Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 33 - 12/10/96
Da il manifesto: ANTONIO BEVERE *

Garanzie

E' PERNICIOSO o segno di grossa malafede affidare al diritto penale compiti che vanno al di là delle sue limitate possibilità. E' quindi errato - oltre che sul piano dei principi costituzionali -sul piano della pura realtà invocare zone franche dalle esigenze garantiste, per risolvere, in immutate condizioni strutturali, problemi del tipo di Tangentopoli.

Queste affermazioni acquistano particolare rilievo in relazione alle aspirazioni politiche e alle vicende del fondatore e promotore del pool milanese di magistrati, indicato dal popolo di destra e di sinistra come l'affossatore della Repubblica della corruzione e come la levatrice della Repubblica della virtù (virtù tanto consolidata da consentire progetti di perdono di vario taglio).

Le conclusioni di Marco Revelli ("Le due destre") sono particolarmente utili a chi voglia non solo negare consistenti effetti di palingenesi etico-politica alla tempesta giudiziaria di Mani Pulite, ma evidenziare il pericoloso clima di attesa dell'Uomo della Provvidenza, gemmato nell'infuriare di questa tempesta. Osserva Revelli: "Se anziché isolare quel glorioso 21 febbraio e celebrare l'incarcerazione del piccolo Chiesa come fosse la presa della Bastiglia, lo si fosse ricollegato alle vicende politiche che l'hanno preceduto e soprattutto al più fosco scenario finanziario e sociale dell'ottobre successivo, ci si sarebbe evitata l'illusione ottica della riscossa della virtù. E si sarebbe colto il senso di una deriva di destra che dalla crisi del "politico mediatore" porta direttamente a una domanda ben più pericolosa di semplificazione politica e amministrativa. Alla ricerca di figure ben più inquietanti: al politico manager, per un verso, capace di rispondere alla domanda di efficienza economica, liquidatore dell'antico sistema delle garanzie e amministratore del "sistema Paese" con un piglio imprenditoriale; e al leader carismatico, per l'altro verso, capace di rispondere alla domanda altrettanto pressante di un'identità nazionale, di appartenenza e di deresponsabilizzazione partecipante".

Lo stesso Vittorio Foa, che ha creduto a un ritorno della virtù, deve riconoscere che le tempeste politico-giudiziarie hanno lasciata inalterata la società italiana nei suoi rapporti civili e interpersonali: la paura ha per qualche tempo frenato la corruzione negli affari, ma è stata solo una tregua. La coerenza e il coraggio di un gruppo di magistrati non potevano avere un'efficacia pervasiva nella società, non hanno provocato una riforma intellettuale e morale.

Questi magistrati coerenti e coraggiosi hanno provocato una arcinota riforma del processo penale, incentrato sulla coercizione e collaborazione dell'accusato, rendendo necessaria l'enunciazione esplicita, da parte del legislatore, del divieto di ritenere pericoloso l'imputato che non collabora.

Mezzi e fini

Nonostante questa tardiva riforma, il processo di Tangentopoli si presenta fondato su una spregiudicata capacità di adeguare di volta in volta i mezzi più efficaci ai fini desiderati, con una netta accentuazione della dimensione teleologica (dominata dall'elemento dello scopo) su quella deontologica (dominata dall'elemento del dovere di obbedienza a valori assoluti). Il processo è così diventato, con una inusitata chiarezza e lealtà verso i consociati, un insieme di atti che misurano il proprio valore non in base al rispetto di principi assoluti, ma in base al benessere della comunità. Il vuoto di garanzie non costituisce un'eccezione, un'anomalia, ma una prassi generalizzata, una marcia stabilmente innestata nel meccanismo processuale - nonostante le sempre più flebili critiche della classe forense - per giungere dritti alla meta. Quale? La giustizia come il popolo l'attende.

Cosa guida il processo

Il processo viene così ad essere dominato dall'etica della "responsabilità": gli atti processuali sono giudicati - all'interno e all'esterno dell'istituzione giudiziaria - non in base al rispetto o meno di regole predeterminate, ma in base alle conseguenze che, in quel determinato momento storico, sono attese come positive dalla collettività, verso cui il magistrato è ritenuto direttamente responsabile.

Questa etica della responsabilità, che secondo Max Weber (citato da Revelli), orienta l'agire politico, distinguendosi dalla etica della convinzione (secondo cui, le azioni sono giudicate in base alle convinzioni di chi le ha poste in essere, quale che sia il loro esito pratico), affonda le sue radici in un'altra distinzione weberiana tra "razionalità rispetto al valore" e "razionalità rispetto allo scopo".

