DaimlerBenz, vi aveva già impiantato due fabbriche di camion e dunque era già installata sul territorio.
Inoltre in Carolina le organizzazioni sindacali sono scoraggiate dalle leggi locali (una delle ragioni per cui in questa regione nel 1992 si era installata la Bmw).
E qui interviene il fattore "incentivi fiscali". Per attirare la Mercedes, la Carolina promise importanti abbattimenti tributari, finanziamenti, agevolazioni al credito. Era una pratica ben consolidata. Nell'85, quando la Gm dovette scegliere un sito per la sua nuova fabbrica Saturn, il Tennessee concesse sgravi fiscali, incentivi e finanziamenti pari a un totale di 26.650 dollari per ogni posto di lavoro creato. Nello stesso anno la Toyota ricevette dal Kentucky 50.000 dollari, mentre nel '92 la Bmw ottenne dalla Carolina del sud la cifra record di 65.500 dollari per ogni posto di lavoro creato. Per la Mercedes, la Carolina era pronta a fare uno sforzo supplementare.

 Sudisti contro sudisti
Ma aveva fatto i conti senza la febbre a tre punte che aveva colto gli uomini politici e gli affaristi dell'Alabama: una fabbrica di auto di lusso in uno degli stati più disastrati, sfibrati dalla miseria e dal Ku Klux Klan. Il governatore democratico James Folson Jr. volò tre volte a Stoccarda con un pacchetto di finanziamenti sempre più generoso. Per migliorare l'immagine del proprio stato, accettò di far ammainare lo stendardo da battaglia confederato (cioè sudista) che dal 1865 ancora sventolava sul Campidoglio di Birmingham. Alla fine la Carolina dovette issare bandiera bianca e arrendersi di fronte alle concessioni dell'altro stato sudista.
Il 30 settembre 1993 la Mercedes annunciò che per la sua fabbrica aveva scelto l'Alabama. E grazie! basta guardare i munifici regali ottenuti: oltre a imponenti sgravi fiscali e crediti agevolati, l'Alabama offriva 77,5 milioni di dollari in lavori d'infrastruttura (fogne, rete idrica, strade); offriva altri 92,2 milioni di dollari per acquistare il sito ed equipaggiarlo, e circa 5 milioni di dollari (annui) per la formazione del personale.
Nel '93 il totale ammontava a 253 milioni di dollari che nel frattempo per la lievitazione dei costi sono diventati circa 300 (450 miliardi di lire) per una fabbrica di 1.500 operai, cioè circa 200.000 dollari (300 milioni di lire) per ogni posto di lavoro, e quindi 7 volte quanto aveva ottenuto la General Motors dal Tennessee, il quadruplo di quel che aveva estorto la Toyota dal Kentucky, il triplo di quel che il South Carolina aveva elargito alla Bmw. E questo senza tener conto di un'altra graziosa liberalità: lo stato dell'Alabama s'impegnava a comprare 2.500 Mercedes per i suoi dipendenti, dagli ispettori stradali a quelli agricoli, per almeno 75 milioni di dollari. Ciliegina sulla torta, l'Alabama ha un clima particolarmente ostile alle organizzazioni dei lavoratori, inclemente soprattutto per i sindacati.