Nel primo tipo, la determinante fondamentale dell'agire consiste in una credenza nell'incondizionato valore in sé di un determinato comportamento, prescindendo dalle conseguenze. Nel secondo tipo, la determinante del senso dell'agire, ciò in cui risiede il senso dell'azione, sta in un calcolo di adeguatezza dei mezzi allo scopo; il campo in cui si muove questa razionalità è quello della politica, il luogo naturale delle "azioni strumentali". Il primo tipo di razionalità dovrebbe - secondo noi - orientare il magistrato inquirente o giudicante: quel determinato tipo di atto è scelto in quanto realizzi il valore in sé del rispetto della norma processuale, il valore in sé del rispetto delle garanzie poste a tutela delle parti private, indipendente dal conseguimento di uno scopo prefissato. Capita, invece, che un determinato tipo di azione è scelto non perché realizzi il valore in sé della garanzia, ma perché è ritenuto, in base a un calcolo razionale, il più idoneo a raggiungere lo scopo prefissato.

Ben potrà essere un atto realizzatore di risultati nobilissimi, ma è altro rispetto a un normale segmento processuale. Buon giudice diviene - agli occhi della comunità, consenziente a questa metamorfosi immediata e diretta del giuridico in politico - non colui che salva il rispetto delle regole dello Stato di diritto, rispondendo al principio "la legge è uguale per tutti in qualsiasi evenienza", ma colui che garantisce alla propria comunità di riferimento la massima utilità, rispondendo al principio "fai ciò che è utile a coloro di cui sei responsabile".

Il mandato giudiziario

Ecco quindi un'ulteriore definizione di "rivoluzione" all'italiana: la collettività rinuncia a qualsiasi controllo sull'operato dell'istituzione giudiziaria e giunge, attraverso l'acritica apologia, alla delega totale alla magistratura nella lotta alle forze politiche della corruzione. Essa è rimasta sostanzialmente inerte, dinanzi al notorio livello di corruzione dei governanti; rimane inerte dinanzi alla certificazione giudiziaria di questa verità politica. Abbiamo così una democrazia rappresentativa nuova, arricchita, a doppio livello: al mandato parlamentare (che riscuote sempre meno fiducia) si è aggiunto e sovrapposto il mandato giudiziario, con quasi totale abbandono, da parte dei deleganti, di tutte le altre forme e luoghi di esercizio dei diritti politici. Grazie alla "obsolescenza" dei diritti di associazione, riunione, manifestazione del pensiero, piazze, fabbriche, uffici, scuole sono pervasi da un'assoluta pace sociale, sono svuotate di cittadini critici e dissidenti. Il diritto di critica e di censura, tutta la volontà di cambiamento sono delegati alla magistratura, che sicuramente non ha chiesto tanto potere, ma che si è trovata e si trova tuttora investita di una grande responsabilità verso la società, del dovere di dare una giustizia "quale la società l'attende", una giustizia populista e plebiscitaria.

In questa nuova democrazia, in definitiva, il demos, da un lato, è stato espropriato, in alcuni momenti cruciali, della gestione del potere politico, attraverso la "correzione di rotta" operata, attraverso le stragi, dallo Stato invisibile; dall'altro, esso stesso rinuncia ai propri poteri decisionali, delegando le rivendicazioni di cambiamento a un potere dello Stato, che mai ha avuto e mai avrà un reale ruolo di supplenza nella gestione dell'opposizione ai detentori del potere e nella gestione di un reale mutamento.

Sfugge ai più che il rispetto delle garanzie non è una bizzarrìa di pochi eccentrici da zittire e da investire di anatemi. Sfugge la semplice realtà che il magistrato o è garantista o non è; o misura la bontà dei suoi atti in base al rispetto dell'"imperativo categorico" del rispetto delle regole sempre e con chiunque, quale che sia il risultato e quale che sia la "giustizia" attesa dalla società o non è un magistrato rituale. Sarà un buon giurista del principe o aspirante principe o aspirante parlamentare; sarà un moderno e affascinante Robin Hood, che toglie irritualmente la libertà ai potenti (in fisiologico declino) per dare divertimento e sorriso ai sudditi, ma non sarà un normale magistrato, normalmente soggetto alla legge. A questa maggioritaria categoria appartengono i magistrati che, come il "piccolo giudice" di Porte aperte di Sciascia, nella quotidianità si oppongono all'uscita della violenza dello Stato dalla legalità e dai confini della civiltà giuridica. Essi con scarsa soddisfazione applicano nobilissimi principi di civiltà a chi ha impostato la propria vita sulla frode e sulla violenza; applicano nobilissimi principi a personaggi politici contro cui hanno votato ma che ben si guardano dall'aggredire verbalmente se incontrati in veste di imputati.

Si applichino le regole, dunque, in maniera uguale e conforme alla Costituzione, quale che sia l'accusato e quale che sia il risultato.

Al benessere della comunità ci pensino i cittadini, mediante l'esercizio dei diritti politici, senza aspettarsi improbabili benefici dalle scorciatoie giudiziarie, percorse all'insegna dell'utilità dalla giustizia populista.

(*) direttore di "Critica del diritto"



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