 Un marchio da due tonnellate Appena ricevuta la notizia di essere stati i felici prescelti, in preda all'euforia, i membri della Camera di commercio di Birmingham stanziarono altri 75.000 dollari per innalzare un enorme cerchio con la stella a tre punte, dal peso di 2 tonnellate e mezzo, sopra il tabellone dei punteggi dello stadio. Infatti, secondo le ricerche commissionate dal governo, per ogni posto di lavoro in fabbrica, la Mercedes ne avrebbe indotti altri 1011 (in Michigan il rapporto è di 1 a 9). Si trattava quindi di 17.000 posti di lavoro complessivi. Per di più ben pagati, proprio per evitare vertenze sindacali. Adesso la paga minima Mercedes è di 12,5 dollari l'ora, che fra due anni diventeranno 17,5, il doppio della paga in Alabama (ma pur sempre la metà della paga oraria in Germania). E poi la Porsche ha deciso di usare l'impianto per montarvi 8.000 auto sportive, aumentando del 12 le unità prodotte. Tant'è che a concorrere per i primi 1.200 posti di lavoro si sono presentati in 40.000.
Ma ecco le dolenti note. Per l'Alabama 300 milioni di dollari non sono un bruscolino, rappresentando un decimo di tutte le sue entrate statali annue (3,4 miliardi di dollari nel '93). Per uno stato pesantemente indebitato era necessaria molta fantasia per reperire una cifra simile. Pensa che ti ripensa, la soluzione più astuta è stata il taglio delle spese scolastiche. Ma poiché già oggi l'Alabama è ultimo tra gli stati sulla spesa pro capite per la scuola dell'obbligo (elementare e secondaria), la Corte suprema dell'Alabama ha bocciato il provvedimento (qualche ingenuo pensa addirittura che investire nella scuola e produrre tecnici qualificati creerebbe più posti di lavoro della Mercedes).
A corto di risorse, l'Alabama ha fatto ricorso ai finanziamenti federali alla Guardia nazionale per affidare alla propria milizia statale una "missione di allenamento" per disboscare e spianare il sito della fabbrica. Naturalmente non è bastato. Nel '95 lo stato è andato in mora nel pagamento del contributo per la costruzione dell'impianto, 43 milioni di dollari. Alla fine si è dovuto rivolgere al proprio fondo statale pensionistico che gli ha prestato 98 milioni di dollari (150 miliardi di lire) al 9 annuo, un tasso più alto di 2,5 punti dei tassi correnti. La situazione si è fatta così critica che il governatore democratico Folsom è stato sconfitto dal rivale repubblicano proprio sul tema del contratto Mercedes.
La rete dei ricatti
Nel frattempo si sono ridimensionate le migliaia di posti fatti balenare. Gran parte dei componenti non arrivano dall'Alabama. Il 35 viene direttamente dalla Germania e dei 71 fornitori primari solo 10 sono dell'Alabama, 8 sono del Michigan (Detroit è centro storico dell'industria automobilistica) e altri 8 del Tennessee, nuovo fulcro del settore. Per adesso, la Mercedes ha creato in Alabama solo 600 posti nell'indotto. Per di più il mercato dei fuori strada si sta affollando con sempre nuovi gruppi a fare concorrenza ai Cherokee e Grand Explorer. E quindi le prospettive del mercato sono meno luminose di tre anni fa.
Per lo stato dell'Alabama i guai non sono finiti qui. Quando le altre compagnie hanno visto i vantaggi fiscali concessi alla Mercedes, hanno chiesto condizioni simili altrimenti sarebbero emigrate altrove. Così la Trico Steel (joint wenture della giapponese L.T.V. Sumitomo e della British steel) ha ottenuto 85 milioni di dollari di deduzioni fiscali per la sua acciaieria a Decatur, mentre la concorrente Gulf States Steel ha ottenuto l'abbattimento di 1,5 milioni di dollari all'anno per vent'anni per il suo impianto di Gadsen. Detrazioni fiscali che riducono le già magre entrate dello stato dell'Alabama (con una metafora automobilistica, il New York Times definisce il suo bilancio "supercompatto"). Minori entrate a causa delle deduzioni fiscali rendono necessari ulteriori tagli alla scuola, ai lavori pubblici, e così aumentano la povertà dello stato.
Come i cerchi concentrici di un sasso nello stagno, questo meccanismo si propaga agli stati confinanti che, per non vedersi sottrarre impianti industriali, sedi di compagnie e posti di lavoro, sono costretti a rilanciare e a concedere maggiori finanziamenti in una spirale che accelera la loro bancarotta fiscale. D'altronde le compagnie si mettono esplicitamente all'asta e minacciano di andarsene, di distruggere migliaia di posti di lavoro. E' un ricatto reso possibile dalla concorrenza spietata tra stati per concedere sempre maggiori facilitazioni fiscali. In questo regime di autonomia fiscale, finisce per perderci non uno stato, ma l'insieme dei 50 stati.
La California e il comune di Anheim hanno accettato di spendere 800 milioni di dollari d'infratruttura quando la Walt Disney aveva minacciato di traslocare Disneyland. Lo Utah ha regalato 200 milioni di dollari alla Micron Technology Inc. per costruire una fabbrica di chips di computer, anche se nell'ultimo inverno la Micron ha bloccato la sua costruzione perché il prezzo dei chips era crollato. Quest'anno, riferisce il New York Times, il Massachusetts ha concesso riduzioni fiscali per 30 miliardi di lire alla Raytheon Co. il più grande datore di lavoro dello stato che minacciava di spostare i posti di lavoro in Tennessee e in Arizona. Poi il Massachusetts ha concesso sgravi fiscali per 60 miliardi di lire alle assicurazioni dopo che la Fidelity Investments parlava di spostare migliaia di posti di lavoro in Rhode Island o altrove. L'ironia è che, appena avuti gli sgravi in tasca, la Raytheon Co. ha tagliato 4.500 posti in Massachusetts.
Per far fronte a questa crisi fiscale, i singoli stati ricorrono sempre più spesso a quelle che chiamano "tasse del peccato" (sin taxes), su sigarette e alcool. Lanciano sempre più tombole e lotterie, cercano disperatamente di aprire sempre nuovi casinò. Ma sono palliativi irrisori, e sempre più voci si levano per chiedere che sia ridotta l'autonomia fiscale, che sia introdotta una normativa federale per limitare la corsa alla bancarotta. Un esponente della Federal Reserve ha dichiarato al New York Times che solo restrizioni imposte dal Congresso di Washington possono fermare questa competizione suicida tra stati. Una proposta sarebbe di applicare un aggravio di tassa sul reddito pari fino al 100 di ogni incentivo che le compagnie ricevono per andare a installarsi in uno stato. Ma chi lo va a raccontare a Bossi?


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